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Il Giappone prende parte alle operazioni di peacekeeping dopo l’11 settembre

3. Difesa e Sicurezza: il Giappone e la corsa al riarmo

3.3 Il Giappone prende parte alle operazioni di peacekeeping dopo l’11 settembre

La volontà giapponese di basare la loro politica estera e di difesa sull’alleanza con gli Stati Uniti mise un altro sigillo nel 1997, anno della nuova edizione delle Linee Guida per

la Cooperazione Difensiva tra Giappone a Stati Uniti, preceduta da una dichiarazione

congiunta fatta a Tokyo nell’aprile del 1996 denominata “Un’ Alleanza per il nuovo secolo”. In quelle risalenti al 1978 si specificavano le circostanze e le modalità di cooperazione delle SDF e l’esercito statunitense in caso di un attacco diretto al territorio giapponese, mentre quelle del 1997 apportavano un fondamentale cambiamento: il campo di operazione delle SDF si poteva allargare alle “aree intorno al Giappone”. Non permettevano al Giappone di svolgere compiti operativi, ma di supporto attraverso il rifornimento delle forze americane, la concessione di basi e la condivisione di informazioni, limitando al massimo l’uso della forza. Con l’adozione delle Linee Guida del 1997, la nozione di difesa del Paese aveva assunto una concezione più ampia, che faceva rifermento alla tutela dell’equilibrio e della pace di tutta l’area circostante e non più solo quella propria del Giappone12.

11 N. Mitsuhiro, Il mito infranto del paradiso kantiano, op. cit., pp. 74-75.

12 Paolo Gentile, La politica estera e di difesa del Giappone: mutamenti recenti e dibattito accademico, 2015/2016, pp. 14-17.

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Furono fondamentali in questo processo di riforma della politica di difesa gli anni in cui era al potere il primo ministro Koizumi Junichirō. Egli in ambito di politica estera fu il promotore di una collaborazione con il presidente G.W. Bush, supportando negli anni della sua presidenza il presidente degli Stati Uniti e partecipò, entro i limiti consentiti dalla Costituzione del Paese, alle guerre in Afghanistan e in Iraq. Gli anni dell’amministrazione Koizumi furono importanti anche per la riforma amministrativa, dal 1999 al 2001. Prima del suo arrivo, il Governo giapponese aveva poco controllo rispetto al Parlamento, mentre in seguito alla riforma il primo ministro giapponese ottenne la facoltà legislativa, per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale, e la facoltà di espandere lo staff dell’ufficio del gabinetto13. In questo modo il premier ottenne un’indipendenza inedita per il Giappone.

Sebbene il Giappone non era obbligato ad intervenire alle operazioni militari statunitensi, Koizumi decise di portare il Paese al fianco degli Stati Uniti, per chiudere con una sorta di umiliazione del passato, quando il Giappone non poté intervenire direttamente nella Guerra del Golfo. Due settimane dopo l’attacco dell’11 settembre 2001, Koizumi si recò personalmente sul luogo degli eventi ed espresse la vicinanza al popolo statunitense e l’appoggio del proprio paese alla guerra al terrorismo. Infatti, nell’ottobre del 2001, Koizumi inviò alla Dieta una proposta di legge per contrastare il terrorismo.

Koizumi riuscì a far approvare la legge sulle Misure Speciali per la Ricostruzione

dell’Iraq, che finalmente gli permise di dare il contributo pratico agli Stati Uniti, sempre

rispettando i limiti concessi dalla Costituzione. Questa missione militare multilaterale fu importante perché fu la prima per Tokyo al di fuori delle operazioni delle Nazioni Unite. Tuttavia, l’opinione pubblica non era d’accordo sulla decisione, poiché diversamente da quanto ritenuto dal presidente degli Stati Uniti, per la popolazione giapponese l’invasione dell’Iraq non era un passo necessario alla campagna internazionale contro i terroristi islamici. Quando nel maggio del 2003 il primo ministro espresse il suo sostegno, il voto di disapprovazione della popolazione salì al 49%14.

Le prime truppe giapponesi arrivarono in Iraq nel gennaio del 2004, stabilendosi nella città di Samawa, nella provincia di Muthanna occupata dagli inglesi, mentre la missione di supporto aereo fu avviata completamente a marzo dopo circa tre mesi di preparazione nella zona.

13 Bjorn Erik Rasch, George Tsebelis, The Role of Governments in Legislative Agenda Setting, Routledge, London and New York, 2011, p. 265.

14 Ten Years Ago, Japan Went to Iraq … And Learned Nothing, 10 Aprile 2014. Consultabile al sito web: https://medium.com/war-is-boring/ten-years-ago-japan-went-to-iraq-and-learned-nothing-b7f3c702dd1f

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I giapponesi con lo scopo di ricostruire scuole e fornire acqua avevano mandato denaro ed ingegneri, ma i 5600 soldati giapponesi nell’area di Samawa resero questa missione la più armata del secondo dopoguerra nella storia del Giappone, anche se per ovvi motivi a questi era proibito di usare le armi. L’uso della forza armata gli era permesso solo in caso di diretta autodifesa, ma ciò avrebbe significato che la zona non era sicura e quindi avrebbe causato il ritiro delle truppe. Ai soldati giapponesi non era neanche permesso di fare la guardia da soli, infatti per ottenere protezione fecero affidamento sulle forze olandesi, australiane e britanniche.

La missione in Iraq pose sotto i riflettori le Forze di Autodifesa, che già avevano un rapporto teso con i media. In quel momento però le notizie principali riguardavano soldati giapponesi rispettosi e capaci di svolgere il loro lavoro nonostante le restrizioni. La TV giapponese trasmetteva tante riprese di truppe al lavoro, come aveva fatto solo raramente in passato. Così le Forze di Autodifesa iniziarono ad ottenere un certo livello di popolarità. Tutto sembrava procedere secondo il piano, fino a quando quattro civili giapponesi non furono rapiti e un reporter decapitato. L’ansia tra la popolazione giapponese si intensificò, ma Koizumi durante la discussione per estendere la missione di un altro anno si mostrò completamente a favore, ritenendo la situazione relativamente stabile. Più passava il tempo e più la situazione sembrava incerta, infatti nel 2005 furono segnalati degli attacchi pianificati contro le truppe giapponesi e ad agosto dello stesso anno, la polizia irachena soppresse una manifestazione causando la morte di un civile, oltre alle 46 persone che ne rimasero ferite. Nonostante gli avvenimenti, il primo ministro Koizumi insistette per un’estensione della missione e dopo aver investito capitale e aver combattuto lasciare il più possibile le truppe nella zona, quest’ultime furono fatte rientrare nel 2006. La missione fu considerata esangue.

L’intervento dei soldati giapponesi al fianco degli Stati Uniti è stato criticato poiché, viste le restrizioni che il Giappone è costretto a seguire in casi come questo, non hanno portato ulteriori supporti rispetto a quelli che avrebbero potuto dare gli appaltatori civili15. Il loro lavoro ebbe un risvolto positivo a livello internazionale e per la popolazione locale, ma in termini di interesse nazionale non ottenne niente di significativo, anzi minò la leadership del primo ministro. Mentre le Forze di Autodifesa terrestri erano state ritirate, quelle aeree continuarono a trasportare rifornimenti tra Kuwait e Iraq fino al dicembre del 2008. La missione aerea fu, tra tutte, quella ad aver riscosso un piccolo beneficio.

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Altri esempi di interventi del Giappone sono quelli nel Gibuti e in Sud Sudan. Nel 2009 schierò aerei di pattuglia a Gibuti per contrastare i pirati somali. Come per l’esperienza irachena fu costruita una base militare giapponese, ma prima fu firmato un accordo sullo status con Gibuti per evitare qualsiasi problema legale relativo alle truppe in servizio in terra straniera. L’accordo inoltre consentiva di trasportare armi entro i confini della nazione ospitante.

Il segretario generale delle Nazioni Unite nel 2008 cercò di coinvolgere il Giappone in Sudan, ma per Tokyo era comunque fondamentale che la partecipazione fosse basata sul principio di non combattimento, proprio perché le restrizioni sulle armi fanno in modo di assicurare che il Giappone possa schierarsi solo come non combattente. Furono comunque inviate truppe per costruire strade e ponti e le cose andarono bene all’inizio, ma nel 2013 la situazione diventò pericolosa perché nel Sud Sudan esplosero episodi di violenza e di conseguenza le truppe furono confinate. Ciò che l’opinione pubblica sperava dall’esperienza in Iraq era un insegnamento secondo il quale inviare delle truppe senza alcuna autorità per poter usare la forza non avrebbe avuto successo, quindi sarebbe stato inutile mandare le SDF finché le leggi avrebbero impedito un comportamento da militari vero e proprio. Questa missione portò anche alle dimissioni della ministra della Difesa Tomomi Inada nel luglio del 2017, perché accusata di aver tenuto nascosti sviluppi e informazioni sulle attività di peacekeeping in Sud Sudan. Conosciuta per la sua vicinanza al militarismo e nazionalismo, secondo il Japan Times, se Inada avesse riferito per tempo la tensione della situazione, sarebbero potute cambiare le decisioni relative la partecipazione alla missione ONU, ma negò qualsiasi coinvolgimento nella vicenda. Intanto le truppe GSDF erano state ritirate a maggio dello stesso anno, asserendo che il motivo era stato il raggiungimento di notevoli risultati e non per ragioni di sicurezza16.