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L'emigrazione italiana può essere considerata, sia da un punto di vista quantitativo sia qualitativo, come una delle più grandi rivoluzioni culturali che hanno coinvolto il paese a partire dall'Unità d'Italia.

Infatti, da questo evento politico-sociale, l'emigrazione italiana costituisce un fenomeno sistematico, che ha un impatto profondo sullo sviluppo del paese e che con una continuità nel corso del tempo. Le statistiche dell'epoca fotografano una situazione peculiare e l'emigrazione meridionale negli Stati Uniti rappresenta l'aspetto più significativo della storia moderna. Su quattro milioni di italiani emigrati negli Stati Uniti, tra il 1870 e il 1920, tre milioni e mezzo provengono dall'Italia del Sud.

L'emigrazione storica meridionale, come fenomeno endogeno e sistematico, avviene negli anni successivi all'unificazione d'Italia. Prima del 1870 il numero degli italiani all'estero è esiguo: nel 1855 solo 968 italiani vivono a New York, di questi il 40% sono professionisti, appartenenti alla piccola classe media italiana e provenienti dalle regioni del Nord Italia. Anche un'indagine compiuta nel 1870 dai consoli del nuovo governo italiano rileva la scarsa presenza degli italiani all'estero, – circa 5.000 – emigrati soprattutto nell'America del Sud e, particolarmente, in Argentina. Ma, a partire dal 1870 fino al 1920 circa, i meridionali cominciano in massa a lasciare il loro paese in cerca di lavoro o come rifugiati politici.

E' possibile, allora, parlare di un'emigrazione meridionale verso gli Stati Uniti solo in seguito alla vicenda politica dell'Unità, quando, durante gli anni di costruzione dell'identità nazionale, milioni di meridionali decidono di lasciare il paese, quello stesso paese per il quale pochi anni prima avevano combattuto cruentemente.

La tesi centrale di questo capitolo consiste nel delineare la situazione della società di partenza al fine di esaminare le cause che hanno contribuito a determinare il fenomeno dell'emigrazione meridionale verso gli Stati Uniti. Ci si chiede, allora, perché tale fenomeno irrompa proprio negli anni di formazione dello Stato Italiano e della sua identità? Come si spiega lo sconcertante spopolamento che svuota le aree del Mezzogiorno? Quali fattori impediscono al Mezzogiorno, che pure ne ha tutte le possibilità, di partecipare al processo di ammodernamento del paese?

Tali interrogativi, posti alla base della ricerca, spingono a rivolgere l'attenzione su altri elementi, di tipo culturale e etnico che, originatesi in Italia si riflettono, poi, nei paesi di emigrazione andando a condizionare l'inclusione/esclusione culturale dei primi emigrati meridionali negli Stati Uniti e il tipo di classificazione etnica ad essi attribuito dalla società ospitante.

Le ricerche e gli studi condotti hanno messo bene in evidenza i fattori di ordine economico e sociale, quindi, i push e pull factors (per esempio, le condizioni di estrema povertà del Meridione, la crisi agraria, posta nella seconda metà dell'Ottocento, come pure lo sviluppo dell'economia capitalista negli Stati Uniti e il potenziamento dei trasporti marittimi). Questi fattori sono importanti per comprendere le cause dell'emigrazione, ma, riescono a dire poco, o quasi nulla, circa gli aspetti qualitativi del flusso, quindi, i caratteri etnici dei primi emigranti che poi hanno determinato il loro status sociale in terra straniera. Abdelmalek Sayad parla di immigrazione come “ un fatto sociale totale” e afferma: “ il discorso sull’emigrazione e l’immigrazione può essere considerato, di volta in volta, dal punto di vista dell’immigrazione, nella società di immigrazione, e dal punto di vista dell’emigrazione, nella società d’emigrazione. Ed è, infine, una storia sociale delle relazioni reciproche tra società, la società d’emigrazione e la società d’immigrazione, e tra gli emigrati-immigrati e ciascuna delle due società”.111 Si vuole evidenziare, così, il condizionamento di fattori che, sebbene non dipendano dalla volontà dell’emigrato meridionale hanno tuttavia inciso sulla sua relazione con la società di accoglienza e, di conseguenza, sulla sua capacità di inserimento. Dunque, la capacità degli immigrati di inserirsi nella società d’accoglienza si misura con le condizioni che si creano a monte e a valle del processo migratorio, ossia con le reali opportunità offerte all’immigrato dal mercato di lavoro e dalle politiche sociali nei paesi d’immigrazione e emigrazione. L’immigrazione se riflette i rapporti di egemonia e subalternità, di divisioni di interesse e di classe nonché di scelte politiche ed economiche non equilibrate, può risultare disastrosa, sia per gli immigrati, sia per la società di accoglienza.

Dal 1876 la Direzione Generale della Statistica Italiana, sotto la guida di Bodio, effettua la prima rilevazione dei flussi migratori italiani. Da questa rilevazione si usa far partire la lunga storia degli espatri poiché i dati ottenuti forniscono una visione più chiara dell'esodo. Senza dubbio, l'emigrazione italiana costituisce uno dei casi più significativi in termini numerici e non solo.

Secondo alcune fonti112 sono 27 milioni gli italiani che emigrano all'estero dal 1876 al 1976, anno in cui si riduce notevolmente il flusso. L'Italia è l'unico paese che non prevede una regolamentazione 111 Sayad, A., (2002) La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato. Raffaello Cortina,

Milano, cit. pp. 10-11.

giuridica del fenomeno, affidando l'emigrazione alla competenza degli organi di polizia, in quanto l'emigrante è percepito come un soggetto socialmente pericoloso che deve essere tenuto sotto stretto controllo. Emerge, fin dall'inizio, l'incapacità della classe dirigente di gestire la complessità del fenomeno che, invece, necessita di essere disciplinato e protetto da istituzioni ad hoc.

La polemica sull'emigrazione come problema che l'Italia del tempo non riesce a gestire risale al 1868 anche se, come mostrano i dati, nell'Italia meridionale l'emigrazione inizia e cresce nel decennio 1860- 1870 per le condizioni di povertà cui gli abitanti sono sottoposti. Nel Mezzogiorno agenti esterni e locali traggono lauti guadagni dall'espletamento di pratiche illecite che aiutano persone disperate ad emigrare. Il bisogno di una vita migliore, infatti, spinge molti contadini a vendere la poca proprietà di cui dispongono per ottenere il denaro necessario a comprare il biglietto ed imbarcarsi sulle navi, ignorando a volte la destinazione finale. Gli armatori, poi, riempiono le navi in maniera disumana e distribuiscono a bordo alimenti di pessima qualità che causano malattie e comportano spesso il rinvio dei degenti da parte delle autorità statunitensi.

Nel gennaio 1875, si tiene a Milano il primo congresso sull'emigrazione dove si decide che, per gestire il problema, occorre aprire un ufficio di emigrazione, sull'esempio dell'emigration office inglese, al fine di regolamentare i flussi ed evitare lo sfruttamento degli emigrati. Ma, solo il 15 dicembre dello stesso anno a Roma si fonda la “Società di Patronato degli Emigrati Italiani” che resta in vigore fino al 1879 con lo scopo di supportare gli emigrati e bloccare il traffico illecito delle partenze. Tale società fonda anche un “Bollettino” dove si forniscono informazioni in materia di leggi e riguardo il mercato di lavoro nelle società di accoglienza. Si costituiscono, inoltre, per mezzo della Società, comitati distribuiti nei territori maggiormente interessati, e anche all'estero la Società tiene contatti con corrispondenti locali per assistere i connazionali a distanza. Durante il suo operato, la Società cerca di far presente al governo italiano l'importanza di tutelare con leggi specifiche le classi più povere, poiché sono proprio queste ad incorrere nello sfruttamento da parte dei sub-agenti, strozzini e rappresentanti illegali di società italiane e italo-estere.

Da un punto di vista legislativo, il governo emette una serie di leggi e circolari, tra cui si menzionano quelle più rilevanti. La Circolare Lanza del 1873113 affronta la questione in maniera sbagliata, ponendo un freno all'emigrazione quando, invece, occorre emanare dei regolamenti per disciplinare il fenomeno e proteggere i più deboli. In particolare, la Circolare controlla il flusso migratorio tramite divieti che 113 Messina N., (a cura di) Assante F., Considerazioni sull'emigrazione italiana dopo l'Unità (1876-79), estratto dagli Atti

del Convegno di Studi su “Il Movimento migratorio italiano dall'unità nazionale ai giorni nostri” Napoli 24-25 giugno 1974, Napoli, 1976, cit. pp. 255-310.

però sono così estremi da bloccare i flussi, incoraggiando l'emigrazione clandestina.114 A questa circolare, segue quella del 18 aprile del 1876 da parte del Ministro dell'Interno Nicotera che si limita ad abrogare quella precedente.115

Il 20 settembre dello stesso anno si emana un'altra circolare che, pur riconoscendo i principi liberali, quindi, il diritto ad emigrare, ordina ai prefetti di rilasciare i passaporti solo se gli emigrati dimostrino di avere i soldi per il viaggio e per vivere nei primi giorni del loro arrivo.116

La legge del 30 dicembre 1888, detta legge Crispi, è una legge di polizia che tenta, senza successo, di bloccare i contratti truffaldini e il malaffare. Essa riconosce il rapporto tra gli agenti dell'emigrazione e gli emigranti117 tramite un contratto privatistico di lavoro, sancendo le norme atte a controllare le attività illecite. Finalmente, la legge del 1901 del 31 gennaio porta alla costituzione del Commissariato Generale dell'Emigrazione, chiuso nel 1927, che svolge una funzione importante nella regolamentazione dei flussi e nell'assistenza delle persone. In questa legge, inoltre, si prendono alcune misure di tutela, tra cui si stabiliscono le norme igieniche da osservare sulle navi per evitare la diffusione di malattie e il respingimento dei passeggeri una volta giunti a destinazione. In particolare, gli Stati Uniti legiferano sull'ammissione, selezionando solo quelle persone più sane c respingendo coloro che non rientrano nei parametri stabiliti dal governo americano.

Tab. n.: 1 Espatri medi annui per 1000 abitanti. Fonte: Annuario Statistico Italiano - Istat

Fino al 1880 % Fino al 1900 % Fino al 1925 %

Veneto e Friuli 11,98 Veneto e Friuli 20,31 Veneto e Friuli 33,85

Piemonte e Valle d'Aosta

9,10 Basilicata 16,52 Basilicata 18,11

Basilicata 5,98 Piemonte e Valle d'Aosta

9,94 Calabria 12,12

Liguria 5,03 Calabria 7,95 Abruzzi e Molise 10,69

Lombardia 4,98 Abruzzi e Molise 6,52 Campania 10,61

Toscana 3,27 Liguria 6,05 Piemonte e Valle

d'Aosta

7,98

114 Ivi.

115 Ibidem, pp. 256-310.

116 Bevilacqua P., De Clementi, A., Franzina, E., (2001), Storia dell'emigrazione italiana, Partenze, Donizelli, Roma, cit.p.

310.

Campania 2,07 Lombardia 5,77 Toscana 5,86 Emilia

Romagna

1,86 Campania 5,50 Emilia Romagna 5,59

Calabria 1,77 Toscana 4,79 Sicilia 5,05

Abruzzi e Molise

0,99 Emilia Romagna 3,00 Lombardia 5,03

Sicilia 0,34 Marche 2,00 Marche 4,77

Marche 0,32 Sicilia 1,66 Liguria 3,78

Puglie 0,29 Puglie 0,80 Puglia 1,85

Lazio 0,07 Sardegna 0,20 Lazio 1,36

Umbria 0,05 Umbria 0,15 Umbria 1,22

Sardegna 0,03 Lazio 0,02 Sardegna 0,86

Tab. n. 2 Abitanti e % di analfabeti. Fonte: Annuario Statistico Italiano - Istat

Regione Abitanti 1881-1901 % analfabeti 1870-1901

Veneto e Friuli 3.120.000 - 3.622.000 64,7 – 35,4 Lombardia 3.732.000 – 4.315.000 45,2 – 21,6 Emilia Romagna 2.289.000 – 2.547.000 71,9 – 46,3 Umbria 497.000 – 579.000 80,2 – 60,3 Lazio 1.257.00 – 1.586.000 67,7 – 43,8 Campania 2.642.000 – 2.014.000 80,0 – 65,1 Basilicata 539.000 – 492.000 88,0 – 75,4 Sicilia 2.933.000 – 3.568.000 85,3 – 70,9 Piemonte 3.091. 000 – 3.320.000 43,3 – 17,7 Liguria 945.000 – 850.000 56,3 – 26,5 Toscana 2.187.000 – 2.503.000 68,1 – 48,2 Marche 973.000 – 1.089.000 79,0 – 62,5 Abruzzo e Molise 1.328.000 – 1.465.000 84,8 – 69,8

Puglia 1.609.000 – 1.987.000 84,6 – 69,5

Calabria 1.282.000 – 1.439.000 87,0 – 78,7

Sardegna 680.000 – 796.000 86,1 – 68,3

Tab. n. 3 Italiani emigrati in 140 anni. Tot. Complessivo: partiti 29.036.000; tornati 10.275.000; rimasti 18.761.000

Anni Francia Germania Svizzera Usa e

Canada

Argentina Brasile Australia Altre destinaz. 1861-1870 288.000 44.000 38.000 - - - - 91.000 1871-1880 347.000 105.000 132.000 26.000 86.000 37.000 460 265.000 1881-1890 374.000 86.000 71.000 251.000 391.000 215.000 1.590 302.000 1891-1900 259.000 230.000 189.000 520.000 367.000 580.000 3.440 390.000 1901-1910 572.000 591.000 655.000 2.394.000 734.000 303.000 7.540 388.000 1911-1920 664.000 285.000 433.000 1.650.000 315.000 125.000 7.480 429.000 1921-1930 1.010.000 11.490 157.000 450.000 535.000 76.000 33.000 298.000 1931-1940 741.000 7.900 258.000 170.000 190.000 15.000 6.950 362.000 1946-1950 175.000 2.155 330.000 158.000 278.000 45.915 87.265 219.000 1951-1960 491.000 1.140.000 1.420.000 297.000 24.800 22.200 163.000 381.000 1961-1970 898.000 541.000 593.000 208.000 9.800 5.570 61.280 316.000 1971-1980 492.000 310.000 243.000 61.500 8.310 6.380 18.980 178.000 1981-1985 20.000 105.000 85.000 16.000 4.000 2.200 6.000 63.000 Partiti 6.322.000 3.458.000 4.604.000 6.201.000 2.941.000 1.432.000 396.000 3.682.000 Tornati 2.972.000 1.045.000 2.058.000 721.000 750.000 162.000 92.000 2.475.000 Rimasti 3.350.000 2.413.000 2.546.000 5.480.000 2.191.000 1.270.000 304.000 1.207.000

Fonte: Annuario Statistico Italiano - Istat

Come si vede nelle tabelle, l'emigrazione italiana verso il Nord America inizia durante la metà del XIX secolo, in particolare, gli italiani, soprattutto meridionali, si dirigono a New York, producendo così una

forte congestione urbana e dando luogo a tensioni sociali e etniche profonde. Questa sovrappopolamento porta il governo statunitense ad intraprendere una serie di provvedimenti restrittivi per bloccare l'enorme flusso, ma, di questo se ne parlerà nel capitolo successivo, dedicato alla società di arrivo.

Dopo l'Unità d'Italia, ritornando alle condizioni della società di partenza che determinano il fenomeno migratorio, il nuovo governo avvia una politica fiscale che colpisce il ceto contadino, oberandolo di tasse e imposte che rendono impossibile attuare investimenti per migliorare le condizioni di vita e incrementare le attività agricole, come, invece, viene millantato durante la campagna pre-unitaria. E' possibile affermare che, l'Unità d'Italia nasce come un'ideale romantico, le cui caratteristiche si espletano inizialmente attraverso i valori della libertà e della giustizia economica e sociale, ma già a partire dal 1860 questo ideale originario svanisce. A livello istituzionale, emerge la Questione Meridionale e, progressivamente, il Sud diventa una terra di emigranti e una colonia interna al nuovo stato.

La definizione di “Questione Meridionale” è usata per la prima volta nel 1873 per indicare la condizione di sottosviluppo del Mezzogiorno, rispetto alle altre regioni dell'Italia pre-unificata. Risulta difficile inquadrare l'Unità d'Italia e la Questione Meridionale in modo univoco, considerate le interpretazioni disparate e contraddittorie che si sono succedete nel corso del tempo.

Sulle origini delle differenze economiche e sociali tra le regioni italiane, infatti, ci sono opinioni contrastanti, che spesso sono dovute a posizioni ideologiche e politiche. Per non incorrere, allora, nel rischio di liquidare l’argomento con futili prese di posizione o con grossolane semplificazioni, si può tentare un avvicinamento al nucleo centrale della questione cercando di individuare i contributi principali.

Secondo la storiografia dominante, le differenze tra le diverse regioni sono già presenti, in maniera profonda, al momento dell'Unità: l'impulso allo sviluppo del Nord (dal miglioramento dell'agricoltura, a quello dei trasporti, al commercio, all'alfabetizzazione) contrasta con l'arretratezza del Sud, dove il sistema feudale ancora caratterizza il Regno di Napoli e i suoi domini. Con la denominazione Regno di Napoli si indica la parte continentale che a partire dal Congresso di Vienna viene definita Regno delle Due Sicilie, avente un'unica entità statuale rappresentata dal re Ferdinando di Borbone. Napoli è la capitale del Regno, tuttavia, Palermo gode di pari dignità, essendo considerata "città capitale" dell'isola di Sicilia. Il territorio che costituisce il Regno comprende le attuali regioni dell'Abruzzo, della Basilicata, della Calabria, della Campania, del Molise, della Puglia e della Sicilia, oltre a gran parte

dell'odierno Lazio meridionale (con i distretti di Sora e Gaeta) e al Circolano (con il distretto di Cittaducale), l'area orientale dell'attuale provincia di Rieti. Il Regno, inoltre, comprende l'arcipelago di Pelagosa, oggi parte della Croazia, incluso nella provincia di Capitanata. L'attuale città campana di Benevento e quella laziale di Pontecorvo, invece, appartengono allo Stato Pontificio. Il Regno è suddiviso, convenzionalmente, tra la parte continentale, definita come i Reali Dominii al di qua del

Faro, e la Sicilia, definita, invece, come i Reali Dominii al di là del Faro, con riferimento al Faro di

Messina. Amministrativamente, invece, il Regno si compone di 22 province, 15 collocate nella Sicilia citeriore (l'ex Regno di Napoli) e 7 nella Sicilia ulteriore (l'ex Regno di Sicilia). Le province sono suddivise in unità amministrative di primi e secondo livello, rispettivamente distretti e circondari. I territori posseduti nella Sicilia Citeriore comprendono le seguenti province con i rispettivi capoluoghi: la provincia di Napoli, Napoli; la Terra del Lavoro, Caserta; il Principato Citra, Salerno; il Principato Utra, Avellino; la Basilicata, Potenza; la Capitanata, Foggia; la Terra di Bari, Bari; la Terra d'Otranto, Lecce; la Calabria Citeriore, Cosenza; la Calabria Ulteriore Prima, Reggio; la Calabria Ulteriore Seconda, Catanzaro; il Contado di Molise, Campobasso; l'Abruzzo Citeriore, Chieti; l'Abruzzo Ulteriore Primo, Teramo e l'Abruzzo Ulteriore Seconda, Aquila.

I territori posseduti nella Sicilia Citeriore comprendono le seguenti province con i rispettivi capoluoghi: la Provincia di Palermo, Palermo; la Provincia di Messina, Messina; la Provincia di Catania, Catania; la Provincia di Girgenti, Girgenti; la Provincia di Noto, Siracusa; la Provincia di Trapani, Trapani e la Provincia di Caltanissetta, Caltanissetta.

Altre correnti di pensiero, invece, sostengono le condizioni di relativo benessere del Sud, sottolineando le sue attività produttive (agricole, artigianali e industriali) di lunga tradizione e quindi, attribuiscono l'impoverimento alle politiche scellerate e ingiuste perseguite dal nuovo stato unitario.

Secondo Francesco Saverio Nitti118, tra il 1810 e il 1860, l'Italia pre-unitaria, senza distinzioni territoriali, cresce a fatica a causa della peculiare situazione interna, caratterizzata da ribellioni intestine, dalle guerre di indipendenza e dalla malaria, soprattutto nel Meridione. Nitti non rivela accentuate divergenze tra le varie zone della penisola in termini industriali, ma, osserva che, da un punto di vita finanziario, il Regno di Napoli possiede il capitale di 443,3 milioni di lire in oro, il più alto tra tutti gli stati per-unitari, corrispondente al 65,7% di tutta la moneta circolante della penisola, un patrimonio seguito da quello dello Stato Pontificio con 90,7, dal Granducato di Toscana con 85,3 e dal Regno di Sardegna, con appena 27,1 milioni. Nel periodo pre-unitario, quindi, il regno borbonico

rappresenta lo stato con la ricchezza pubblica più alta e con il debito più basso.

A proposito, una recente ricerca119 sul divario economico tra il Nord e il Sud Italia dal 1861 al 2004 mette in luce come prima dell'Unità non sussistano differenze in termini di prodotto pro-capite reddito tra le varie economie regionali, al contrario dell'opinione degli storici che colloca in tempi molto remoti le origini delle differenze di sviluppo economico, politico, culturale, già dall’epoca tardo medievale. Le differenze di sviluppo, quindi, non esistevano prima dell'Unità e non si sarebbero approfondite nei secoli successivi, tanto che, all’epoca dell’Unità, non c'è sarebbe un divario nel Pil pro capite delle due parti del paese. Gli autori così concludono: “La nostra ricostruzione induce, dunque, a ritenere che, alla data dell’Unità, non vi fossero differenze tra le due aree del paese. Nell’Italia di allora - un paese complessivamente arretrato rispetto alle grandi nazioni europee - le differenze locali, dipendenti dalla disponibilità o carenza di risorse immobili, e segnalate dalla relativa concentrazione spaziale di popolazione e attività produttive, appaiono assai più rilevanti di quelle regionali nella geografia nazionale della ricchezza e della povertà. A livello regionale le differenziazioni interne al Mezzogiorno e al Nord sono certo assai più importanti di quelle esistenti tra le due aree. (…) La presente ricerca e quelle recenti sulla crescita ineguale dell’Italia inducono a ritenere: che divari rilevanti fra regioni, in termini di prodotto pro capite, non esistessero prima dell’Unità; che essi si siano manifestati sin dall’avvio della modernizzazione economica (più o meno fra il 1880 e la Grande Guerra); che si siano approfonditi nel ventennio fascista; che si siano poi ridotti considerevolmente nei due decenni fra il 1953 e il 1973; che si siano aggravati di nuovo in seguito alla riduzione dei tassi di sviluppo dell’economia dai primi anni ’70 in poi. È evidente che una spiegazione delle vicende regionali della crescita italiana richiede l’analisi di variabili numerose; ma questa analisi deve poggiare su conoscenze di fatto il più possibile attendibili. Molte delle discussioni che si sono svolte da 130 anni sul tema dei divari Nord-Sud in Italia hanno mostrato meno interesse per la raccolta e la sistemazione di dati di fatto accertati, che non per i grandi temi dell’economia, della politica e della società italiane e per le tendenze future. In questo lavoro si è cercato di fare il contrario, raccogliendo e ordinando le conoscenze recenti e descrivendo quelli che, sulla base di quanto sappiamo oggi, sono stati i cambiamenti nel corso dell’ultimo secolo e mezzo di storia italiana nel prodotto delle regioni”.120

Giustino Fortunato121, facendo un passo indietro, contribuisce al dibattito, affermando che l'esigua spesa

119 Daniele, V., Malanima, P., (2007), Il prodotto delle regioni e il divario nord-Sud in Italia (1861-2004), Rivista di

Politica Economica, marzo-aprile.

120 Ibidem, cit. pp. 293-294.

pubblica dei governi borbonici ha favorito la grande liquidità, lo scarso debito pubblico e la bassa pressione fiscale. Fortunato è a favore dei contadini meridionali e nei suoi discorsi politici si interroga spesso sulla questione meridionale domandosi cosa fosse mai l'inferiorità del Mezzogiorno, attribuita dall'opinione pubblica e dalle istituzioni politiche.

Per Gramsci122, poi, la “questione meridionale” è tutt’altro che un fatto economico o sociale. E’ un fatto politico e storico. Politico perché riguarda una serie di opzioni della politica nazionale; storico non solo perché le sue radici affondano molto indietro nel tempo, ma perché ha segnato, per il passato, la storia del Paese e, dalla sua soluzione dipende il futuro dello stesso. Per Gramisci la “Questione Meridionale” è terreno di scontro fra “egemonie”, quindi, tra diversi progetti di sviluppo del Mezzogiorno e di governo del paese. Il primo dato che emerge nel pensiero gramsciano, è che il movimento operaio in Italia non è stato storicamente capace di esprimere una sua egemonia. E' mancata una politica autonoma e matura dei ceti più poveri. In particolare, non solo i contadini meridionali sono stati incapaci di abbandonare una tradizione di sterile ribellismo, ma, anche gli operai del Nord non hanno mostrato interesse a rinunciare ad ogni forma di collaborazione coi partiti borghesi, abbandonando le posizioni subalterne e corporative del riformismo settentrionale, per mostrarsi capaci di un progetto