• Non ci sono risultati.

La maschera sociale

4 L’evoluzione del sé attraverso Mead

4.1.2 La maschera sociale

Da un certo punto di vista, il paragone tra ―me‖ e Super-Io è certamente appropriato: abbiamo appena visto come entrambe le istanze condividano alcuni aspetti censori, ma anche come esse siano divise dall‘insormontabile divario esistente tra le differenti concezioni dell‘individuo e della società presentate da Mead e Freud. Lo abbiamo ripetuto più volte: lo studio di Mead non intende tanto approfondire la psicologia del singolo, quanto il modo in cui egli si trova ad interagire all‘interno del contesto sociale. In questo senso, il ―me‖ rappresenta i differenti ruoli che l‘individuo è in grado di assumere al variare del contesto sociale: il ―me‖ del giocatore di baseball è diverso dal ―me‖ che entra in un ristorante, così come anche dal ―me‖ che lavora in ufficio. I diversi contesti portano con sé l‘emergere di versioni differenti del ―me‖. Questo aspetto della teoria di Mead trova un termine di paragone più appropriato in quello che per lungo tempo è stato l‘allievo prediletto di Freud, Carl Gustav Jung. In particolare, è il concetto di Persona espresso dall‘autore originario di Kesswil ad interessarci. Prima di tentare un‘analisi del concetto di Persona, però, è opportuno percorrere, sinteticamente, alcune tappe fondamentali del pensiero junghiano. Ciò che lo avvicina a Mead, soprattutto

191 Numerosi sono i riferimenti al conflitto nelle opere che Freud scrisse dopo la sua conclusione. Gran parte di questi concetti vengono ripresi nel carteggio tenuto con Albert Einstein, ―Perché la guerra?‖ (1932); consigliamo anche la lettura dei due brevi saggi ―Considerazioni attuali sulla guerra e sulla

rispetto al maestro Freud, è il fatto che Jung, pur concentrandosi sullo studio della psicologia del singolo e dell‘inconscio, dà una chiave di lettura sociale al suo lavoro, elemento che, sottolinea Jung stesso, lo allontana dal lavoro di Freud, che Jung definisce una ―psicologia della persona‖192

.

«Da quanto abbiamo detto finora, risulta che nell‘inconscio dobbiamo distinguere uno strato che potrebbe essere definito l‘inconscio personale [in corsivo nel testo originale]. I materiali contenuti in questo strato sono di natura personale in quanto hanno il carattere, da una parte, di acquisizioni dell‘esistenza individuale, dall‘altra di fattori psicologici che potrebbero anche essere coscienti […]. Noi diciamo che questi materiali sono contenuti personali [in corsivo nel testo originale] quando possiamo dimostrarne gli effetti o la parziale comparsa o l‘origine del nostro passato personale. Sono elementi integranti della personalità, che appartengono all‘inventario di questa […]»193

.

Su questo, Jung condivide l‘importanza riservata da Freud al vissuto personale; «tuttavia, come mostra il mio esempio dell‘idea arcaica di Dio, l‘inconscio sembra contenere anche altre cose, oltre a quelle che la personalità ha acquisito e le appartengono […]. Si tratta, in ogni caso […] di una vera e propria immagine primordiale di Dio cresciuta nell‘inconscio di un uomo moderno esplicandovi un‘azione vitale, un‘azione che potrebbe dar da pensare sotto l‘aspetto psicologico-religioso. In quest‘immagine io non trovo nulla che possa esser detto ―personale‖: è un‘immagine del tutto collettiva [in corsivo nel teso originale] […]»194.

Poco oltre, Jung elabora ancora il concetto, dicendo: «ci approssimeremo molto alla verità immaginando che la nostra psiche cosciente e personale poggi sul largo fondamento di una disposizione mentale ereditaria e generale, che come tale è inconscia, e che la nostra psiche personale stia alla psiche collettiva pressappoco come l‘individuo alla società. Come l‘individuo non è esclusivamente un essere a sé, isolato, ma anche un essere sociale [in corsivo nel testo originale], così la psiche umana non è un fenomeno singolo e puramente individuale, ma anche un fenomeno collettivo. E, nello stesso modo che certe funzioni o pulsioni sociali stanno in contrasto con gli interessi dei singoli individui, così anche la mente umana ha certe funzioni o tendenze che, per la

192 C. G. Jung, The Concept of Collective Unconscious, in Saint Bartholomew Hospital‘s Journal, vol. 44, 1936-1937, pp. 46-49 e 64-66 tr. it., A. Vitolo, Il concetto d’inconscio collettivo, in Opere, vol. 9. Gli

archetipi e l’inconscio collettivo, Bollati Boringhieri Editore, Torino, 1980, pp. 43-44.

193 C. G. Jung, Die Beziehungen zwischen dem Ich und dem Unbewussten, tr. it. A. Vita, L’io e

l’inconscio, Bollati Boringhieri Editore, Torino, 1967, p. 39.

194

loro natura collettiva, stanno in contrasto con i bisogni individuali»195.

Jung sostiene dunque l‘esistenza di una sfera collettiva della mente umana; una sfera che racchiude idee ed immagini che Jung definisce archetipi, un tema che attraversa l‘intera produzione junghiana. In questa sede, però, il nostro interesse si rivolge all‘importanza che Jung dà alla sfera della mente collettiva, dell‘inconscio collettivo; se in Freud la società compare nella mente dell‘individuo attraverso l‘azione censoria del Super-Io, in Jung l‘esistenza di una psiche collettiva sembra qualcosa di ancora più basilare. In particolare, Jung sottolinea come la psiche collettiva sia la parte dominante, soprattutto nei primitivi:

«la psiche collettiva contiene le virtù specifiche e i vizi specifici degli uomini, come ogni altra cosa. C‘è chi si attribuisce la virtù collettiva come un merito personale, e c‘è chi si addebita il vizio collettivo come una colpa personale […]. Per il primitivo, la cui differenziazione personale è notoriamente rudimentale, entrambe le valutazioni rispondono al vero, perché la sua psiche è essenzialmente collettiva e quindi in gran parte inconscia […]. La contraddizione nasce soltanto quando inizia uno sviluppo personale [in corsivo nel testo originale] della psiche e la ragione scopre la natura inconciliabile dei contrasti. La conseguenza di questa scoperta è il conflitto di rimoazione. Si vuole essere buoni e perciò bisogna rimuovere il male: e ciò segna la fine del paradiso della psiche collettiva. La rimozione della psiche collettiva fu semplicemente una necessità dello sviluppo della personalità. Nel primitivo lo sviluppo della personalità, o come meglio diremo, lo sviluppo della prsona, è una questione di prestigio magico. La figura dello stregone o del capotribù indica la direzione. Ambedue si distinguono per la singolarità degli ornamenti e del modo di vivere, che denota il loro ufficio. La particolarità dei segni esteriori delimita l‘individuo, e il possesso di speciali segreti rituali accentua ancora di più la separazione. Con questi e altrettali mezzi il primitivo crea intorno a sé un involucro che può essere definito Persona, nel senso latino di ―maschera‖. Com‘è noto, il primitivo usa vere e proprie maschere […]. L‘individuo così contraddistinto si sottrae apparentemente alla sfera della psiche collettive e, in quanto riesce a identificarsi con la sua Persona, vi si sottrae realmente»196.

Lo sviluppo personale dell‘individuo sarebbe dunque parte di un percorso di individuazione rispetto ad una psiche collettiva che, nelle socetà primigene, ha il predominio sulla mente dell‘individuo. Non possiamo comprendere l‘utilizzo del termine ―persona‖ al di fuori di questo contesto; l‘utilizzo di una maschera reale, così come anche di segnali distintivi avviene, secondo Jung, in virtù del fatto che agli albori

195 C. J. Jung, L’io e l’inconscio, p. 53. 196

della civiltà l‘individualità non è ancora sviluppata. Perciò in questa società arcaica i conflitti sono ancora assenti, perché i contrasti nascono con lo sviluppo della personalità individuale. E questo porta, come spiegato da Jung, alla rimozione, che ha l‘obiettivo di consentire ad un individuo sempre più sviluppato e consapevole della sua individualità, dei suoi desideri e dei suoi bisogni, di continuare a vivere all‘interno di un contesto sociale.

Quello che più ci interessa del concetto di Persona, e che per certi versi avvicina il concetto al pensiero di Mead, è il fatto che Jung dica che l‘individuo contraddistinto dalla Persona, quindi da una maschera, si sottrae apparentemente alla sfera della psiche collettiva:

«[…] come dice il nome, essa è solo una maschera della psiche collettiva, una maschera che simula l‘individualità, che fa credere agli altri che chi la porta sia individuale (ed egli stesso vi crede), mentre non si tratta che di una parte rappresentata in teatro, nella quale parla la psiche collettiva. Se analizziamo la Persona, stacchiamo la maschera e scopriamo che ciò che pareva individuale è, in fondo, collettivo, in altre parole che la Persona era soltanto la maschera della psiche collettiva. Ttutto sommato, la Persona non è nulla di ―reale‖. È un compromesso tra individuo e società su ―ciò che uno appare‖. L‘individuo prende un nome, acquista un titolo, occupa un impiego, ed è questa o quella cosa […]. Ma sarebbe ingiusto fermarsi a questo punto, senza riconoscere in pari tempo che nella caratteristica scelta e definizione della Persona è già insito qualcosa d‘individuale e che, nonostante l‘esclusiva identità della coscienza dell‘Io con la Persona, il Sé inconscio, la vera e propria individualità, è sempre presente e si fa notare, se non direttamente, almeno indirettamente. Sebbene la coscienza dell‘Io si identifichi inizialmente con la Persona, cioè con quella figura di compromesso sotto la quale ciascuno appare di fronte alla collettività e rappresenta la sua parte, tuttavia il Sé inconscio non può venire talmente rimosso da non farsi notare. La sua influenza si manifesta anzitutto nella particolare natura dei contenuti contrastanti e copensatori dell‘inconscio»197

.

Dunque, Jung con il concetto di Persona intende davvero una maschera nel senso teatrale del termine: Jung la definisce un ―compromesso‖ tra individuo e società, che riguarda ―ciò che uno appare‖. In particolare, Jung sottolinea come un individuo possa avere diverse maschere, che interpreta proprio come l‘attore, a teatro, interpreta il suo ruolo all‘interno di un determinato contesto. La maschera cambia insieme al contesto,

non rimane sempre la stessa; in questo, la Persona si avvicina a quello che Mead intende sottolineato l‘esistenza dei ―me‖. In entrambi i casi, abbiamo a che fare con delle istanze che rappresentano una sorta di ―compromesso‖: anche il ―me‖ di Mead, dopotutto, media tra gli impulsi dell‘individuo, racchiusi nell‘―io‖, e le aspettative sociali di cui si fa portatore; allo stesso modo, la Persona è ciò che permette all‘individuo di calarsi in un determinato ruolo in un determinato contesto, proprio come il ―me‖ è l‘istanza che permette al giocatore di baseball di giocare la partita in un determinato ruolo. Con il Super-Io di Freud, il ―me‖ di Mead, lo abbiamo visto, condivide, in parte, la funzione di censore; con la Persona di Jung, però, il ―me‖ condivide forse il suo ruolo principale, quello di rappresentante della collettività, quello di collante tra le istanze individuali e i diversi contesti sociali. Chiaramente, non si tratta di due concetti sovrapponibili: nel passaggio che abbiamo riportato, possiamo vedere come Jung intenda la persona come qualcosa con cui l‘Io, inizialmente, si identifica, per quanto falsamente; Mead non parla di un processo di identificazione dell‘inidividuo con i suoi ―me‖. Più in generale, in Mead non c‘è la presenza di una psiche collettiva che, almeno inizialmente, domina su quella individuale. In Mead, lo sviluppo del sé avviene attraverso gli altri, ma la sua individualità viene salvaguardata fin dall‘inizio. Abbiamo sottolineato più volte, dopotutto, come Mead fosse estremamente avverso all‘ipotesi di ridurre l‘individuo alla società, o viceversa.

Tuttavia, si tratta di un processo che meriterebbe un approfondimento; l‘identificazione dell‘Io con i diversi ruoli che il suo sé sociale si ritrova ad assumere è una linea di ricerca proficua per studiare a fondo il rapporto esistente tra società ed individuo. Troviamo particolarmente importante la metafora teatrale utilizzata da Jung; il teatro è uno dei concetti che rende meglio l‘idea di un sé che cambia in base al ruolo da intepretare, che quasi finisce per essere definito da questo ruolo piuttosto che da chi si trova davvero sotto la maschera teatrale. La metafora può essere spostata proficuamente su Mead, perché anche in questo caso stiamo parlando di contesti, di cornici di significato: le aspettative degli altri possono essere lettere ed interpretate proprio perché si trovano all‘interno di un determinato contesto, sia esso la partita di baseball o, più in generale, la comunità all‘interno della quale l‘individuo si trova a vivere. E nel

muoversi attraverso queste cornici di significato, l‘individuo si trova ad avere diversi ―me‖, ognuno dei quali coesiste con gli altri, senza contraddizione. Questo tema viene magistralmente affrontato in letteratura da Luigi Pirandello, che con il suo Vitangelo Moscarda mette in scena la crisi d‘identità di un individuo che si perde nella

molteplicità dei suoi sé. La sua crisi parte da un dettaglio fisico, dal suo naso che la moglie vede leggermente storto, ma si allarga presto ad abbracciare tutto ciò che egli riteneva essere Vitangelo Moscarda.

«Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m‘avevano data; cioè vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io, non essendo io propriamente nessuno per me; tanti Moscarda quanti essi erano, e tutti più reali di me che non avevo per me stesso, ripeto, nessuna realtà»198. Ciò che sconvolge Vitangelo Moscarda è l‘improvvisa consapevolezza che tra la sua immagine di sé e quella che gli altri hanno non c‘è corrispondenza; esistono tanti Vitangelo Moscarda quante sono le persone con cui il protagonista entra in contatto. E questo dipende da molteplici fattori: il vissuto personale di ciascuna persona, il contesto in cui le persone vengono in contatto, il rapporto che si viene a creare tra di loro. I diversi ―me‖ sono anche questo: quelle percezioni di noi stessi che noi vediamo attraverso gli occhi degli altri. In questo senso, la crisi di Vitangelo Moscarda è la crisi di quel concetto di ―io‖ unitario e solido, che nell‘ottocento comincia a traballare. Nel finale del romanzo, Vitangelo arriva a rifiutare il concetto di nome, sostenendo che «non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita»199

. Il rifiuto di un ―io‖ statuario, impermutabile, l‘accettazione dell‘eterno divenire della personalità: si tratta di una perfetta traduzione letteraria di ciò che la ricerca psicologica, compresa ovviamente quella di Freud, Jung e Mead, andava suggerendo ormai da tempo. Il rifiuto del nome è un atto estremo, che porta con sé l‘accettazione di non poter definire una volta per tutte un sé; perché il sé è in eterno divenire, nelle sue pulsioni e nelle sue sensazioni, ed esistono tanti sé quante sono le persone, i contesti con cui veniamo in contatto.