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progetto folle da realizzare e non abbiamo mai pensato di venderlo, ma l’abbiamo creato per di- mostrare di cosa potevamo essere capaci. Anche il fatto di voler portare l’azienda a Tolentino è stato visto come una follia e non è stato capito per molto tempo. Molti mi accusarono di andare a prendere i soldi della Cassa del Mezzogiorno e an- cora oggi, quando mi ritrovo a cena con qualche amico torinese, questa storia ritorna a galla. Anche a quel tempo mi sembrava meschino dover spie- gare che non volevo approfittare della Cassa, che si fermava a San Benedetto del Tronto, ma volevo che l’azienda si trasferisse perché ero innamorato della mia terra. In genere la domanda successiva di- veniva: “Ma quanto ci impieghi con la macchina da Tolentino a San benedetto del Tronto?". Quando ri- spondevo che non ci voleva più di mezz’ora lo stu- pore era unanime:”E tu sposti l’azienda di 600 km e non vai a prendere i soldi della Cassa del Mezzogiorno, che sta a due passi?”. Non é facile da spiegare questa follia insita nel carattere di noi marchigiani, una sana pazzia che mi auguro questa università stia rafforzando nei ragazzi che vedo di fronte a me.

Sono un marchigiano purosangue, affascinato della sua terra, generatrice di tanti imprenditori di talen- to, che vanno dal settore calzaturiero a quello del mobile. Non solo sono marchigiano, ma mi sento ancora un abitante delle Casette, il quartiere di Macerata dove sono nato e dove ho trascorso l’in- fanzia. Si tratta di un’area che si allunga dallo Sferisterio all’ospedale, caratteristica per queste case piccole e basse, addossate le une alle altre. Proprio in nome della mia “marchigianità” desidero con gioia rinnovare la collaborazione con questo ateneo, una cooperazione già visibile nella storia passata, ma che è importante intrecciare di nuovo nei tempi odierni, così profondamente cambiati. Voi ragazzi metteteci le idee, progettate, costruite, por- tate avanti quello che la vostra creatività ha parto- rito. Io posso dare come contributo un bagaglio di esperienza che mi deriva dalla conoscenza di tutti i più grandi architetti del mondo, che in ordine al- fabetico spaziano dalla A di Agnoli e Aulenti fino al- la zeta di Zanuso, e fra la A e la Z c’è un firma- mento di nomi stupendi. Basta dare uno sguardo alla storia: Cassina ha creato maestri come Le Corbusier e Rietveld, la Thonet finanziava la

Bauhaus, fino a quando si dovette trasferire in America per l’avvento del nazismo, dove Mies van der Rohe incontrò Florence Knoll e nacque la fa- mosa Knoll. È entusiasmante pensare che quest’a- zienda sia una sintesi fra la Thonet, il Bauhaus e le nuove suggestioni dell’America.

Va comunque ricordato che la creatività è qualco- sa di molto duttile, che bisogna dosare a seconda delle situazioni. I ragazzi vogliono sempre inventare qualcosa di nuovo e questo è un aspetto positivo, perché non si potrà mai dire di essere arrivati alla fine delle novità, anche se si ha l’impressione che oramai sia stato fatto di tutto. Occorre guardarsi però dagli eccessi, dai vezzi, dettati solo dalle mo- de e che stufano in fretta. Occorre anche conside- rare che ci sono dei cult intramontabili, che posso- no solo essere riproposti mantenendo la fedeltà al- l’originale, come è il caso della nostra Vanity Fair, un mito che produciamo esattamente come veniva fatto sessant’anni fa. In altre situazioni invece oc- corre distinguersi per la creatività. Quando abbia- mo lavorato con Renzo Piano, fornendo le sedute per il Parco della Musica, abbiamo voluto studiare una situazione innovativa, collaborando con i tecni- ci del suono, per cercare di ottenere la stessa acu- stica sia nel caso in cui la poltrona fosse occupata dallo spettatore, che nel caso in cui fosse vuota. Questo è un aspetto molto interessante su cui non mi ero mai interrogato, ma che gli attori non sot- tovalutano affatto, perché ogni volta sono costretti ad adattare la voce alle varie situazioni. Quando si può dare libero sfogo alla creatività di un Richard Meier, con cui abbiamo fatto recentemente l’Ara Pacis, o di un Frank Gehry con cui abbiamo colla- borato più volte, è una gioia, ma non sempre è possibile. Per questo è necessario un equilibrio: creare cose nuove dove è fattibile, seguendo tutta- via una logica di buon senso, tenendo presente che una poltrona ha un valore patrimoniale molto lun- go e questo incide fortemente sulla possibilità di vendita.

Mi piace ricordare anche che non esiste una crea- tività definita, conclusa: se si è raggiunto l’ orizzon- te che ci si era prefissati, dietro a questo si na- sconde un altro orizzonte da raggiungere, e tra i due si dispiega tutta una traiettoria innovativa, con- traddistinta da mezzi nuovi e da una tecnologia più evoluta, che sarà emblematica di un particolare

momento storico. Non sarebbe possibile parago- nare la Frau del 2010 a quella del 1912, quando questo signore sardo preferì andare a Torino piut- tosto che rimanere nella sua isola e fondò quest'a- zienda meravigliosa, che mi attrasse allora e che continua a sedurmi oggi.

Da parte nostra non possiamo che accettare e promuovere la sfida della creatività, attraverso la creazione di un laboratorio di ricerca, rimanendo aperti agli stage, invitando i ragazzi a conoscerci. Vorrei tanto che i giovani potessero essere la for- za vitale di questo paese, credendo fortemente in se stessi e cercando di capire chi sono e cosa vo- gliono raggiungere. La Frau ha racchiuso la sua identità nel concept aziendale, cinquantaquattro parole per spiegare chi siamo, cosa vogliamo e a chi ci rivolgiamo. Penso che una sintesi e una chia- rezza del genere siano necessarie a tutti i liberi professionisti. Ogni anno quando pianifichiamo il budget ci chiediamo se siamo ancora fedeli all’i- dentità che ci siamo scelti. Nel caso in cui non sia così, occorre inventarsi qualcosa per stravolgere la situazione. Un cambiamento che a mio avviso può essere praticato soltanto con l’aiuto dei giovani, che hanno un modo di guardare il futuro comple- tamente diverso dal nostro. Perciò coraggio ragaz- zi, tirate su le maniche e non smettete mai di ave- re voglia di fare, perchè ci sono ancora persone che credono nel lavoro e negli entusiasmi, carichi di quel minimo di follia che rende appassionante il la- voro e la vita. Grazie.

Lo scorso anno ho lavorato per alcuni mesi alla preparazione di una lezione che Eduardo Vittoria avrebbe dovuto tenere nel nostro Dottorato di Ricerca in “Architettura e Design”. Più che di una lezione si trattava di una “conversazione” a due sul tema “tradizione e sperimentalismo in architettura”. Tra i materiali che avevo selezionato per costruire la “conversazione” vi era una lunga citazione di Hannah Arendt, dedicata a Walter Benjamin, che mi era sem- brata particolarmente adatta a descrivere anche il rapporto di Vittoria con la tradizione e con la storia.

“[…] in Benjamin abbiamo qualcosa di – se non unico – certo estremamente raro, il dono di pensare poetica- mente. Questo pensiero, nutrito dell'oggi, lavora con i "frammenti di pensiero" che può strappare al passato e raccogliere intorno a sé. Come il pescatore di perle che arriva sul fondo del mare non per scavarlo e riportarlo alla luce, ma per rompere staccando nella profondità le cose preziose e rare, perle e coralli, e per riportarne frammenti alla superficie del giorno, esso si immerge nelle profondità del passato non per richiamarlo in vita così come era e per aiutare il rinnovamento di epoche già consumate. Quello che guida questo pensiero è la convinzione che il mondo vivente ceda alla rovina dei tempi, ma che il processo di decomposizione sia in- sieme anche un processo di cristallizzazione; che nella "protezione del mare" - nello stesso elemento non stori- co cui deve cedere tutto quanto si è compiuto nella sto- ria - nascono nuove forme e formazioni cristalline che, rese invulnerabili contro gli elementi, sussistono e aspet- tano solo il pescatore di perle che le riporti alla luce: come "frammenti di pensiero", come frammenti o anche

come eterni "fenomeni originari” 1.

Anche Eduardo Vittoria era un pescatore di perle. Della sua figura di architetto e di intellettuale, che tanta influenza ha avuto su molti ricercatori della mia generazione, voglio ricordare uno degli aspetti forse

più singolare: la passione per le citazioni. Egli possedeva il dono di estrarre dal passato ciò che è raro e prezioso, e in questo atteggiamento stava, a mio avviso, il suo controverso rapporto con la tradizione: Vittoria sapeva bene che nel termine tradizione è presente il concetto di tradimento, non c’è tradizione infatti che non sia “tradibile”.

Vittoria “collezionava” citazioni: lo ricordo attento e divertito mentre ritagliava pagine di giornali e copie di pagine di libri, annotandole con appunti che già seguivano una precisa linea di pensiero. Aveva la ve- ra passione del “collezionista” che, per definizione, è anarchica e distruttrice: distruggere il contesto di cui l’oggetto un tempo era parte e rompere ogni asso- ciazione sistematica per valorizzarne l’autenticità e l’unicità. Il ritaglio di giornale da questo punto di vista era perfetto.

Per un intellettuale del progetto come lui, intento a speculare su nuove e non codificate forme di abit- abilità dello spazio e a combattere polemicamente i “conservatori” di professione del passato, la “forza distruggitrice” della citazione conteneva la speranza che qualcosa sopravvivesse operativamente al tem- po e, sotto forma di frammenti di pensiero, riuscisse ad interrompere la trascendenza della storia, conno- tando sinteticamente la “frase progettuale” rivolta al futuro.

Vittoria guardava al passato non come ad un cumu- lo di esperienze concluse alle nostre spalle, ma come ad un campo di “concetti, parole, immagini e sug- gestioni” da porre come materiale, vivo e plasmabile, tra l’impegno del presente e la visione del futuro. La modernità del suo pensiero, credo, stia proprio in questo: il “secolo breve” nel quale ha vissuto aveva rotto con la tradizione della storia, il suo compito di raffinato collezionista e di bricoleur intellettuale è sta- to quello di tirare fuori dal mucchio delle rovine i coc- ci ed i frammenti più preziosi, non per abbandonarsi all’ascolto nostalgico del passato ma per riflettere sul presente in vista di un futuro progettabile.

Al centro di ogni scritto di Vittoria c’è sempre la citazione. La preparazione dei testi avveniva in maniera scrupolosa e metodica e iniziava dalla rac- colta e dalla selezione di citazioni, alla ricerca costante di un nuovo criterio nel quale esse si illumi- nassero reciprocamente e, al tempo stesso, continu- assero a godere di una sospensione e di un’autono- mia, conservando la profondità del linguaggio e l’u-

Anche Eduardo Vittoria era