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Gli effetti perversi della «contendibilità»

Nel documento Saper governare non basta: il caso Torino (pagine 118-121)

6. Il voto in Toscana: un’eredità contesa o dilapidata?

6.4. Gli effetti perversi della «contendibilità»

Sin dalla sua fondazione, un tratto costitutivo del Pd – come tale teoriz- zato e poi trasposto nello Statuto del partito1 – è stato quello della cosiddetta

«contendibilità». L’idea di fondo era che, a differenza dei modelli di partito tradizionali, fondati sulle pratiche «consociative» dei gruppi dirigenti o su or- ganismi collegiali di direzione politica, il nuovo partito dovesse essere fondato su una logica del «mandato»: un partito «contendibile» (al pari di una società per azioni «scalabile» in Borsa, con le opportune «offerte pubbliche di acqui- sto») è appunto un partito in cui il controllo della direzione politica è affidato ad una competizione aperta, al termine della quale il vincitore riceve pieni poteri, del cui buono o cattivo uso risponderà a tempo debito. Luogo e stru- mento di questa competizione, naturalmente, sono le «primarie»: che, tuttavia,

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nel corso dei dieci anni di vita del nuovo partito, non hanno mai ricevuto una chiara regolamentazione. Il risultato è che il ricorso, o meno, alle primarie è divenuto sempre più, nel corso degli anni, esso stesso un oggetto e una posta del conflitto politico interno, più che uno strumento che potesse regolarlo. Di più: le primarie sono divenute l’unico momento in cui si ridefiniscono i rap- porti di forza interni al partito, e quindi su questo momento finiscono per ad- densarsi tutte le tensioni interne tra i diversi segmenti dei gruppi dirigenti.

I casi toscani da cui abbiamo preso le mosse sono accomunati da un dato di fondo: tutto ciò che viene solitamente denunciato come «litigiosità», «fra- zionismo», «lotte di potere». Basti un sommario resoconto degli eventi.

A Montevarchi il sindaco in carica, al primo mandato, viene contestato da alcuni settori del partito. Si ricorre alle primarie: il sindaco uscente viene sconfitto, ma a prevalere è un altro candidato, espressione di gruppi locali di tradizione socialista. Alle elezioni, l’ex-sindaco si presenta con una propria candidatura autonoma, che ottiene il 20%; il candidato «ufficiale» del Pd si ferma al 31%, la candidata di un centrodestra ricompattatosi chiude il primo turno al 34% e poi stravince il ballottaggio con il 59%. Solo pochissimi voti, tra quelli raccolti dall’ex-sindaco confluiscono, evidentemente, sul candidato sostenuto dal Pd.

A Sansepolcro accade l’opposto. Anche qui una sindaco del Pd al primo mandato, che però sembra ricevere pieno appoggio da tutto il partito. Un gruppo di ex-democratici, usciti dal partito qualche anno prima («Democratici per cambiare», poi confluiti nella coalizione civica vincente, ottenendo il 14%) avevano chiesto al Pd o di rinunciare alla candidatura della sindaca uscente o di svolgere elezioni primarie: ma il Pd rifiuta. Non c’è bisogno di primarie, e il Pd sembra compatto nel sostenere la ricandidatura. Risultato, al primo turno il candidato a capo della coalizione civica ottiene il 42%, la can- didata del Pd il 31%. Al ballottaggio, lo sfidante «civico» viene eletto con il 68%, guadagna circa 1.400 voti in più; la candidata Pd ne perde circa 200.

Una variante, ma con una storia simile a Cascina: il sindaco Pd al primo mandato viene criticato e contestato da gruppi interni al partito. Si fanno le primarie: il sindaco uscente ce la fa, ma di poco. Le primarie lasciano uno strascico di polemiche e di divisioni che, palesemente, non si ricompongono in vista delle elezioni. Forse qui scattano anche i tipici effetti «imprevisti» che si producono quando si ritiene certa comunque la vittoria della propria «parte». Si lanciano messaggi, e ci si mobilita poco. Risultato, al ballottaggio la candidata leghista prevale con il 50,3% dei voti. Nel 2011 il sindaco del Pd era stato eletto al primo turno con il 66% dei voti (col Pd al 42%): oggi il candidato ottiene il 42%, con il Pd fermo al 30%. Al ballottaggio, il candidato del Pd passa dagli 8.203 voti del primo turno a 8.897 (+593), la candidata leghista passa da 5.487 voti a 8.897 (+3.411), raccogliendo evidentemente larga parte dei voti del candidato del M5s (3.453, pari al 17,9%).

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Come si suol dire, tre indizi fanno una prova. Ovvero: sono tutti casi in cui, con tutta evidenza, le divisioni interne al Pd hanno pesato sulla sconfitta. Ma, quando casi simili sono così ricorrenti, questa spiegazione non basta più. E quindi occorre chiedersi: perché i normalissimi scontri di idee, e anche di potere, che sono fisiologici nella vita di un partito, nel Pd si stanno rivelando così laceranti? La risposta che riteniamo più plausibile è la seguente: tutto ciò accade perché il Pd non sembra più un partito in grado di alimentare e colti- vare, tra militanti e dirigenti, un qualche senso di appartenenza ad un comune progetto politico.

Un partito può «tenersi insieme», anche quando, come è prevedibile e fisiologico, vi siano forti dissensi o disaccordi sulle strategie da seguire e le politiche da condurre, o anche sulle persone chiamate ad assumere incarichi istituzionali, solo in quanto agisca e sia presente una «cultura di sfondo» che accomuni chi ha scelto di farne parte, una cultura politica condivisa che ali- menti un senso di identificazione. Nel Pd, in tutti questi anni, e non solo negli ultimi, il modello dominante è stato invece quello che concepisce la selezione della leadership (a cascata, quella nazionale e quella locale) come mera auto- rizzazione al comando. Le primarie, così come sono state concepite e prati- cate, anche per la formazione degli organismi dirigenti, sono lo strumento di una investitura plebiscitaria: avvenuta la quale, non resta che affidarsi agli «eletti». L’idea della contendibilità, si potrebbe dire, ha scoperchiato così un vaso di Pandora: ha legittimato una pratica diffusa di scontri e di competizione per la conquista del potere. E, naturalmente, a livello locale, la figura del sin- daco è tra le più appetibili.

La cultura politica del Pd, implicitamente praticata ma anche apertamente teorizzata, trasmette un senso di profondo fastidio per tutto ciò che possa ri- chiamare l’idea della mediazione. Ma la politica democratica è mediazione, è fatta di equilibri mutevoli tra le forze, di pesi e contrappesi nei poteri e nelle istituzioni. E questo vale anche per i partiti. E dunque, quando – come forse era nei nostri casi toscani – emergono del tutto legittimamente critiche e in- soddisfazioni per la condotta e le scelte di un sindaco in carica, non vi sono più luoghi collegiali di direzione politica, in cui si discuta apertamente – anche con i diretti interessati – sull’opportunità di un ricambio o in cui si decida, al contrario, di serrare le fila e difendere l’amministrazione in carica. No: ci si affida alle primarie (e si inventano, à la carte, le regole, per farle o non farle, a seconda dei casi…). Le primarie aperte, poi, accentuano i tratti borderless del modello di partito: un partito senza confini organizzativi. La vita interna del Pd, in tal modo, è inevitabilmente sottoposta a una durissima tensione, ogni motivo di scontro o di dissenso diviene spesso ingovernabile, e tutto ciò si «scarica» nelle occasioni elettorali.

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Un altro tratto comune va rilevato: solo in piccola parte, e in misura di- versa, nei tre casi, le divisioni interne sono riconducibili alle dinamiche cor- rentizie nazionali che attraversano il Pd. Sono spesso rivalità locali, che hanno come posta in gioco il controllo delle cariche elettive. Ma proprio per questo mettono in luce alcuni tratti della odierna «costituzione materiale» del Pd: ov- vero, in modo perfettamente conseguente ad un modello di partito in franchi-

sing, l’estrema difficoltà, o anche l’impossibilità di far valere una dimensione gerarchica, che permetta agli organismi dirigenti di livello superiore di «go-

vernare» in qualche modo i conflitti locali, e di farlo con una qualche autorità e autorevolezza. Anzi, molto spesso, i protagonisti locali di tali conflitti si presentano come «terminali», o «riferimenti», di questo o quel segmento dei gruppi dirigenti regionali o nazionali.

Insomma, si giunge così ad un paradosso o ad un effetto «imprevisto» e «perverso»: l’idea della contendibilità, pensata come chiave di volta di un par- tito moderno, aperto e dinamico, si rivela come una logica che accentua i tratti estremi di destrutturazione del partito (fin qui) egemone, lo destabilizza, e lo conduce sovente alla sconfitta.

Nel documento Saper governare non basta: il caso Torino (pagine 118-121)