dell’architettura
XX ciclo
tecnico è equivalente al pensiero predittivo. L’architetto oltre che immaginare nuove spazialità e modi di abitare, materializza l’immagine utilizzando sperimentalmente il sapere tecnico, “la tecnologia fa proprie le finalità dell’architettura e tramuta quest’ultima in una produzione di spazio che non è solo fabbricazione, […] è tecnica dell’immagi- nazione […] espressione del
fattibile”5.
Esemplare, in questi termini, è stata l’opera di R. Buckminster Fuller, l’architetto inventore. L’essenza del suo lavoro progettuale era basato sull’inven- zione, un’immagine o un’idea che non restavano semplicemente sulla carta, ma si concretizzavano nella realtà, le invenzioni necessitavano di essere messe alla prova, ecco che i prototipi diventavano il mezzo per la realizzazione materiale dell’idea e per la sperimentazione dell’invenzione.
L’immaginazione e l’invenzione non nascono solo da una semplice illuminazione, è un pensiero che si materializza in un percorso non lineare che coin- volge molteplici fattori e, attraverso un sistema di rete, interessa discipline specialistiche che a volte esulano dal campo prettamente architettonico. Il processo progettuale è un continuo feedback, pro- cede per tentativi (sperimentazioni) ed inesattezze alla ricerca di nuovi modi di progettare e costruire. In questo senso si collocano gli studi di S. Ban. Nelle sue opere
l’invenzione si esprime attraverso l’uso inedito di un materiale esistente, ma mediato e interconnesso con la cultura della fabbricità, come la chiama E. Vittoria, la capacità di fare che, per S. Ban, è profon- damente radicata nella storia.
Immagine reiterata
Immaginare, dunque, è il primo atto progettuale, ma le stesse immagini, a volte, anche se con declinazioni diverse, ritornano nella storia.
In un articolo su Casabella B. Secchi parlando della città scrisse che è necessario “distinguere realistica- mente ciò che nella città e nel territorio è duro, da ciò che è malleabile, modificabile nelle sue propri- età, nel suo assetto fisico, nelle sue funzioni, nei rap- porti con gli altri oggetti, nel suo senso complessi- vo”6, una città e un’architettura dunque, che muta in
funzione dei cambiamenti esigenziali degli utenti, nel 1992 E. Benvenuto tratteggiava l’idea della necessità Immaginare
“Il mondo postmoderno si sta preparando a vivere una condizione di incertezza permanente ed irres- olubile”1, in questo clima, il progetto di città e di ar-
chitettura, come spesso avviene, assume questi pre- supposti come nuove opportunità per sviluppare nuove forme e idee. “Il nostro modo di essere ar- chitetti, in una realtà che non è mai stata tanto im- prevedibile e incerta, ci fa operare in condizioni che non consentono di stabilire alcun punto di riferi- mento sicuro”2nessuna certezza.
“Progettare l’incertezza”, come afferma E. Vittoria in uno suo scritto del 1980 “significa semplicemente immedesimarsi in una società in cambiamento che cerca nuovi modi non di sopravvivere ma di vivere, accogliendo nello spazio architettonico tutte le in- tenzioni e tutte le sollecitazioni che scorrono in tale direzione”3.
Per recepire gli stimoli che può offrire questa realtà incerta vi è quasi la necessità di fare tabula rasa dei
pensieri precedenti, disimparare per imparare. Nel
momento in cui il pensiero si libera dai preconcetti e dalle regole precedenti, da soluzioni conformi rimettendo sempre in discussione le condizioni at- traverso cui il mondo reale si espone alla nostra at- tenzione, si oltrepassano i confini, le limitazioni, an- dando oltre, affrontando le circostanze con cu- riosità intellettuale, osservando la realtà da punti di vista inconsueti, immaginando nuovi scenari, nuove forme e individuandone, al contempo, le possibilità di concretizzazione, “mettendo in scena l’immagi- nario”4, è in questi termini, quindi,che il pensiero
mi da assemblare e poi smontare, allargare e per- sonalizzare secondo le mutevoli esigenze. Questo nuovo interesse sembra oggi motivato dalla neces- sità di rispondere ai cambiamenti sociali e culturali di una società in continuo movimento, una società che sembra richiedere architetture concepite per partecipare al mutare delle cose, non più scatole murarie indifferenti al trascorrere del tempo e ai cambiamenti della vita. Al contempo si individua in queste architetture la possibilità di contribuire al mantenimento delle risorse ambientali, in quanto architetture smontabili e, a volte, totalmente rici- clabili.
Se per i nuovi monumenti l’architettura contempo- ranea si avvale di tecnologie e materiali effimeri, lon- tani dalla firmitas vitruviana, la casa, almeno in Italia, è ancora la concreta testimonianza di stanzialità, dimora radicata al suolo dove depositare giorno dopo giorno i segni del nostro vivere.
Potrà la casa tradizionale lasciare il posto a strutture precarie da installare in qualsiasi luogo? Quali po- tranno essere i sistemi costruttivi in grado di rispondere a queste nuove esigenze?
Perriccioli individua nella prefabbricazione una “strategia progettuale operativa […] in grado di assecondare l’incertezza e la mutevolezza del vi- vere quotidiano”10, queste nuove soluzioni abita-
tive, Prefabulous stanno dando vita a un mercato effervescente ed in espansione, il 30% è l’incre- mento annuo delle case kit in Europa, in Svezia il 70% delle nuove case sono costruite con sistemi prefabbricati.
La casa in scatola di montaggio o la casa container danno sicuramente l’idea di una maggiore libertà di spostamento, grazie alla facilità di trasporto e di montaggio, ma il loro successo è dovuto principal- mente agli alti requisiti tecnologico e ambientali che queste abitazioni garantiscono. Il campo sperimen- tale da cui queste costruzioni hanno attinto è chiaramente quello della micro architettura, dell’ar- chitettura mobile e trasportabile. La sperimen- tazione è un rischio che è necessario correre per poter rendere
concrete le idee e far si che funzionino, “il proble- ma come sempre, non è tanto quello di trasfor- mare l’utopia in ipotesi sperimentale, ma quello di trasformare l’ipotesi sperimentale in processo reale”11.
di un’architettura duttile, aperta alla trasformazione disponibile all’adattamento funzionale e formale. Ancora oggi, nelle ricerche attuali e in corso, ritor- nano questi temi. Architettura flessibile, adattabile, trasformabile, temporanea oltre l’emergenza, im- permanente, temi che aveva pre-figurato, nel 1966 E. Vittoria, scrivendo “Una costruzione non previ- dente, cioè non in grado di soddisfare i bisogni del- l’uomo per il prossimo futuro è vecchia prima an- cora di essere ultimata. In questo senso una costruzione deve tendere ad aver vita limitata per poter essere sostituita da una nuova, più rispon- dente alle nuove esigenze che si manifestano. La ca- pacità di previsione si concretizza proprio nel mo- do in cui è concepito il nuovo oggetto costruttivo e nella posizione che viene ad assumere nel pae- saggio architettonico”7.
Dieci anni prima, Y. Friedman, con il Manifeste de
l’architecture mobile ha esposto i principi di un’ar-
chitettura capace di cogliere le continue trasfor- mazioni che caratterizzano la mobilità sociale, una città basata su infrastrutture che prevedono abitazioni e norme urbanistiche suscettibili di mod- ifiche, in funzione dell’esigenza degli abitanti e dei residenti. Le utopie degli anni sessanta, immagini che non hanno trovato, se non in sporadici casi, (come per la torre Nakagin di K.N. Kurokawa) con- cretizzazione nella realtà immediata, hanno anticipa- to, per certi versi, molte delle cosiddette architet- ture high-tech della fine degli anni settanta e degli anni ottanta. I tubi degli ascensori che trasportano cose e persone di Plug-in city, sono le scale mobili del Beaubourg di
Renzo Piano e di Richard Rogers, i Lloyds di Londra e la Hong-Kong Bank di Norman Foster, sono le macchine immaginate e diventate realtà degli Archigram. Ecco che, come afferma Vittoria, le utopie sono necessarie “per correggere consuetu- dini pietrificate ed estranee alle nuove possibilità creative della technè”8, e “capace di proporre con-
tinuamente nuove forme di spazio”9.
Corsi e ricorsi della storia che trovano oggi un nuovo vigore, nuove giustificazioni, nuovi modi di essere. Attualmente queste tematiche hanno sti- molato lo spirito e l’immaginazione di una nuova generazione di architetti, designer (e ricercatori) che si dedicano alla ricerca e alla sperimentazione di nuove proposte, sistemi mobili o portatili, siste-
1. Immaginare, sperimentare, innovare.
potrà avere. Si tratta quindi di sollevare problemi, porsi delle domande e aprire questioni che si cre- dono ormai risolte e/o chiuse per sempre. Proviamo ad immaginare…Quali sviluppi potrebbe avere una ricerca sulle città componibili? E quali am- biti e/o settori disciplinari può interessare?
A livello urbano, per esempio, potrebbero essere riviste le normative di piano secondo criteri di flessibilità e adattabilità, normative di pianificazione, non più basate su rigide zonizzazioni, ma su una pi- anificazione che si impegni a soddisfare i bisogni del presente non negando le necessità del futuro; in ambito più prettamente tecnologico, la tendenza verso l’utilizzazione di sistemi costruttivi a catalogo ma customerizzabili è un’ulteriore campo di analisi sia per verificare la reale personalizzazione di questi sistemi che la loro possibile idoneità ad essere es- portati indiscriminatamente in qualsiasi contesto; un ulteriore estensione del tema potrebbe riguardare il mercato delle case a catalogo, si potrebbero anal- izzare le motivazioni e le condizioni che possono Immaginare quindi una città componibile è forse
lecito se si analizza una tendenza in atto, che ques- ta poi concretizzi nella realtà poco importa, le vari- abili in gioco sono sempre plurime e complesse, quello che diventa rilevante, è suscitare un interesse che va oltre alla semplice enunciazione dell’idea, le declinazioni che essa stessa può assumere e gli sviluppi connessi sono diversificati in funzione del personale punto di vista. Il lavoro progettuale colto
e pensante deve essere pertanto aperto all’avven-
tura e all’errore
aderendo alle manifestazioni irrequiete della società contemporanea12.
Conclusioni
Immaginare, sperimentare, innovare, anche su idee che si ripresentano nel corso del tempo, con- sentono di definire il pensiero (predittivo o tecnico non c’è differenza) sempre più in profondità, signifi- ca individuare quali possono essere ancora le prob- lematiche aperte e i possibili sviluppi che l’idea
Note
1. Bauman Z., La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna,1999, p. 61. 2. Vittoria E., Modelli,quantità e struttura architettonica del paesaggio.
Appunti su una ricerca architettonica, in «Zodiac», 1966, p. 16.
3. Vittoria E., Progettare l’incertezza, in L. Crespi, La progettazione tecnolo-
gica, Alinea, Firenze, 1987, p. 137.
4.Vittoria E., Insegnare il design, in Sinopoli, N., Design italiano, quale scuo-
la?, Franco Angeli, Milano, 1990, p.27.
5. E. Vittoria, Le tecnologie devianti dell’architettura, in M. Fabbri, D. Pastore, a cura di, Architetture per il terzo millennio. Una seconda rivoluzione urbana?, Fondazione Adriano Olivetti, Roma, 1988, pp. 59-68.
6. B. Secchi, Le condizioni sono cambiate, «Casabella», 498/9 ,1984 , p.8. 7. Vittoria E., Modelli, quantità e struttura architettonica del paesaggio.
Appunti su una ricerca architettonica, op. cit.
8.Vittoria E., Il costruttivismo progettante, p. 169, in La Creta R., Truppi C.,
L’architetto tra tecnologia e progetto, Milano, FrancoAngeli, 1994.
9. Vittoria E., Lo spazio vuoto dell’habitat, p. 121, in La Creta R., Truppi C., op. cit.
10. Perriccioli M., Abitare, costruire, tempo. La dimensione temporale dell’a-
bitare nel progetto contemporaneo, p. 26 in Perriccioli M., Abitare, costruire, tempo, Milano, Clup, 2004.
11. Guazzo G., Eduardo Vittoria, Gangemi, Roma,1995, p. 75.
12. Cfr. Vittoria E., Lo spazio vuoto dell’habitat, p. 121 in La Creta R., Truppi C., op. cit.
13. Cfr. Vittoria E., Il costruttivismo progettante, p. 169, La Creta R., Truppi C.,op. cit., p. 169.
Riferimenti bibliografici Vittoria E., (1966)
Modelli, quantità e struttura architettonica del paesag- gio. Appunti su una ricerca architettonica, in «Zodiac».
Secchi B., (1984)
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Wolfler Calvo M., (2007)
Archigram/Metabolist, utopie negli anni sessanta, Clean,
Napoli. influenzare la scelta verso un’architettura in serie
rispetto ad un’architettura ad hoc, in termini ancor più pragmatici il tema potrebbe trovare un risultato nella realizzazione di un data base di prodotti (com- ponenti, sistemi), che attraverso una selezione mul- ticriteriale, possa permettere di indicare al proget- tista la soluzione costruttiva o meglio i prodotti più idonei agli obiettivi di progetto. Un data base aper- to, implementabile che possa soprattutto fornire le informazioni necessarie per la costruibilità del prog- etto. Il dibattito su tematiche, anche molto indagate come questa, è ancora aperto perché il pensiero guidato dalla curiosità creativa è alla base dell’inno- vazione, e la tecnica, non come applicazione di re- gole note, ma come metodo di invenzione può pre- figurare il futuro13. Occorre pertanto lasciare spazio
al pensiero senza limitare la fantasia, proiettarsi ver- so proposte più ardite, rompere gli schematismi; si tratta solo, si fa per dire, di immaginare.
Introduzione
L’organizzazione di queste giornate di studio mi ha dato la possibilità di approfondire il pensiero di E. Vittoria, maestro della tecnologia che ho avuto il piacere di incontrare sul mio cammino universitario solo durante uno dei suoi ultimi interventi al con- vegno Sitda di Napoli dal titolo “L’invenzione del fu- turo”1. In quella circostanza mi colpì la sua atten- zione per l’idea di spazio e la sua capacità di legare l’architettura ad un contesto culturale più ampio. L’approfondimento di tale figura, avvenuto per me attraverso la lettura dei suoi scritti, in cui ho ritro- vato sintonia con tante sue idee, mi ha aperto molti spunti di riflessione che hanno portato a in- terrogarmi sul mio lavoro di ricercatrice e sulle sfumature che il significato di alcune parole sot- tende.
Senza avere la pretesa di ridurre la portata delle sue affermazioni, vorrei partire da alcune di esse per sviluppare delle riflessioni, che trovano un campo fertile di confronto in una recente espe- rienza di ricerca da me iniziata lo scorso anno2. Saperi e interdisciplinarietà
Prendo spunto per iniziare dalla frase riportata nella call: “la progettazione presuppone una tecnica
che si realizza mettendo in scena l’immaginario e rendendo comunicanti e non sovrapposte le espe- rienze culturali e progettuali provenienti dai più di- versi campi”3.
Vittoria richiama più volte questo concetto, ovve- ro la capacità dell’architettura di tessere relazioni con altri saperi. Tale riferimento evoca il tema del- l’interdisciplinarietà, argomento tanto attuale e al centro di numerosi dibattiti quanto produttore di confusione.
Che cosa può rendere comunicanti esperienze progettuali e culturali provenienti da diversi campi? Per rispondere a questa domanda ripercorrere- mo i passaggi di uno studio interdisciplinare che tenta di mettere in comunicazione il “mondo” del diritto con quello dell’architettura e più in parti- colare il diritto costituzionale con la tecnologia dell’architettura. Due settori apparentemente im- possibilitati a unirsi, ma che, al contrario, proprio andando all’origine di quella che è la vera natura degli argomenti trattati (il diritto e lo spazio), so- no arrivati ad una reciproca esigenza di contatto e di interdipendenza, indispensabile per poter af- frontare entrambe le materie in una visione più globale.
Il tema della ricerca, che costituisce la base prelimi- nare per uno studio successivo, è riassumibile nella espressione sintetica “Lo spazio dei diritti sociali”. Lo studio condotto mira ad individuare quale sia la natura dei diritti sociali, e per far questo prende av- vio da una evidenza empirica elementare: l’analisi di questi diritti è tanto più aderente alla realtà quan- to non prescinde dalla natura dello spazio. I diritti sociali, infatti, sono diritti connessi a luoghi specifici e non si riducono in mere “prestazioni” di beni o servizi forniti dalle pubbliche autorità. I diritti socia- li, insomma, non derivano dal rapporto gerarchico tra uomo e Stato ma sono identificati come le par- ticolari posizioni giuridiche di persone che godono di specifici beni umani fondamentali in luoghi pub- blici. Tali diritti, perciò, non si fondano su una do- manda di prestazione, ma su un processo di parte- cipazione alla vita espresso in un determinato luo- go fisico. Dunque le norme giuridiche che incarna- no tali diritti devono riconoscere il legame partico- lare della vita umana con quei luoghi e, in partico- lare, con gli spazi dove la vita si svolge.
In effetti, l'idea di questa ricerca deriva dalla se- guente domanda: è possibile conoscere i diritti so- ciali senza prendere in considerazione i luoghi e lo spazio di vita, dove le persone possono esercitare questo tipo di diritti?