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I RAPPORTI DI PRODUZIONE CAPITALISTICI COME RAPPORTI ALIENATI: DAL FETICISMO DELLE MERCI AL FETICISMO DELLA

2.3 Il feticismo delle merci come caratteristica dei rapporti di scambio.

Volendo dire in sintesi in che cosa i rapporti sociali capitalistici si differenzino rispetto alle altre modalità di regolazione economica e sociale, possiamo, prendendo a prestito il linguaggio di Marx, dire questo: mentre nelle organizzazioni sociali pre- capitalistiche, qualunque forma esse abbiano assunto, i rapporti sociali apparivano come rapporti personali, nel caso dei rapporti capitalistici essi appaiono come rapporti fra cose.

Mentre, cioè, prima i rapporti sociali erano fondati su un vincolo di dipendenza personale che legava il singolo individuo alla più ampia comunità di cui faceva parte ed apparivano per quello che realmente erano, cioè rapporti personali, nel caso dei rapporti di scambio questi vincoli di dipendenza personale vengono meno e, anzi, lo scambio è concepibile in quanto tale solo se avviene fra individui formalmente liberi ed indipendenti.

Marx, però, ci dice qualcosa in più. Ci dice, cioè, non solo che lo sviluppo dei rapporti di scambio capitalistici spazza via tutti i vincoli di natura personale e presuppone l’uguaglianza formale degli individui, ma anche che le relazioni sociali connesse a tale sviluppo appaiono come “rapporti sociali tra cose” (Marx, 1974, libro I: 105). Questo è quello che egli chiama “feticismo” della merce.

Per comprendere a pieno di cosa si tratta, occorre partire dal concetto di merce e dalla sua duplice determinazione, come valore d’uso e come valore di scambio.

Innanzitutto un prodotto diventa “merce” in senso capitalistico nel momento in cui chi lo ha prodotto viene espropriato del frutto del proprio lavoro e subisce un processo di estraniazione da ciò che egli stesso ha contribuito a produrre. In altre parole, nel il modo di produzione capitalistico, il processo di produzione si attua attraverso l’unificazione, organizzata dalla figura del capitalista, dei lavoratori con i mezzi di produzione, unificazione che viene sancita attraverso lo strumento del contratto di lavoro.

Quest’ultimo, però, lungi all’essere il punto di partenza del rapporto tra capitalista e lavoratore, rappresenta, invece, il risultato di un rapporto di dominio che è occultato all’interno della fictio iuris dello scambio tra liberi ed eguali e che si concretizza nella legittimazione giuridica dell’espropriazione che i lavoratori subiscono relativamente al prodotto del loro stesso lavoro. Come spiega Fiocco:

La produzione capitalistica si dà attraverso l’unificazione dei lavoratori salariati con i mezzi di produzione, e che il soggetto che presiede a questa unificazione è il capitalista. L’unificazione si realizza nel momento in cui si lavora, ma ha come suo presupposto formale il contratto di lavoro. [...] A questo punto si dà generalmente per scontato che il prodotto sia una merce, ma analiticamente non possiamo darlo per presupposto. Il prodotto diventa merce perchè il capitalista se ne appropria separando i lavoratori dal prodotto del loro stesso lavoro. [...] Quindi la produzione capitalistica è produzione di merci, con tutte le implicazioni che questo comporta in termini di circolazione, consumo, ecologia, ecc., nonché di mercificazione dei rapporti interindividuali. Ciò che qui interessa è che attraverso la vendita del prodotto del lavoro passato il capitalista riproduce il suo potere materiale di dominio sul lavoro futuro, e attraverso l’accumulazione di profitto (il plusvalore, in termini marxiani) lo riproduce su scala allargata (Fiocco, 1998: 13-14).

Relativamente alla sua duplice determinazione, invece, il valore d’uso di una merce non è altro che l’insieme delle sue determinazioni qualitative tali da renderla utile per il soddisfacimento di un bisogno. Il solo valore d’uso, spiega Marx, non è sufficiente a qualificare un qualsiasi bene come merce e non spiega nulla del carattere “mistico” di quest’ultima.

Finché è valore d’uso, non c’è nulla di misterioso in essa [nella merce], sia che la si consideri dal punto di vista che essa soddisfa, con le sue qualità, bisogni umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto di lavoro umano. E’ chiaro come la luce del sole che l’uomo, con la sua attività, cambia in maniera utile a se stesso le forme dei materiali naturali (Marx, 1974, libro I: 103.

Non è neanche sufficiente il solo valore di scambio, inteso come la quantità di lavoro socialmente necessario per produrre una determinata merce. Questo perché, spiega Marx, pur prescindendo dalle singole determinazioni qualitative del valore,

ossia pur prescindendo dalla singolarità dei lavori concreti necessari per produrre le merci e considerando il lavoro solo come lavoro astratto, il tempo di lavoro necessario alla produzione dei mezzi di sussistenza ha sempre rappresentato, sia pure con gradi diversi a seconda delle condizioni, una preoccupazione umana e, in quanto tale, non è un elemento discriminante per comprendere, come stiamo tentando di fare, il carattere feticistico che la merce assume nell’ambito della società capitalistica.

Dunque, il carattere mistico della merce non sorge dal suo valore d’uso. E nemmeno sorge dal contenuto delle determinazioni di valore. Poiché, in primo luogo, per quanto differenti possano essere i lavori utili o le attività produttive, è verità fisiologica ch’essi sono funzioni dell’organismo umano, e che tutte tali funzioni, quale che sia il loro contenuto e la loro forma, sono essenzialmente dispendio di cervello, nervi, muscoli, organi sensoriali, ecc. umani. In secondo luogo, per quel che sta alla base della determinazione della grandezza di valore, cioè la durata temporale di quel dispendio, ossia la quantità del lavoro, la quantità del lavoro è distinguibile dalla qualità in maniera addirittura tangibile. In nessuna situazione il tempo di lavoro che costa la produzione dei mezzi di sussistenza ha potuto non interessare gli uomini, benché tale interessamento non sia uniforme nei vari gradi di sviluppo (Marx, 1974, libro I: 103-104).

Da dove deriva, allora, questo carattere “mistico” ed “enigmatico” che le merci assumono nell’ambito dei rapporti di scambio capitalistici? La risposta di Marx è la seguente: dal carattere sociale del lavoro necessario per produrle. Le merci, infatti, vengono prodotte dai vari produttori indipendentemente gli uni dagli altri e la totalità del lavoro di questi produttori costituisce il lavoro sociale complessivo necessario. Ciascun produttore, quindi, svolge una parte del lavoro sociale necessario per produrre le merci, ma il carattere sociale della sua attività non è immediatamente presupposto, bensì necessita di trovare conferma attraverso il momento successivo dello scambio.

Attraverso lo scambio, infatti, l’attività lavorativa necessaria per la produzione di una determinata merce viene confermata nel suo carattere sociale ed i prodotti del lavoro si pongono gli uni di fronte agli altri con un’unica caratteristica comune: quella di essere oggettivazioni di lavoro sociale. Accade, così, che il carattere sociale del lavoro appaia come una proprietà intrinseca delle cose anziché riferirsi alle persone e quelli che dovrebbero essere, e in ultima analisi sono, rapporti sociali fra produttori appaiono essere, invece, rapporti sociali fra prodotti del lavoro.

Le cose, cioè, nonostante siano il frutto del dispendio di forza-lavoro umana e, quindi, in quanto tali, creazioni umane, finiscono per essere dotate di vita propria, vedendosi attribuite proprietà che invece appartengono ai rapporti fra persone.

Accade, così, che i rapporti fra merci finiscano per occultare i reali rapporti sociali fra produttori e che i rapporti fra cose si ergano al di sopra dei rapporti fra gli individui. In questo consiste il feticismo della merce. Ma lasciamo la parola a Marx:

Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto di lavoro appena assume

forma di merce? Evidentemente, proprio da tale forma. L’eguaglianza dei lavori

umani riceve la forma reale dell’eguale oggettività di valore dei prodotti del lavoro, la misura del dispendio di forza-lavoro umana mediante la sua durata temporale riceve la forma della grandezza di valore dei prodotti del lavoro, infine i rapporti fra i produttori, nei quali si attuano quelle determinazioni sociali dei loro lavori, ricevono la forma d’un rapporto sociale dei prodotti del lavoro. [...] Tale carattere feticistico del mondo delle merci sorge dal carattere sociale peculiare del lavoro che produce merci. Gli oggetti d’uso diventano merci, in genere, soltanto perché sono prodotti di

lavori privati, eseguiti indipendentemente l’uno dall’altro. Il complesso di tali lavori

privati costituisce il lavoro sociale complessivo. Poiché i produttori entrano in contatto sociale soltanto mediante lo scambio dei prodotti del loro lavoro, anche i caratteri specificamente sociali dei loro lavori appaiono soltanto all’interno di tale scambio. Ossia, i lavori privati si effettuano di fatto come articolazioni del lavoro complessivo sociale mediante le relazioni nelle quali lo scambio pone i prodotti del lavoro e, attraverso i prodotti stessi, i produttori. Quindi a questi ultimi le relazioni sociali dei loro lavori privati appaiono come quel che sono, cioè, non come rapporti immediatamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma anzi, come rapporti di

cose fra persone e rapporti sociali fra cose (Marx, 1974, libro I: 104-105).

Si tratta, evidentemente, di uno stravolgimento completo, concretizzatesi nella trasposizione quasi mistica del carattere sociale del lavoro umano dalle persone alle cose, dai produttori ai prodotti. Per trovare una analogia, spiega Marx, bisogna sconfinare nel campo religioso, in cui quelli che sono i prodotti della mente umana, cioè le divinità, finiscono per autonomizzarsi ed ergersi al di sopra degli uomini stessi come figure a se stanti e dotate di vita propria.

La forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti di lavori nei quali essa si presenta non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica e con le relazioni fra cosa e cosa che ne derivano. Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi. Quindi, per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che si appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci (Marx, 1974, libro I: 104-105).

Questo significa che i rapporti sociali capitalistici sono rapporti alienati, intendendo l’alienazione come “oblio dell’origine reale delle idee o generalità, ma anche inversione del rapporto “reale” tra l’individualità e la comunità”, nonché come “scissione della comunità reale degli individui […] seguita da una proiezione o trasposizione del rapporto sociale in una “cosa” esterna, un terzo termine” (Balibar,

La reale natura dei rapporti sociali è, cioè, occultata e con essa anche lo sfruttamento e i rapporti di dominio che si nascondono dietro la fictio iuris dello scambio fra liberi ed eguali. Il feticismo della merce si trasforma ben presto in feticismo del denaro, dei rapporti di denaro e dell’accumulazione fine a se stessa, favorendo la creazione di una “società di merci” di cui gli uomini non sono altro che semplici intermediari (Balibar, 1994: 68).

Tale feticismo, spiega Balibar, lungi dall’essere qualcosa di soggettivo, rappresenta una sorta di “mediazione necessaria”, il modo, cioè, in cui la realtà, sotto certe condizioni storiche, non può non strutturarsi, pena l’impossibilità del rapporto sociale stesso. Scrive Balibar:

Il feticismo non è […] un fenomeno soggettivo, una percezione falsata della realtà. Esso costituisce, piuttosto, il modo in cui la realtà (una certa forma o struttura sociale) non può non apparire. E questo “apparire” attivo […] costituisce una mediazione o funzione necessaria, senza la quale, in condizioni storiche date, la vita della società sarebbe semplicemente impossibile. Sopprimere l’apparenza significa abolire il rapporto sociale (Balibar, 1994: 66-67).

La società capitalistica, dunque, si contraddistingue per il carattere feticisticamente alienato dei suoi rapporti sociali e per il fatto che, per la prima volta nella storia, il potere viene socialmente trasposto dalle persone alle cose, rendendo le prime semplici appendici delle seconde.

Questa “grande trasformazione”, per ritornare ai termini di Polanyi, ha come corollario un radicale cambiamento nelle modalità attraverso cui gli individui si relazionano al soddisfacimento dei propri bisogni. Questi ultimi, infatti, lungi dall’essere limitati alla semplice sfera della sussistenza, vengono mediati in modo da sollecitarne continuamente ed artificiosamente la nascita di nuovi. Anche il consumo, dunque, nella società capitalistica, diventa consumo alienato.

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