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Tra primo e secondo turno

Nel documento Saper governare non basta: il caso Torino (pagine 61-68)

3. Milano: il derby tra i due manager nell’oasi del bipolarismo

3.6. Tra primo e secondo turno

Dato il piccolo scarto di voti esistente tra i due candidati (meno di un punto percentuale), i quindici giorni tra il primo e il secondo turno sono stati molto combattuti. Sala – oltre ad aver stretto un accordo di apparentamento con la lista radicale di Marco Cappato – si è molto impegnato per attirare i voti di sinistra (quelli che al primo turno erano andati a Rizzo). Una mossa in questo senso è stata quella di annunciare un «comitato per la trasparenza» af- fidato al’ex magistrato di «Mani pulite» Gherardo Colombo22, esponente di

primo piano della società civile e uno dei nomi che nei mesi precedenti erano circolati come possibile candidato dello schieramento di sinistra che ha poi finito per scegliere Rizzo. In questo modo, Sala rafforzava il proprio legame con quest’area politica inviandole un chiaro segnale inclusivo. Come avrebbe reagito l’elettorato di sinistra alle sirene di Sala? Se ne sarebbe lasciato attrarre oppure la somiglianza tra i due manager che aveva provocato la mini-scissione nella coalizione avrebbe a questo punto indotto questo elettorato ad astenersi dalla scelta tra i due contendenti?

L’altro interrogativo riguardava il M5s. La linea ufficiale del partito è sempre stata, a Milano e altrove, quella di non dare indicazioni di voto, man- tenendosi distanti da tutte le altre forze politiche (in base al principio secondo cui il voto è del cittadino e non dei partiti e quindi non occorre dare indicazioni di voto: spetta ai cittadini scegliere in libertà). Il candidato Gianluca Corrado

22 E. Soglio, Gherardo Colombo affianca Sala.

Guiderà il Comitato per la Legalità, http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/16_giu- gno_10/gherardo-colombo-affianca-sala-guidera-comitato-la-legalita-3c011820-2f05-11e6- bb6d-75d636c22361.shtml, 10 giugno 2016.

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o autorevoli compagni di strada come Dario Fo avevano però lasciato trape- lare, più o meno esplicitamente, la possibilità di un voto per il candidato di centrodestra, in funzione antirenziana. In effetti, a Milano – come abbiamo detto – la posta in palio travalicava la conquista di Palazzo Marino (ossia, la sede del comune) e assumeva una valenza nazionale: una sconfitta di Sala avrebbe avuto pesanti ripercussioni sulla tenuta del governo di Renzi. Nelle mani dell’elettorato pentastellato (il 10,1% dei voti validi, ossia il 5,4% degli aventi diritto) stava l’esito della competizione.

I risultati del secondo turno sono riportati nella tab. 3.4: entrambi i con- tendenti hanno allargato i loro bacino di voti. Per Sala l’aumento è stato di 40.000 (ossia il 15% del suo originario capitale), per Parisi di poco meno di 28.000 (ossia l’11% del suo bacino del primo turno).

Tab. 3.4. Risultati del secondo turno delle elezioni comunali a Milano (2016) e con- fronto col primo turno

Voti % su voti validi % su elettori II – I turno Diff. % II – I turno Sala 264.481 51,7 26,3 +40.325 +15,2 Parisi 247.052 48,3 24,5 +27.834 +11,3 Voti validi 511.533 -26.051 -4,8 Totale votanti 521.487 -28.707 -5,2 Totale elettori 1.006.701

Fonte: nostre elaborazioni su dati del Ministero dell’interno.

Le stime dei movimenti di voto tra i due turni (tab. 3.5) ci dicono che, riguardo al primo interrogativo, gli elettori di Rizzo hanno trovato perlopiù convincenti la strategia di convincimento di Sala: in larga parte, questi elettori hanno scelto di sostenerlo al secondo turno (solo una piccola quota ha prefe- rito astenersi e nessuno ha premiato Parisi).

L’elettorato del M5s, a differenza di quanto accaduto in altre città, non ha compiuto una scelta «anti-renziana». Ha infatti preferito di gran lunga aste- nersi (per un’analisi più approfondita di questa scelta e un confronto con altre città si veda il capitolo 19 sul M5s). Solo una piccola parte di chi aveva votato Corrado al primo turno ha scelto Parisi al secondo (lo 0,4% del corpo eletto- rale), mentre Sala è rimasto a bocca asciutta.

Un terzo elemento che talvolta, negli scontri del secondo turno, può ri- sultare decisivo è quello dei movimenti da e (soprattutto) verso l’astensione. Spesso l’esito del ballottaggio è deciso dalle perdite subite verso l’astensione (è più raro che vi siano recuperi sostanziosi dal bacino elettorale di chi si era

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astenuto al primo turno, ma quando lo scarto tra i due contendenti è limitato, anche piccoli recuperi dall’astensione possono essere determinanti). In questo caso, vediamo che Parisi ha perso verso l’astensione poco più di quello che ha recuperato (i due flussi in uscita e in entrata praticamente si annullano), mentre Sala ha un consistente saldo positivo dall’astensione. Anche questo – oltre al convincimento dell’elettorato di Rizzo e all’astensionismo dei cinquestelle – ha contribuito alla sua vittoria (avvenuta malgrado le elaborazioni stimino il passaggio di un importante pacchetto di voti – 1,7% dell’elettorato – da Sala verso Parisi).

Tab. 3.5. Flussi elettorali tra primo e secondo turno delle elezioni comunali di Milano 2016 (percentuali sul totale degli elettori)

Parisi Sala Rizzo Corrado Altri Non-voto Tot.

Parisi 20,4 1,7 0,7 1,3 24,5

Sala 20,5 1,7 1,3 2,8 26,3

Non-voto 1,4 5,0 42,6 49,2

Tot. 21,8 22,3 1,9 5,4 2,1 46,6 100,0

Fonte: nostre elaborazioni su dati tratti dal sito del comune di Milano. Nota: Sono indicati solo i flussi

superiori allo 0,5% dell’intero elettorato. Il «non-voto» comprende, oltre agli astenuti, anche le schede bianche e nulle. Stime statistiche (Vr = 4,5).

3.7. Conclusioni

Tante volte – a cominciare da quelle del 1993, che sancirono l’ingresso della Lega tra gli attori politici «rispettabili» per arrivare al ribaltamento dell’egemonia del centrodestra nel 2011 – Milano ha anticipato o annunciato cambiamenti che poi hanno coinvolto l’intero Paese. I risultati delle elezioni del 2016 sembrano invece essere, paradossalmente, un reperto del passato mi- racolosamente conservatosi mentre tutto intorno cambia. Qui la sfida è ancora quella tra un centrosinistra e un centrodestra che – a parte i frequenti litigi in entrambi i campi e qualche (piccola) spaccatura a sinistra – restano sostanzial- mente uniti. Il Movimento 5 stelle, che quasi ovunque è diventato protagoni- sta, o comunque partecipante decisivo delle sfide, qui non riesce ancora ad emanciparsi dal ruolo di spettatore. Milano, insomma, appare come un «oasi» di bipolarismo in un’Italia che sempre più – dopo le politiche del 2013 e le regionali del 2015 – con le comunali del 2016 sembra rafforzare il profilo tripolare del suo sistema partitico.

Resta da vedere se quella milanese è un’anomalia destinata ad essere rias- sorbita dalla tendenza nazionale a un inarrestabile tripolarismo (anomalia spiegabile con gli errori commessi dagli esponenti locali del M5s) o se, come ha scritto in un suo editoriale Ernesto Galli della Loggia, l’esito delle elezioni

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milanesi contiene una lezione di cui le due coalizioni di centrodestra e di cen- trosinistra possono trarre ispirazione per contrastare le tendenze in corso: «è da Milano e solo da Milano che il sistema politico – dirò meglio: Forza Italia e il Pd, i due principali partiti […] – potrebbe ripartire, per riguadagnare un po’ di credibilità» 23. La capacità che in questa città le principali forze politiche

hanno mostrato di coniugare ragioni della «politica» (la necessità delle al- leanze, delle mediazioni e dei compromessi) e «antipolitica» (le figure di due candidati presi al di fuori dei tradizionali canali di reclutamento politico e con posizioni e mentalità per molti versi estranee ai giochi di partito) potrebbe, per l’appunto, rappresentare, per i vertici nazionali di queste forze, un’indicazione sulle mosse da intraprendere se vogliono invertire una rotta che sembra inar- restabile.

Riferimenti bibliografici

Schadee, H.M.A. e Corbetta, P. (1984), Metodi e modelli di analisi dei dati eletto- rali, Bologna, Il Mulino.

Goodman, L. A. (1953), Ecological Regressions and Behavior of Individuals, in «American Sociological Review», vol. 18, n. 6, pp. 663-664.

Legnante, G. (2012), Berlusconi ha perso. Ma chi ha vinto? Le elezioni comunali di maggio, in A. Bosco e D. McDonnell (a cura di), Politica in Italia. Edizione 2012, Il Mulino, Bologna, pp. 123-140.

23 E. Galli della Loggia, È l’ora di Milano anche in politica, in «Corriere della sera», 27

61 4. C’era una volta la «zona rossa»

Marco Valbruzzi e Mario Marino

4.1. Introduzione

C’erano una volta le «subculture politiche territoriali». Una «bianca», che colorava e caratterizzava le Regioni del Nord-est, dove il dominio elettorale della Democrazia cristiana (Dc) garantiva stabilità politica all’intera area. L’altra, quella «rossa», comprendeva le Regioni dell’Italia centrale – Emilia- Romagna, Toscana, Umbria e Marche – e si reggeva su un pilastro fondamen- tale: un largo partito di massa, radicato sul territorio, elettoralmente egemone e in grado di «programmare» lo sviluppo socio-economico dell’intera area. Quel partito è stato per lungo tempo il Partito comunista italiano (Pci), poi malamente rimpiazzato dai suoi successori, prima il Pds/Ds (Ignazi 1992) e infine dal Partito democratico (Pd).

Tutte e due le «subculture politiche» nascono, da un punto di vista anali- tico, negli anni sessanta in casa dell’Istituto Cattaneo, a seguito di una ricerca sul comportamento elettorale degli italiani coordinata da Giorgio Galli (1968). In quella sede e a quel tempo, erano state identificate sei grandi «zone geopo- litiche» in Italia, ma quelle che, giustamente, ebbero maggiore fortuna furono soltanto due: una controllata dalla Dc e l’altra dal Pci. Ciò che caratterizzava quelle due zone di influenza partitica, non era però soltanto il ruolo elettoral- mente dominante o, a tratti, egemone dei partiti di massa. Dietro, o al di sotto, di quelle organizzazioni partitiche, esistevano strutture associative collaterali, agenzie di socializzazione (parrocchie e case del popolo, circoli e sezioni di partito, famiglie e cooperative), attività educative o ricreative che servivano a forgiare/rafforzare, anche attraverso un potente apparato simbolico, un senso di appartenenza che trascendeva l’individuo. Anzi, che lo «incapsulava» in realtà più ampie, in vere e proprie (sub)culture politiche capaci di orientarne i comportamenti sociali e politici (Almagisti 2016; Floridia 2010 e 2011).

Oggi, nonostante un dibattito in realtà mal posto sulla loro sopravvivenza o resilienza, quelle due subculture politiche in realtà non esistono più. Al mas- simo, come aveva già notato Mario Caciagli (2011), se ne possono ancora in- dividuare i resti sparsi sul territorio, come tracce di un passato ormai conse- gnato alla storia. Quello che resta, nel migliore dei casi, sono modelli ricor- renti di comportamento elettorale, azioni di routine destinate nel tempo a «sco- lorirsi». Non a caso, la «subcultura politica territoriale bianca» scompare len- tamente a partire dalla metà degli anni ottanta, diventando prima «opaca» (Diamanti 2009, 41) e poi assumendo, temporaneamente, un altro colore, quel

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«verde» delle valli padane sulle quali si stava affacciando il fenomeno delle «leghe» locali, poi confluite nella Lega nord (Biorcio 2010, Passarelli e Tuorto 2012).

La scomparsa della zona bianca, come area politicamente identificabile, è stata giustamente associata a trasformazioni profonde avvenute nella società e nell’economia italiane. Per essere più precisi, la subcultura territoriale che ruotava attorno alla Dc non è riuscita a superare quella che potremmo definire una «crisi da crescita economica». Come ha notato Diamanti (2009, 47-48), gli anni ottanta del secolo scorso sono stati segnati da una fase di espansione dell’economia che ha finito per amplificare la complessità sociale, creando nuovi ceti emergenti (per esempio, la neo-borghesia imprenditoriale del Nord- est) e indebolendo le basi dell’identità locale. Per di più, la Dc si è rivelata «inadeguata a governare lo sviluppo e il territorio, perché, in modo diretto, non l’aveva mai fatto» (Diamanti 2009, 49). E, di fronte alla crescita dell’eco- nomia e con le prime avvisaglie di un processo crescente di internazionalizza- zione economica, il ruolo di mediazione che avevano svolto fino a quel mo- mento i democristiani in determinate zone del territorio viene a mancare. Così crolla la subcultura bianca.

Diverso è, invece, il discorso per le regioni della «zona rossa», perché profondamente diverso è stato il ruolo interpretato dal Pci e dai suoi eredi. Il partito dominante, all’interno della subcultura politica territoriale rossa, non si era mai limitato a fare da intermediario tra diversi interessi, ma aveva sem- pre attivamente «governato il cambiamento», attraverso un forte intervento pubblico a sostegno dell’economia e delle comunità locali (Trigilia 1986; Messina 2001). In questo contesto, la «crisi di crescita» che travolge la sub- cultura democristiana viene prevenuta, gestita e risolta dal potere politico a livello locale. Quindi, non era la crescita economica (tutt’altro!) che poteva mettere in crisi la «tenuta» della subcultura rossa. Quello che può farla real- mente «saltare», al di là delle altre fondamentali trasformazioni sociali e poli- tiche avvenute nel corso degli ultimi due decenni, è la decrescita, cioè una fase prolungata di recessione economica. È questa condizione di mancato o ridotto sviluppo economico – che, per inciso, pesa sul contesto italiano da oltre un ventennio e solo negli ultimi anni, con l’avvento della cosiddetta «Grande Re- cessione», ha subito una netta accelerazione – ad avere messo ulteriormente sotto stress quel che restava della subcultura politica territoriale rossa. Quando gli spazi di manovra per l’intervento pubblico si restringono, le possibilità per un partito di sinistra di «guidare» l’economia e mantenere il consenso dimi- nuiscono drasticamente.

Dunque, è all’interno di questo quadro e in tale prospettiva storico-anali- tica che bisogna interpretare le elezioni amministrative che si sono tenute nel giugno 2016 e che hanno coinvolto quasi 1 milione e 700mila elettori in 116 comuni nelle quattro regioni della cosiddetta «zona rossa». Se è vero, come

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noi crediamo, che la subcultura politica che ha caratterizzato per almeno mezzo secolo questo territorio dell’«Italia di mezzo» sia oramai scomparsa, diventa ancora più utile e interessante cercare di capire com’è cambiato il comportamento degli elettori e con quali conseguenze per i partiti e, più in generale, per la politica. Da questo punto di vista, le ultime elezioni ammini- strative sono un ottimo osservatorio da cui analizzare le trasformazioni avve- nute all’interno di quella che un tempo era una subcultura politica ed oggi è, nella migliore delle ipotesi, una semplice «geografia elettorale» (Caciagli 2011, 101).

Nel documento Saper governare non basta: il caso Torino (pagine 61-68)