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L’evoluzione della riflessione e i nuovi indici di capacità contributiva

Nel documento Dottorato di Ricerca in Diritto ed Impresa (pagine 134-139)

5. I L PROBLEMA DELLA CAPACITÀ CONTRIBUTIVA . N UOVE FORME DI

5.2. L’evoluzione della riflessione e i nuovi indici di capacità contributiva

Il primo tentativo di introdurre un tributo con un nucleo digitale risale agli anni ’90, quando è stata avanzata l'idea di istituire una nuova forma di prelievo sulle trasmissioni digitali di informazioni, denominata "bit tax"190.

Teorizzata per la prima volta in nord America191, la proposta pone l’accento sulla circostanza che "la nuova prosperità delle nazioni va cercata nei trilioni di

bits di informazioni digitali pulsanti attraverso le reti globali. Essi sono la manifestazione fisica/elettronica delle molte transazioni, conversazioni, dei messaggi vocali e visuali e dei programmi che, presi nel loro complesso, registrano il processo della produzione, della distribuzione e del consumo nella nuova economia il valore che viene aggiunto deriva dall'interattività. È questo valore a fornire produttività ai networks".

La bit tax è stata oggetto di ampie discussioni, nazionali ed internazionali, anche nell'ambito dalla commissione di esperti indipendenti nominata dalla Commissione europea, in occasione della redazione del rapporto "building the

european information society for us all"192, destinato ad esaminare gli aspetti sociali della società dell'informazione. Il tema fondamentale della discussione sposta il fulcro dei sistemi impositivi dal valore aggiunto dei beni e dei servizi alle tecnologie dell’informazione, "con un sistema impositivo basato sulla

trasmissione, ovvero un sistema nel quale l'imposta sia applicata proporzionalmente all'intensità della trasmissione delle informazioni o della comunicazione".

La proposta non trascurava il tema della soggettività passiva, individuandola nei detentori dei computer che trasmettono informazioni sulla rete; nondimeno, i primi criteri di localizzazione dell’imposta ne radicavano la territorialità nel luogo

190 A. CORDELL, T. IDE, The new wealth of nations, Club of Rome report, novembre 1994; A. CORDELL, The new taxes for a new economy, in Canada/information gouvernementale du Canada, vol. n. 2, n. 4.

191 Cfr. A. CORDELL-T. IDE, The new wealth of nations, Club of Rome report, novembre 1994; A. CORDELL, The new taxes for a new economy, in Canada/information gouvernementale du Canada, vol. n. 2, n. 4.

192 COMMISSIONE EUROPEA, Building the European information society for us all. Final policy report of the high-level expert group 20 settembre 1997.

di residenza del prestatore dei servizi elettronici. Alcuni degli ideatori del tributo193 si sono finanche spinti ad ipotizzare la misura del tributo, parametrato ai

bits trasmessi (1 centesimo di dollaro per ogni megabit trasmesso), e quindi a

stimare gettito che le diverse Amministrazioni statali avrebbero potuto conseguire194.

Sotto il profilo della ratio e della logica, nonostante la originaria proposta sembrasse rintracciare nelle trasmissioni il “valore aggiunto” dei processi “di

produzione, della distribuzione e del consumo nella nuova economia”, la bit tax

ha, fin dalle origini (e ancor più nelle teorizzazioni recenti), assunto il ruolo di tributo non molto dissimile da quelli c.d. ambientali, che mirano a colpire chi dispone di beni ambientali scarsi e, quindi, a riallineare esternalità negative del mercato195. Anche nelle originarie intenzioni, tale imposta era infatti ispirata al condivisibile intento di contrastare il cosiddetto inquinamento informatico, da intendersi come “la progressiva congestione e la crescente quantità di

informazioni spazzatura. Da questo punto di vista, la bit tax potrebbe essere considerata come un tributo con finalità di tutela dell'ambiente informatico, in quanto capace di contrastare un tipo di inquinamento proprio del ciberspazio: l'information pollution"196.

Tuttavia, l’imposta presta il fianco a molteplici considerazioni problematiche.

In primo luogo, rappresentando il bit l’unità di misura dell’informazione trasmessa in rete, esso è inidoneo a qualificare detta informazione, potendo unicamente quantificarne la dimensione. In tal modo, un’ipotetica imposta commisurata alla quantità di bits trasmessi non colpirebbe determinate tipologie di

193 In particolare Artur Cordell e Luc Soete.

194 Afferma L. Soete, nell'intervista a P. Di Nicola del mese di ottobre 1996, che applicando la bit tax nella misura di 1 centesimo di dollaro per ogni Megabit, un "Paese come il Belgio otterrebbe ogni anno circa 10 miliardi di dollari". Secondo il decimo United Nation Human Developlment report (cd. Rawoth report) "a tax of one Us cent on every 100 lenghthy emails (electronic messages) would generate well over 70 billion Us dollars a year". Per lo stesso rapporto, parte del gettito potrebbe essere devoluto agli Stati in via di sviluppo anche per consentire alla popolazione di tali Stati di disporre di computers e connettersi alla rete. Sul punto, si veda A. URICCHIO, Evoluzione tecnologica e imposizione; la cosiddetta “bit tax. Prospettive di riforma della fiscalità di internet”, in Dir. Inf., 2005, p. 753.

195 Si veda, per tutti, F. GALLO - F. MARCHETTI, I presupposti della tassazione ambientale, in Rass. Trib., 1999, p. 115.

informazioni scambiate in rete, ma consentirebbe l’assoggettamento di un

quantum indistinto di trasmissioni, colpiti dal tributo a prescindere dalla qualità

dell’informazione trasmessa. In questa prospettiva, sembra arduo affidare ad una

bit tax, come teorizzata negli anni ’90 e promossa in alcuni Stati197, il compito di colpire specificamente lo scambio di informazioni “inquinanti”. Emerge chiaro, così, il carattere differenziale di tale supposto tributo rispetto a quelli ambientali che, invece, ricollegano il presupposto198 all'effetto inquinante dell'emissione (come nel caso delle imposte sulle emissioni di anidride solforosa199 e di biossido di carbonio200), o del consumo (sacchetti di plastica201 e polietilene vergine202)203. Né sembra che il tributo possa strutturarsi come imposta gravante sul consumo di beni scarsi, intendendo per tali i beni soggetti ad esaurimento e depauperamento, essendo la rete strutturalmente “rinnovabile” e non esauribile.

Parimenti complessa è la ricostruzione del tributo in termini di soggettività e, ancor prima, di presupposto. Nelle teorizzazioni più o meno recenti, si assegna agli internet service provider, fornitori del servizio di rete, il ruolo di debitori dell’imposta. Si tratta di una scelta dettata anche da logiche di semplificazione, ove si consideri che solo gli ISP possono quantificare i bits trasmessi dagli utenti e, quindi, fornire le informazioni utili alla quantificazione della base imponibile204; peraltro, tale scelta consente di accentrare le verifiche presso soggetti individuati, e non sulla massa diffusa e indistinta di tutti gli utenti della rete.

Nondimeno, nelle teorizzazioni non si chiarisce se il soggetto passivo del tributo sia individuato negli utenti che trasmettono le informazioni (assumendo in

197 In particolare, in Ungheria, come si vedrà nel Capitolo IV.

198 F. CERIONI, Il D.Lgs. 2 febbraio 2007, n. 26: la riforma della tassazione dei prodotti energetici e dell'elettricità, in Riv. Dir. Trib., 2008, p. 49.

199 Art. 17 della legge 27 dicembre 1997, n. 449.

200 Art. 8, comma 7, della legge 23 dicembre 1998, n. 448.

201 Art. 29-bis del DL 30 agosto 1993, n. 331, convertito in legge 29 ottobre 1993, n. 427. 202 Istituito dall'art. 48 del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22.

203 Gli stessi ideatori del tributo, Soete e Kamp. affermano infatti che "non ci sarebbe differenza tra l'accesso di un utente a un messaggio di posta elettronica proveniente da un amico o da una massiccia transazione finanziaria. L'ammontare pagato sarebbe basato solo sul numero dei bits trasmessi".

204 A meno di non imporre agli utenti della rete l’istallazione di appositi misuratori di bits trasmessi, utili all’accertamento del tributo dovuto.

tal caso gli ISP la mera funzione di sostituti di imposta205), ovvero negli stessi ISP, in quanto fornitori del servizio di rete. La teorizzazione dell’imposta come tributo sull’inquinamento informatico sembrerebbe deporre nel senso della prima soluzione, essendo gli utenti i diretti responsabili dell’immissione in rete delle informazioni; viceversa, ove si acceda alla seconda soluzione, si palesa l’esigenza regolamentare (ovvero, se del caso, vietare) la successiva rivalsa economica degli ISP sugli utenti206.

Per non dire del fatto che il rapido sviluppo delle tecnologie ICT consente agli utenti della rete di scambiare una mole sempre più copiosa di informazioni e, quindi, di bit: ipotizzare una bit tax meramente proporzionale al numero di bits trasmessi significa, quindi, gravare gli utenti di oneri impositivi sproporzionati e sempre più gravosi. A titolo esemplificativo, si pensi che, in media, che la visione di un video streaming in high definition (1080p) della durata di due ore richiede la trasmissione di circa 3 Gigabyte, i.e. 24.000 Megabit: secondo la menzionata proposta di Soete e Kamp, essa sola “costerebbe” al contribuente, in termini di bit

tax, circa 240 dollari207.

Tale ultima osservazione presta il fianco ad un’ulteriore considerazione, non nuova all’Italia. Una bit tax assoggetterebbe inevitabilmente ad imposizione lo scambio (o la possibilità di accedere allo scambio) di informazioni. Questa certezza impone di indagare se le ragioni fiscali possano cagionare un pregiudizio ad un diritto fondamentale dell’individuo, quale è la libertà di informazione, tutelata non solo dalla Costituzione (art. 21) ma anche dalla CEDU (art. 10) che, ancor più chiaramente della carta costituzionale, sancisce espressamente “la

libertà di ricevere o di comunicare informazioni”. Si tratta di un tema noto al

nostro sistema, ove si consideri che, già nel 2002, la Corte Costituzionale si è trovata a deliberare – seppur sotto altri profili208 – la conformità a costituzione del

205 Sarebbe infatti assai arduo pensare ad un tributo dovuto da tutti i singoli utenti della rete, senza contestualmente ipotizzare un ruolo di sostituzione in capo agli ISP.

206 Si tratta di un tema nient’affatto sconosciuto al nostro Paese; per fare un esempio, tra le maggiori criticità della c.d. Robin Hood Tax, si annoverava proprio l’assenza di un efficace divieto di rivalsa sui consumatori finali.

207 Si tratta di un problema affrontato proprio dall’Ungheria, che ha tentato di introdurre la bit tax.

208 In quel caso, si sottolineava che il canone era destinato quasi per intero al finanziamento della concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo, la cui attività non sarebbe più dato di distinguere da quella degli altri concessionari, privati, di reti ed emittenti televisive. A tale censura

canone RAI, rispetto al quale si prospettava la contrarietà al citato art. 21 Cost. atteso il “"dominio dell’etere" da parte dello Stato”209. Una similare questione si è posta altresì all’attenzione delle corti straniere e internazionali: per fare un esempio, la Corte costituzionale francese, nel caso riguardante la Haute Autorité

pour la diffusion des oeuvres et la protection des droits sur Internet210, ha dichiarato l’incostituzionalità di una legge che imponeva la disconnessione forzata da Internet nei confronti di quei soggetti che avessero reiteratamente utilizzato la connessione per “scaricare” illecitamente materiali protetti dal diritto di autore: la ratio decidendi si sostanziava, in quel caso, nell’effetto di “isolare” tali soggetti dalla società dell’informazione e ledere il loro diritto, costituzionalmente garantito, ad accedere alle informazioni stesse. Non può naturalmente vagliarsi in astratto la conformità di una siffatta imposta e della sua intera struttura (ivi inclusi i profili accertativi e sanzionatori) a tali libertà: è tuttavia indubitabile che i legislatori non potranno prescindere dall’esaminare questa ulteriore problematica, ove intendano introdurre un tributo di tal fatta.

In ogni caso, e a prescindere da tutte le considerazioni finora esposte, giova da ultimo sottolineare che le riflessioni sulla bit tax sono, sì, inserite nel più ampio contesto della discussione giuridica che guarda alle sfide poste dalla digital

la Corte aveva tuttavia obiettato che E’ però evidente, in primo luogo, come non vi sia alcuna incompatibilità fra il carattere di interesse generale del servizio pubblico radiotelevisivo e l’imposizione di una prestazione economica, nella specie collegata alla detenzione degli apparecchi radiotelevisivi, diretta a finanziare detto servizio. Al contrario, proprio l’interesse generale che sorregge l’erogazione del servizio pubblico può richiedere una forma di finanziamento fondata sul ricorso allo strumento fiscale.

209 Corte Cost. sent. N. 284 del 19 giugno 2002. Sempre sul canone RAI si è pronunciata la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Faccio c. Italia, richiesta n. 33/04 del 26 novembre 2003, nel quale si chiedeva se se fosse ammissibile l’esclusione generalizzata dal sistema informativo televisivo e informatico di coloro che decidono di liberamente recedere dal servizio pubblico radiotelevisivo (ricorrendo alla sigillatura e piombatura degli apparecchi televisivi), oppure se tale conseguenza sia lesiva dei diritti fondamentali dell’uomo tutelati dagli articoli 8 e 10 della CEDU. La Corte ha tuttavia deciso che la sanzione dell’apposizione dei sigilli all’apparecchio televisivo in caso di recesso può essere considerata un rimedio ragionevole e proporzionale per disincentivare la rinuncia all’abbonamento, soprattutto nella misura in cui è ispirata da valutazioni di natura fiscale. Su tema, cfr. M. GREGGI, Il canone RAI tra libertà di informazione e tutela dell’interesse finanziario dello Stato nel sistema della Convenzione europea per i diritti dell’uomo, nota a Dec. del 31 marzo 2009 (sull’ammissibilità della richiesta n. 33/04) della Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. XII - Pres. Tulkens, canc. Elens – Passos, in Rass. Trib., 2009, p. 1498.

210 Décision n° 2009-580 DC del 10 giugno 2009, Conseil constitutionnel, Loi favorisant la diffusion et la protection de la création sur internet. Per un commento, cfr Internet piracy and the European political and legal orders, in “European Constitutional Law Review, 2009, pagg. 169-172.

economy, ma prescindono completamente dalla – ben diversa – tematica che

concerne la dispersione delle basi imponibili perpetrata dalle digital entrerprises. Come visto, infatti, la bit tax non inficia in alcun modo i c.d. “giganti del web”, se non nella misura (indiretta) in cui “limita” l’accesso alla rete degli utenti che accedono ai contenuti offerti da tali ultime imprese.

Di contro, altre misure di imposizione diretta ipotizzate dalla dottrina sembrano perfettamente contestualizzate nella lotta all’evasione delle digital

enterprises e appaiono vere e proprie misure alternative – e parallele – a quelle

che concernono l’imposizione diretta. In tale ottica, sembra quindi che esse riposino sul retro-pensiero che gli Stati, vincolati dalle norme internazionali rispetto alle misure che concernono l’imposizione diretta, tentino invece di accedere a – più libere – soluzioni in materia di imposizione indiretta, parimenti destinate riallineare equamente l’imposizione complessivamente gravante sulle imprese che operano nel web.

È questo il caso della c.d. imposta sulla raccolta dei dati, di cui subito si dirà.

Nel documento Dottorato di Ricerca in Diritto ed Impresa (pagine 134-139)