IL MITO DELLA CRESCITA COME DOGMA ED I LIMITI BIOFISICI DEL PIANETA: LA PROSPETTIVA DELLA DECRESCITA
3.1 Il mito della crescita come limite all’attuale modello di sviluppo.
“Se il mondo intero consumasse allo stesso livello di un consumatore britannico medio, avremmo bisogno di risorse pari a 3.1 pianeti come la Terra” (NEF, 2006: 13, traduzione nostra). A lanciare questo campanello di allarme è la New Economics Foundation nel suo primo rapporto sull’Happy Index Planet (HPI). In effetti, se lo standard medio di consumo dei paesi occidentali si estendesse a tutto il mondo, il pianeta finirebbe per non reggere, dal punto di vista della sua capacità bio- fisica, tale impatto. Questo perché le risorse di cui disponiamo non sono infinite e, per di più, vanno incontro, in seguito alla loro utilizzazione, ad un processo di progressiva degradazione, di cui ci occuperemo nel dettaglio più avanti, che ne rende impossibile la completa rigenerazione.
L’aspetto più paradossale, però, è costituito dal fatto che l’automatismo che associa una maggiore crescita economica, e quindi una maggiore ricchezza materiale, ad un maggiore grado di felicità e di qualità della vita delle persone, sembra non avere alcun fondamento. Al contrario, quello che sembra emergere è che, oltre una certa soglia, la crescita economica produca più danni che benefici. Infatti, come possiamo leggere nel già citato rapporto della NEF, vi è una
forte evidenza che c’è una soglia per il modello economico di sviluppo. In questo modello, una volta che un dato livello di PIL pro capite è stato raggiunto, un ulteriore crescita economica costituisce una cattiva crescita (NEF, 2006: 24, traduzione nostra).
E’ per questa ragione che, non ritenendo il PIL una misura affidabile del benessere complessivo delle popolazioni, si è ritenuto di dover procedere alla costruzione di altri indici che tenessero in conto i fattori che, invece, venivano esclusi dalla tradizionale maniera di contabilizzare la ricchezza. L’HPI (Happy Index Planet) è uno di questi.
L’HPI è un indice che misura “l’efficienza ecologica con cui si persegue l’obiettivo del benessere umano” (NEF, 2006: 2) e riflette “il numero medio di anni di vita felice prodotti da una determinata società, nazione o gruppo di nazioni, per unità
di risorse planetarie consumate” (NEF, 2006: 8). Esso è composto da tre indicatori: la soddisfazione per la qualità della vita (life satisfatcion), l’aspettativa di vita (life
expectancy), e l’impronta ecologica (ecological footprint).
Il primo indicatore, la soddisfazione per la qualità della vita, è anche il più controverso a causa del suo carattere soggettivo. Esso viene costruito sulla base di interviste in cui si chiede ai soggetti intervistati di esprimere un giudizio, graduato su di una scala, riguardo al livello di soddisfazione per la propria vita. Sicuramente non si tratta di una misurazione di tipo oggettivo, ma è anche l’indicatore che, più di ogni altro, permette di vedere come, oltre una certa soglia, il benessere delle persone non sia più correlato alla ricchezza materiale.
Il secondo indicatore, l’aspettativa di vita, rappresenta, invece, una misura oggettiva e non è altro che “il numero medio di anni che una persona nata in un determinato paese può aspettarsi di vivere” (NEF, 2006: 11). Per determinarlo occorre fare riferimento alle condizioni sociali del paese di riferimento e a dati quali la mortalità infantile, le condizioni di vita, il livello di povertà, l’efficienza del sistema sanitario, ecc.
Infine, il terzo indicatore è costituito dall’impronta ecologica la quale misura “quanta superficie di territorio è richiesta per sostenere una data popolazione ai livelli presenti di consumo, di sviluppo tecnologico e di efficienza nell’uso delle risorse” (NEF, 2006: 12). L’impronta ecologica di un paese può essere, e spesso è, di gran lunga superiore alla propria biocapacità in termini di superficie disponibile. Questo accade perché, nel calcolare l’impronta ecologica, si tiene conto anche di tutti quei beni che vengono consumati dalla popolazione di riferimento, ma che vengono prodotti in un altro paese.
Questo indicatore rappresenta una sintesi del grado di sfruttamento della biosfera a causa delle attività umane. Infatti, come scrivono Sachs e Santarius:
L’impronta ecologica rappresenta il tentativo di definire con un solo indicatore globale lo sfruttamento sconsiderato della biosfera. Riferita a ciascun paese, essa indica la superficie di territorio necessaria a sostenere una data economia, a crearne le infrastrutture, a produrre alimentazione e beni quali i servizi terziari e ad assorbire le emissioni sprigionate dal consumo di energia fossile. Così, se tutti i carichi della biosfera – escluso l’inquinamento – vengono convertiti in termini di superficie e assommati, si può quantificare l’impronta ecologica globale che gli uomini lasciano sul pianeta (Sachs, Santarius, 2007: 37).
Nel 2001 la biocapacità della Terra risultava essere intorno agli 11.2 miliardi di ettari o, se si preferisce, intorno agli 1.8 ettari per persona, mentre l’impronta ecologica globale è stata di 13,7 miliardi di ettari o di 2.2 ettari per persona (NEF, 2006: 12). Nel secondo rapporto della NEF (NEF, 2009) tale dato è stato ricalcolato e nel 2005 la biocapacità del pianeta è risultata essere pari a 2.1 ettari per persona. Se l’impronta ecologica dei paesi più poveri si mantiene largamente al di sotto di questa soglia, quella dei paesi più ricchi, invece, la supera abbondantemente: ad esempio, il Lussemburgo ha un’impronta ecologica pari a 10,2 ettari pro capite, gli Emirati Arabi di 9,5 e e gli Stati Uniti di 9,4 (NEF, 2009: 24).
Questo significa che l’umanità sta vivendo al di sopra dei limiti imposti dalla biocapacità del pianeta e che, se si continua su questa strada, le risorse andranno esaurendosi più velocemente della capacità della natura di rigenerarle.
L’HPI, quindi, è un indice che, al contrario del PIL, non tiene conto esclusivamente della ricchezza economica prodotta per valutare il benessere di una popolazione. Il concetto di benessere che sta dietro l’HPI ha un raggio molto più ampio, arrivando a considerare fattori come l’ambiente, le condizioni sociali in cui si vive, la soddisfazione per la qualità della vita, che, invece, il concetto di PIL non prende in considerazione o, molto spesso, prende in considerazione in maniera distorta. Ad esempio, un disastro ambientale che, dal punto di vista dell’HPI rappresenterebbe un elemento profondamente negativo, dal punto di vista del PIL, invece, potrebbe essere visto come un evento che, da un punto di vista strettamente economico, fa aumentare la ricchezza nazionale e quindi con una connotazione paradossalmente positiva.
E’ sorprendente vedere come, nella classifica dei paesi in base al valore dell’HPI, i primi posti non siano occupati dai paesi con il più alto livello di PIL pro capite ma, al contrario, da paesi quali, ad esempio, il Costa Rica, primo in assoluto, la Repubblica Dominicana, la Giamaica, piuttosto che la Colombia o il Brasile. I paesi occidentali stanno molto in basso, a cominciare dagli Stati Uniti (114° posto), per arrivare alla Francia (71°), all’Italia (66°) o alla Germania (51°) (NEF, 2009: 63).
Questo sta a dimostrare come crescita economica non sia necessariamente sinonimo di benessere sociale collettivo e che, anzi, una volta superata una certa
soglia, la crescita fine a se stessa finisca per essere un qualcosa di assolutamente autoreferenziale che non incide positivamente sulla vita delle persone.
La crescita all’infinito, dunque, non è altro che un mito in direzione del quale la società è spinta a causa dei rapporti feticistici di cui essa è intrisa, ma il cui carattere di irrazionalità sarebbe presto svelato se solo ci si fermasse a riflettere sulla limitatezza delle risorse del pianeta e sui sempre più ampi processi di esclusione sociale generati da questa rincorsa all’accumulazione. Il mondo, però, in particolare quello occidentale, continua ad andare avanti senza tenere minimamente conto di questi ostacoli, facendo della crescita il punto di riferimento imprescindibile dell’azione politica, economica e sociale. Come scrive Latouche:
Riducendo il fine ultimo della vita alla felicità terrestre, riducendo la felicità al benessere materiale e riducendo il benessere al Prodotto Nazionale Lordo, l’economia universale trasforma la grande ricchezza della vita in una lotta per l’accaparramento di prodotti e di beni. Il gioco economico che dovrebbe assicurare la prosperità per tutti non è, in realtà, nient’altro che una guerra economica globale. E come ogni guerra, ha vincitori e vinti: i vincitori chiassosi e festosi, cinti di un’aureola di gloria e di luce; nell’ombra, la massa dei vinti, di esclusi, di naufraghi dello sviluppo, di giorno in giorno sempre più numerosi. L’immobilismo politico, i fallimenti economici e i limiti tecnici del progetto della modernità si rinforzano reciprocamente e trasformano il sogno occidentale in un incubo. Solo un
reinserimento dell’economico e del tecnico nel sociale potrebbe consentirci di
sfuggire a questo cupo destino” (Latouche, 1997: 213-214).
E’ necessario, dunque, uno sforzo per “uscire dall’economia” (Latouche, 2005: 79), nel senso di mettere in discussione il primato che essa esercita sulla vita delle persone attraverso l’imposizione di un modello di sviluppo basato sul perseguimento incondizionato della crescita economica.
Volendo fare un parallelo con la biologia, la crescita rappresenta un processo naturale fino al raggiungimento di un limite, oltre il quale una crescita aggiuntiva non può essere che dannosa. Infatti, come possiamo leggere nel secondo rapporto della NEF:
I biologi parlano della crescita fisica come di un processo che ha un livello di ottimo oltre il quale un ulteriore crescita non solo non è benefica, ma può anzi essere dannosa. La crescita economica può essere assoggettata al medesimo tipo di analisi (NEF, 2009: 15)
Questo parallelismo tra biologia ed economia ci torna utile per introdurre un ultimo aspetto che vorremmo prendere in considerazione, cioè quello relativo ai limiti bio-fisici dell’attuale modello di sviluppo e al concetto di bioeconomia elaborato da
Nicholas Georgescu-Roegen. Di questo ci occuperemo nel prossimo conclusivo paragrafo.