4 L’evoluzione del sé attraverso Mead
5.2 Un gioco di ruoli
La seconda opera di Goffman che prenderemo in analisi, ―Espressione e identità‖240, rende evidente il debito di Goffman nei confronti di Bateson, che viene già citato nelle prime pagine. Qui, Goffman continua la sua indagine sulle dinamiche delle relazioni interpersonali, introducendo, nel primo dei due saggi, dal titolo ―Divertimento e gioco‖, il concetto di ―interazione focalizzata‖: «invece di distinguere l‘interazione faccia a faccia a seconda che porti ad un evento oppure no, propongo una distinzione diversa: quella fra interazione focalizzata e interazione non focalizzata. L‘interazione non
239 E. Goffman, The Presentation...., pp. 288-289.
240 E. Goffman, Encounters. Two studies in the Sociology of Interaction, The Bobbs-Merrill Company, Indianapolis 1961, tr. it. P. Maranini, Espressione e identità, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1979.
focalizzata consiste in quelle comunicazioni interpersonali che si verificano in virtù della sola presenza reciproca delle persone, come quando, dai lati opposti di una stanza, due estranei osservano ciascuno i vestiti, le posizioni e i modi dell‘altro, mentre ciascuno modifica il proprio contegno rendendosi conto di essere osservato dall‘altro. L‘interazione focalizzata si verifica quando si mettono effettivamente d‘accordo per dirigere momentaneamente l‘attenzione su un unico fuoco conoscitivo e visivo, come in una conversazione, in una partita a scacchi, e nel caso di un compito eseguito in comune da una cerchia ristretta di collaboratori faccia a faccia»241.
Ovviamente, non è un caso che Goffman utilizzi come esempio una partita a scacchi: il gioco è infatti oggetto della sua analisi in questo primo saggio, un‘analisi che si sviluppa, come dicevamo, a partire dal quadro teorico offerto da Bateson. Il filo conduttore con le rappresentazioni di cui ha parlato nella sua prima opera è evidente; dopotutto, anche il gioco è, come abbiamo già ribadito a più riprese, una cornice. E infatti anche qui Goffman rileva alcune caratteristiche della rappresentazione: «proprio come certi desideri e sentimenti sono tenuti sotto controllo per la durata dell‘incontro, spesso troviamo anche che il partecipante si disimpegna dalle attività che debordano dal quadro di durata e di persone dell‘incontro in corso[…]. Le regole che stabiliscono a che cosa non dobbiamo dare rilevanza, stabiliscono anche che cosa dobbiamo trattare come reale. Ci può essere anche un avvenimento solo perché c‘è un gioco che va avanti e crea la possibilità di una successione di avvenimenti significativi agli effetti del gioco»242. Di nuovo, dunque, torna l‘importanza di definire un quadro al di fuori del quale non si può uscire nel corso della rappresentazione o, in questo caso, del gioco; le regole, in questo senso, definiscono la cornice tanto in negativo quanto in positivo, dicendoci cosa possiamo fare e cosa non possiamo fare perché la cornice possa essere mantenuta e la realtà del suo interno non spezzata. L‘importanza di non spezzare la realtà interna della cornice diventa ancora maggiore quando Goffman afferma che «i giochi, quindi, sono attività che costruiscono mondi. Ora, a mio parere, anche l‘attività seria possiede questo carattere. È facile accorgersi che non c‘è, al di fuori delle diverse mani o giocate, nessun mondo che corrisponda alla realtà generata dal gioco, è invece più difficile rendersi conto che ogni possibile incontro serio genera un mondo di significati che appartiene solo ad esso»243. Qui, Goffman mette in luce due elementi.
241 E. Goffman, Encounters...., pp. 3-4. 242 E. Goffman, Encounters..., pp. 21-22. 243
Innanzitutto, quanto detto sul gioco può essere detto anche sull‘attività seria (non che il gioco non sia un‘attività seria, come sottolineerebbe Bateson); dopotutto, Goffman lo ha già sostenuto nella sua prima opera. In ciascuno di questi casi, abbiamo a che fare con un mondo di significati differente dagli altri; e questo è evidente nel gioco, è evidente che le carte in una partita hanno un valore diverso rispetto a quello che hanno al di fuori della partita, e che lo stesso si può dire per un pallone dentro e fuori dalla partita di calcio. Mantenere la cornice durante l‘attività, dunque, è importante perché i suoi elementi interni possano conservare il significato che hanno in quel mondo; il passaggio ad un mondo esterno porterebbe un cambiamento di paradigma, che impedirebbe di continuare l‘attività. Goffman definisce così il mondo interno alla cornice «un mondo di ruoli e di eventi che si costituisce sul posto, che isola i partecipanti da molti fatti che hanno una base esterna e ai quali potrebbe essere data rilevanza, pur consentendo ad alcuni di questi di entrare nel mondo dell‘interazione come parte ufficiale di essa»244
.
Siamo di nuovo, dunque, di fronte al fatto che c‘è una sorta di traspirazione tra interno d esterno della cornice; elementi esterni, sostiene Goffman, possono entrare a far parte del mondo interno alla cornice, ma questo non avviene senza le necessarie trasformazioni: «abbiamo appurato che la barriera rispetto agli attributi esterni è più simile a un setaccio che a un solido muro, e abbiamo visto che il setaccio non soltanto seleziona, ma anche trasforma e modifica ciò che filtra. Più precisamente, possiamo immaginare che esistano delle regole inibenti che dicono ai partecipanti ciò cui non debbono prestare attenzione, e delle regole facilitanti che stabiliscono ciò di cui si può prender nota […]. Troviamo quindi delle regole di trasformazione, nel significato geometrico del termine; regole sia inibenti che facilitanti, che ci dicono quali modificazioni di forma si verificheranno quando una struttura esterna di attributi viene espressa dentro l‘incontro»245
. Avevamo già ribadito che la barriera che separa interno ed esterno non è una cesura completa; qui, però, Goffman introduce un elemento nuovo nelle regole di trasformazione, deputate al controllo dell‘ingresso di elementi esterni nel mondo interno. Non si tratta quindi di un processo casuale, ma di un processo attentamente seguito; il rischio, dopotutto, di introdurre un elemento fondamentalmente compromettente per la realtà interna, è sempre dietro l‘angolo. Avviene dunque un‘opera di ristrutturazione, redifinizione degli elementi esterni che vengono introdotti nel mondo interno; questa codifica, ovviamente,
244 E. Goffman, Encounters..., pp. 27-28. 245
ha come obiettivo la ricerca di una coerenza con la realtà interna, in cui l‘elemento può acquisire un nuovo significato pur mantenendo il suo status di oggetto esterno.
L‘altro elemento importante è che queste regole ci dicono a cosa prestare e a cosa non prestare attenzione, definendo dunque il quadro del mondo in cui entriamo; queste regole, però, possono essere in conflitto con quella che Goffman definisce l‘‖attenzione spontanea‖ dell‘individuo: «il mondo fabbricato dagli oggetti del nostro coinvolgimento spontaneo e il mondo plasmato dalle regole di trasformazione dell‘incontro possono essere congruenti, come quando coincidono perfettamente tra loro. In questi casi, ciò cui l‘individuo deve far caso, e il modo in cui deve percepire ciò che gli sta intorno, coincideranno con ciò che per lui tende ad assumere i contorni della realtà in base all‘inclinazione naturale della sua attenzione spontanea. Quando esiste questa forma di accordo, la mia ipotesi è che i partecipanti si sentiranno a loro agio o spontanei, in breve che l‘interazione sarà per loro euforica. Ma possiamo immaginare che i due mondi possibili del partecipante […] non coincidano, sicché egli si trova spontaneamente assorbito da faccende definite irrilevanti e irreali in base alle regole di trasformazione. La mia seconda ipotesi è che la persona che si trova in questo conflitto si sentirà a disagio, annoiata, o innaturale nella situazione, e la vivrà solo come ciò che la costringe a conservare le regole di trasformazione. In circostanze del genere, possiamo dire che l‘incontro è contrassegnato per chi vi partecipa da uno stato di tensione o di disforia; ci si sente a disagio»246. Dunque, ci può essere una conflittualità tra l‘individuo e le regole del mondo in cui sta entrando; in questo caso, il partecipante si sente a disagio, perché la sua attenzione spontanea non coincide con ciò che gli viene indicato dalle regole. Goffman torna sulla definizione di tensione e ne rivela l‘importanza dicendo che «nell‘uso che ne faccio qui, il termine tensione si riferisce, lo ripeto, a una discrepanza percepita fra il mondo che spontaneamente diventa reale per l‘individuo (o quello che egli è in grado di accettare come la realtà corrente), e quello in cui è costretto a vivere. Questo concetto di tensione è cruciale per il mio discorso, perché quello che cercherò di dimostrare è che proprio come la coerenza e la persistenza di una riunione focalizzata dipendono dalla conservazione di un confine, così l‘integrità di questa barriera sembra dipendere dal controllo della tensione»247. Goffman introduce poi diverse tipologie di eventi, denominate ―incidenti‖, che possono andare ad aumentare la tensione; quello che ci interessa, però, è il controllo della tensione in sé. Perché la realtà interna del quadro
246 E. Goffman, Encounters..., pp. 38-39. 247
non venga spezzata, la tensione deve essere mantenuta su un certo livello; il suo innalzamento si rivela pericoloso per la tenuta della barriera, perché l‘individuo potrebbe semplicemente non essere in grado di conviverci. In linguaggio meadiano, questa tensione si gioca sul rapporto tra ―io‖ e ―me‖; le aspettative sociali rivolte al ―me‖ coinvolto nella cornice in esame, potrebbero divergere troppo dalle pulsioni personali ed istintuali dell‘―io‖; una conflittualità di cui anche Mead era consapevole, come già detto. Goffman, a differenza di Mead, sottolinea come la tensione può aumentare in base alla trasposizione di ogetti esterni all‘interno della cornice; sostiene che «quando il mondo esterno attraversa i confini di un incontro e viene elaborato nell‘attività interazionale, avviene qualcosa di più di un semplice riordinamento o di una semplice trasformazione di modelli. Si verifica qualcosa che ha una natura psicobiologica, organica. Una parte del mondo esterno, potenzialmente determinante, viene ignorata con facilità, una parte viene soffocata, e una parte infine viene rimossa con imbarazzo, con un costo in termini di evidente distrazione. Nel caso di fatti ignorati senza sforzo, non vi sarà nessuna tendenza a modificare le regole di trasformazione; quando la disattenzione costa uno sforzo le regole saranno sotto tensione. Un incidente mette in pericolo le regole di trasformazione non in modo diretto, ma modificando il lavoro psichico svolto da quelli che debbono interagire in base a quelle regole»248. Ad essere messo sotto sforzo è il lavoro psichico; in questo, possiamo certamente sentire un‘eredità freudiana in Goffman. In questi casi, infatti, il lavoro pschico è volto a diverse forme di rimozione di quelle parti del mondo esterno potenzialmente foriere di tensione; che vengano ignorate, soffocate o rimosse, queste componenti richiedono comunque del lavoro psichico affinché la loro presenza non vada a mettere in crisi la realtà interna dell‘incontro.In conclusione del saggio, Goffman sostiene che «qualunque sia l‘interazione, perciò, ci troviamo di fronte a questo duplice tema. Il mondo più ampio va fatto entrare nell‘incontro, ma in modo controllato e mascherato. Gli individui possono trattare fra di loro faccia a faccia finché sono disposti ad accettare le regole di irrilevanza, ma la funzione delle regole sembra essere quella di far sì che qualcosa di scabroso venga espresso silenziosamente e nello stesso tempo interamente escluso dalla scena. Dati i pericoli dell‘espressione, un mascheramento può funzionare non tanto come un modo per celare qualcosa, quanto come un modo per rivelare quel tanto che può essere tollerato in un incontro»249. Non una rimozione completa, dunque, ma
248 E. Goffman, Encounters..., p. 63. 249
parziale; si può, forse si deve accettare quel tanto che può essere tollerato dagli individui che partecipano all‘incontro. Perché andare oltre avrebbe un significato simile a quello della caduta del faro di proiezione dal cielo in ―The Truman Show‖ (1998), significherebbe rompere l‘unità di significato della cornice e spogersi all‘esterno in modo irreparabile. Per questo è spesso necessario un mascheramento degli elementi esterni; essi possono essere mostrati solo quel tanto che risulta accettabile, quel tanto che permette di mantenere la coerenza interna della cornice e al contempo di accettare la presenza esterna.
Nel secondo saggio dell‘opera, dal titolo ―Distanza dal ruolo‖, Goffman si concentra, stavolta, sull‘individuo. Spiega che «uno status è una posizione sociale in un sistema o struttura di posizioni sociali ed è collegato agli altri di cui si compone l‘unità mediante legami reciproci, mediante diritti e doveri che vincolano chi riveste la posizione. Il ruolo consiste nell‘attività che un individuo svolgerebbe, se agisse solamente in funzione delle richieste normative rivolte a uno della sua posizione. Il ruolo in questo significato normativo va distinto dalla prestazione di ruolo o dall‘esecuzione di ruolo, che è il comportamento effettivo di un particolare individuo quando è in servizio nella sua posizione»250. Status e ruolo risultano intimamente connessi; la prestazione di ruolo, in un certo senso, è ciò a cui si riferisce Mead parlando di ―me‖, poiché i diversi ―me‖ dell‘individuo altro non sono che l‘interpretazione privata di status e ruoli sociali. Dunque, il sé sociale presenta qui due poli: uno viene esclusivamente dal fattore sociale, ed è il ruolo nella conformazione normativa che assume in una determinata società; l‘altro è il ―me‖ vero e proprio, vale a dire l‘introiezione delle aspettative legate a quel ruolo da parte dell‘individuo, la sua personale interpretazione del ruolo, quella che Goffman definisce la prestazione di ruolo. Sulla relazione tra questi due poli, Goffman scrive: «queste qualità personali attribuite di fatto, e di fatto rivendicate, si combinano con la definizione ufficiale della posizione, quando questa ne abbia una, per fornire a chi la occupa una base per l‘immagine del sé, e una base per l‘immagine che avranno di lui i suoi altri di ruolo. Chi entra in una posizione trova già quindi, virtualmente, un sé: egli non deve fare altro che aderire alle pressioni che subirà e troverà un io bell‘e fatto per lui»251. Qui è forte l‘eco del concetto di ―me‖ meadiano; l‘individuo, assumendo un ruolo, trova un sé già pronto, nel senso che questo sé possiede già delle definizioni apportate dalla società in cui questo ruolo si trova istituito. Allo stesso tempo, però,
250 E. Goffman, Encounters..., p. 83. 251
l‘immagine di sé che l‘individuo trova già fatta quando entra in un ruolo non aderirà perfettamente alla sua persona; certo, è pensabile che un individuo si perda nel suo ruolo, rendendo sempre più labile il confine tra il suo ―me‖ e la versione istituzionalizzata del ruolo che sta interpretando in quel momento; tuttavia, vi saranno sempre dei contrasti tra la specificità dell‘individuo e la generalità della norma di ruolo, e questo porterà ogni sé sociale a declinare in modo differente le aspettative rivolte verso il ruolo che interpreta. L‘individuo, dunque, non si identifica totalmente con il suo ruolo, ma mantiene una sua autonomia. E infatti, Goffman rileva che «sia che una situazione sociale si sviluppi senza intralci, sia che si verifichino delle espressioni che sono in disaccordo con ciò che un partecipante ritiene di essere, potremmo aspettarci (stando alle implicazioni deterministiche dell‘analisi di ruolo) che egli accetti fatalisticamente le informazioni che divengono accessibili sul suo conto. E invece, se guardiamo da vicino il comportamento attimo per attimo, dell‘individuo scopriamo che egli non resta passivo di fronte al prodursi di potenziali significati che lo riguardano, ma che finché gli riesce, partecipa attivamente a sostenere una definizione della situazione che sia stabile e coerente con l‘immagine che ha di sé»252
. In linea con quanto sostenuto da Cooley e con quanto ipotizzato dalle ricerche basate sui suoi studi, l‘individuo non accetta passivamente il giudizio altrui, ma cerca di influenzare l‘immagine di sé che gli altri hanno, in linea con quella che è la propria percezione di se stesso. Abbiamo visto che questo non sempre accade 253 , e che l‘opinione di altri significativi può effettivamente incidere sull‘opinione che l‘individuo ha di sé, dunque sulla sua immagine, come ipotizzato da Cooley; ciò non toglie, però, la presenza di tentativi da parte di alcuni individui di resistere all‘‖effetto specchio‖, continuando a fornire la stessa immagine di sé nonostante essa venga, almeno temporaneamente, negata da chi lo circonda.
Sul rapporto tra individuo e sé sociale, Goffman aggiunge che «quando l‘individuo si ritrae da un sé situato non si rifugia dentro un mondo psicologico di sua invenzione, ma agisce in nome di qualche altra identità creata socialmente. La libertà che si prende rispetto al sé situato, se la prende per obbedire a diverse costrizioni anch‘esse sociali»254. In quest‘ottica, dunque, la libertà cercata dall‘individuo finisce per portarlo in un altro incasellamento sociale, in un altro dei suoi ―me‖; si tratta di una posizione forte, che dà
252 E. Goffman, Encounters..., p. 104. 253 Par. 3.5.
254
mette il sé sociale dell‘individuo come parte predominante della sua personalità. Probabilmente, una posizione di questo genere non troverebbe conferma in Mead, dove la dinamica tra ―io‖ e ―me‖ è sempre in atto, senza una preponderanza netta di una delle due componenti. Sulla molteplicità dei sé sociali, Goffman torna ancora dicnedo che «la mia tesi è dunque che l‘individuo non assorbe il ruolo situato che trova a sua disposizione al punto di tenere quiescenti tutti i suoi altri sé. Secondo me, poi, un sistema situato di attività fornisce un‘arena di comportamento e in quest‘arena l‘individuo sta sulle spine, si torce, si dimena continuamente, anche quando si lascia trascinare dalla definizione dominante della situazione. L‘immagine dell‘individuo che ne risulta è quella di un giocoliere di un sintetizzatore, di un mediatore e di un paciere, che adempie ad una funzione nello stesso momento in cui si manifesta impegnato in un‘altra. Egli sta di guardia alla porta, ma lascia che tutti i suoi amici e parenti si intrufolino dalla finestra»255. Ciò significherebbe che i diversi ―me‖ dell‘individuo non spariscono semplicemente lasciandone solo uno attivo, a seconda di ciò che viene richiesto dalla situazione; essi continuano ad albergare nell‘inconscio dell‘individuo (o forse, usando la divisione freudiana, nel preconscio); e talvolta questo può creare dei conflitti, come nota Goffman. L‘importante, di nuovo, è che non venga superata una certa soglia; gli altri sé dell‘individuo non sono banditi dalla sua psiche, ma essi non devono occupare uno spazio tale da disturbare l‘esecuzione del ruolo che in quel momento sta interpretando, mettendo così in crisi la tenuta della cornice e della realtà ad essa interna. Su questo precario equilibrio si reggono i contesti, e la capacità dell‘individuo di muoversi attraverso di essi è indubbiamente legata alla capacità di saperli mantenere mentre si trova al loro interno.