2.3. L'altra metà della barricata
2.3.2. Il biennio 1968-69
Gli anni che precedettero il biennio 1968-69 prepararono lo scenario di lotta che ebbe nell'Autunno caldo il suo culmine. Nel corso del decennio emersero quegli elementi che si manifestarono completamente alla fine de- gli anni '60: la crisi del sindacato aprì al tentativo, non riuscito, di organiz- zare e dirigere la lotta operaia escludendo le sigle sindacali mentre la figu- ra dell'operaio comune/operaio-massa assunse la piena importanza nel 1968-69. Furono gli operai specializzati ad aprire le lotte del biennio 1968- 69 con quelli generici che li seguivano174 ma furono quest'ultimi a impri- mere il carattere più violento e radicale al movimento di protesta.
In quell'anno decisivo che è stato il '68 i primi violenti casi di conflittua- lità operaia si verificarono in zone laddove i sindacati erano deboli e poco presenti.175 Gli scioperi alla Fiat, alla Montedison di Porto Marghera e la ri- volta di Valdagno ci restituiscono l'immagine di una classe operaia risve- gliatasi (Fiat), violenta (Valdagno) e radicale (Montedison). I fatti di Val- dagno mostrarono che cosa i lavoratori in rivolta erano in grado di fare, lo sciopero alla Fiat segnò il risveglio degli operai dal precedente letargo in cui si trovavano e lo sciopero a Porto Marghera dimostrò che gli operai erano ben disposti a portare la lotta alle estreme conseguenze (distruzione degli impianti che avrebbe ostacolato la possibilità di tornare al lavoro) pur di spuntarla.
A Valdagno l'intensificazione dei ritmi produttivi e una riorganizzazio- 174S. TARROW, Democrazia e disordine, p. 159-60.
ne aziendale176 erano alla base del crescente risentimento dei lavoratori della Marzotto. Lo sciopero del 19 aprile si trasformò in una rivolta che vide anche l'abbattimento della statua, in centro paese, del conte Gaetano Marzotto, fondatore dell'azienda nel 1836. I fatti della Marzotto misero in luce da una parte, il rifiuto del paternalismo aziendale e dall'altro la con- trarietà verso uno sviluppo industriale basato su un'intensificazione dei ritmi produttivi e dei licenziamenti.177 Gli episodi di Valdagno vennero paragonati a una jacquerie dai giornalisti che inoltre vi videro lo zampino, non confermata, di studenti provenienti da Padova e Trento nello sviluppo degli scontri. Oltre che a Valdagno, altre zone del Veneto videro l'inizio di scioperi e manifestazioni come alla Zoppas (Conegliano), dove Bruno Trentin ,sindacalista della Fiom, era costretto a trattare sotto la diretta in- fluenza degli operai (“tratto con i padroni con la gente fuori che intervie- ne”),178 alla Rex (Pordenone) e alla Zanussi.
Sembrava di essere di fronte a un risveglio operaio, dopo anni di re- pressione padronale, che si fece sentire anche alla Fiat dove nella primave- ra del 1968 iniziò una fase di lotta sindacale che mostrò che anche nell'a- zienda torinese qualcosa si muoveva. Lo sciopero generale sulle pensioni indetto dalla Cgil, su pressioni della base, per il 7 marzo 1968 riuscì anche alla Fiat aprendo a una fase di lotte sindacali che si svilupparono nei mesi successivi. In aprile ebbero successo gli scioperi per una riduzione dell'o- rario di lavoro e sul cottimo, preparati sulla base delle risposte dei lavora- tori a un questionario sulle condizioni di vita in fabbrica e sul pacchetto di rivendicazioni in preparazione.179 Il successo degli scioperi portò alla fir- ma di un accordo con la Fiat.
A Venezia fin dalla fine della Grande Guerra, venne dato un forte im- pulso allo sviluppo di una zona industriale nell'entroterra veneziano, più specificatamente a Porto Marghera, dove nel corso degli anni si sviluppò una delle più importanti aree industriali e chimiche del paese. Nel 1968 alla Montedison erano impiegate quindicimila persone180 e fin dalla prima- vera del '68 cominciarono le proteste operaie. I fatti di Marghera misero in 176G. CRAINZ, Il paese mancato, p. 328.
177A. SANGIOVANNI, Tute blu, p. 125.
178G. CRAINZ, Il paese mancato, p. 329.
179A. SANGIOVANNI, Tute blu, pp. 130-1.
luce la capacità degli operai di decidere autonomamente, bypassando i sindacati, tramite un sistema decisionale basato su assemblee nonché la partecipazione degli studenti e di Potere operaio agli scioperi. Gli scioperi alla Montedison mostrarono inoltre la radicalizzazione dagli operai, per- ché in luglio vi fu il rifiuto di far entrare negli stabilimenti le squadre di manutenzione con il rischio di distruggere gli impianti e pregiudicare un possibile ritorno al lavoro.
Escludendo i fatti di Porto Marghera, i sindacati continuavano a mante- nere nella primavera del '68 il controllo della situazione ed erano ancora in grado di influenzare i lavoratori e le piattaforme rivendicative. Un ele- mento di novità era la richiesta di salari uguali per tutti che ,oltre ad avere un effetto egualitario,181 aiutava a compattare i lavoratori perché non si creavano delle differenze che potevano rompere il fronte di lotta comune. Sarebbero stati i fatti della Pirelli a fare da apripista per un modello di lot- ta operaia incentrata attorno al lavoratore stesso, dove il potere decisionale non era nelle mani del sindacato ma in quelle dei lavoratori attraverso i Cub.
La vicenda dei Comitati unitari di base (Cub) si originò dalla firma da parte dei sindacati del contratto aziendale, scaduto nel dicembre del 1967, che non aveva il consenso della base operaia della fabbrica. Anche qui come in altre fabbriche gli aumenti produttivi esasperarono le condizioni di vita e i sindacati apparivano agli occhi degli operai incapaci di fronteg- giare tale situazione. Dopo la firma del contratto che non risolveva il pro- blema del cottimo, a cui era legato una parte del salario, un gruppo di ope- rai specializzati incrociò le braccia seguito da quelli comuni dei reparti in cui erano peggiori le condizioni lavorative.182 I Cub nacquero primavera del '69 per organizzare la lotta operaia alla Pirelli, data l'incapacità dei sin- dacati a tutelare gli interessi dei lavoratori e costituirono un esempio di autogestione operaia del ciclo di lotta. I Cub non furono un eccezione li- mitabile nella Pirelli, ma si diffusero anche in altre fabbriche del milanese e avevano come obiettivi la “proclamazione improvvisa degli scioperi, l'af- fermazione dell'assemblea di reparto e stabilimento come unico organo di direzione operaia, la lotta a fondo e senza esclusione di colpi contro i dato- 181Ivi, p. 164.
ri di lavoro”.183 Infatti la strategia adottata dai Cub prevedeva la procla- mazione di scioperi improvvisi, decisi sul momento da assemblee improv- visate, e per quei reparti che lavoravano a cottimo la forma di lotta preferi- ta era l'autoriduzione. Questo strumento di lotta si rivelò particolarmente efficace perché permetteva di danneggiare i profitti dell'azienda senza in- taccare più di tanto il salario del dipendente (una riduzione del 10% della produzione costava all'operaio 150 lire184). Sembrava che considerando la propria debolezza di fronte all'azienda, spalleggiata dagli apparati statali e sindacali, l'unico modo per spuntarla fosse quello di creare uno stato di tensione continuo che potesse snervare l'azienda, sottoponendola a una continua pressione, che si manifestava da un lato attraverso una riduzione dei profitti e dall'altro l'impossibilità di programmare la produzione a cau- sa dell'impossibilità di prevedere gli scioperi. Alla Pirelli quindi si era creata una situazione di “conflittualità permanente”185 che si mantenne per tutto il resto del 1968-69.
La situazione nel paese si stava facendo sempre più tesa, con scioperi e proteste che scoppiavano un po' dappertutto. A Pisa uno sciopero si tra- sformò in rivolta, con blocchi stradali e interruzione di una linea ferrovia- ria in cui il gruppo di Potere operaio ebbe un ruolo importante come rico- nobbe lo stesso prefetto.186 L'eco delle proteste raggiunse anche il sud, a volte assumendo i connotati di vere e proprie rivolte come a Battipaglia. Nella città salernitana il peggioramento della situazione economica portò a a una rivolta scoppiata il 9 e il 10 aprile, quando la polizia uccise due per- sone e fu costretta a ritirarsi lasciando alla folla la possibilità di assaltare il commissariato. In altre zone della Campania, come nel casertano, scop- piarono tumulti simili nel loro sviluppo ai fatti di Battipaglia con assalti degli uffici comunali, della banca e blocchi stradali187 mentre a Bagnoli le lotte nelle acciaierie non si estesero a causa dell'assenza di un indotto.188
Le proteste del '69 erano legate alla scadenza dei contratti nazionali, compreso quello dei metalmeccanici, e all'avvio delle trattative tra il sinda- 183G. CRAINZ, Il paese mancato, p. 331.
184R. LUMLEY, Dal '68 agli anni di piombo, pp. 169-70.
185Ivi, p. 165.
186G. CRAINZ, Il paese mancato, p. 335.
187Ivi, p. 340.
cato e la Confidustria per il loro rinnovo. Il resto del '69 non prometteva nulla di buono sul fronte della conflittualità operaia e per l'autunno, tradi- zionale periodo di negoziati, questa avrebbe raggiunto il suo picco. Nel caso torinese alla rabbia operaia si univa lo stato di latente razzismo a cui erano soggetti i meridionali che costituivano la spina dorsale della forza- lavoro della Fiat. Non deve quindi stupire se gli scioperi erano in molti casi organizzati come atti di solidarietà verso ciò che succedeva nel sud d'Italia. Presto entrò tra le richieste degli operai l'abolizione delle “gabbie salariali” che permettevano il mantenimento di salari differenti, per uno stesso impiego, nelle diverse zone d'Italia. Anche alla Fiat si stava svilup- pando una situazione di “conflittualità permanente”, simile a quella svi- luppatasi alla Pirelli, fatta di scioperi continui e improvvisi dove l'autorità sindacale e aziendale era costantemente messa in discussione. Un mo- mento simboleggiante la divisione tra sindacati e operai fu lo sciopero contro il caro-affitti proclamato per il 3 luglio del '69 che vide la partecipa- zione di parecchie migliaia di operai della Fiat.189 Già alla partenza il cor- teo scandiva non lo slogan ufficiale del sindacato (“blocco degli affitti”) ma uno proprio degli operai (“Che cosa vogliamo? Tutto!”) mentre la po- lizia lo caricava più volte dando inizio a una serie di scontri che prosegui- rono fino a notte inoltrata, quando in corso Traiano vennero erette delle barricate.190 La situazione non era tesa solo a Torino ma anche a Milano, dove alla Pirelli il tentativo di compensare il calo della produzione dei pneumatici, importandoli dalla Spagna e dalla Grecia, portò gli operai a incendiarne una parte causando la decisione, da parte dei vertici aziendali, di dichiarare la serrata. Questa venne revocata in seguito alla proclama- zione di uno sciopero generale nella provincia di Milano e a una autoridu- zione del 45% ma l'azienda decise di licenziare uno degli operai responsa- bile dell'incendio: altro sciopero, questa volta spontaneo, con l'operaio li- cenziato riportato in fabbrica da un corteo.191 Questa situazione di “con- flittualità permanente” sfociò nell'assedio del Pirellone che portò il mini- stro del lavoro Donat-Cattin a mediare in modo che venisse raggiunto un accordo, trovato il 14 novembre, con il quale venivano accolte gran parte delle richieste dei sindacati. L'Autunno caldo a Milano non raggiunse i 189P. GINSBORG, Storia d'Italia, p. 379.
190Ibidem.
vertici di tensione di quello torinese, perché nella capitale lombarda la for- za-lavoro era composta principalmente da operai specializzati non iscritti al sindacato; neanche all'Alfa Romeo, grazie al controllo sindacale e a una più accorta politica aziendale, si conobbe una ripresa della conflittualità operaia nonostante l'impiego di 14.000 lavoratori per la maggior parte me- ridionale.192
Il biennio 1968-69 vide l'emergere di una conflittualità che interessò gran parte della società italiana. All'iniziale mobilitazione studentesca che, partendo da una serrata critica all'istituzione scuola e università, arri- vò a mettere in discussione la società stessa si unì quella dei lavoratori che ebbe l'effetto di alzare la tensione sociale nel paese. Sullo sfondo si staglia- vano intanto nuovi gruppi politici che, ponendosi più a sinistra della sini- stra tradizionale, riesumavano temi ormai messi da parte, come il concetto di rivoluzione, mentre nel dibattito interno a questi nuovi movimenti emergeva il tema della violenza e del suo uso al fine di alterare l'ordine so- ciale costituito. L'Autunno caldo contribuì a mettere in luce alcuni punti che già cominciavano a fare parte del repertorio teorico di alcuni gruppi, come quelli operaisti, e che avrebbero ricevuto una maggiore importanza nel decennio successivo. Tra questi punti si possono citare un sostanziale rifiuto del lavoro, l'emergere della figura dell'operaio massa che si sarebbe poi evoluto nell'operaio sociale, nuove forme di lotta e di sciopero, l'emer- gere di forme di autogestione operaia e infine rifiuto di considerare il sin- dacato e più in generale la sinistra tradizionale l'espressione degli interessi dei lavoratori.
Ognuno di questi punti giocò un ruolo fondamentale nel motivare la lotta operaia del '69, che dovrebbe essere vista sia come il punto d'arrivo di una tensione sociale in continuo crescendo per tutto il decennio sia come iniziò di una nuova fase di elaborazione teorica del ruolo operaio nello svi- luppo delle dinamiche del conflitto sociale. I gruppi della sinistra radicale tentarono di porsi come nuova guida della classe operaia, cercando di estromettere il sindacato, ma quest'ultimo si rivelò in grado di recuperare il controllo sui lavoratori. Intercettò il malessere della base e lo incanalò in una piattaforma rivendicativa in parte ottenuta con i rinnovi contrattuali e il successivo Statuto dei lavoratori. La sinistra rivoluzionaria uscì sconfitta 192Ivi, p. 192.
dall'Autunno caldo, con il sindacato capace di evitare la radicalizzazione dello scontro sociale che avrebbe potuto portare a un esito rivoluzionario di cui non erano chiari ne fini né i metodi.193
Il rifiuto verso le tradizionali forme di rappresentanza sindacale e stu- dentesca portarono allo sviluppo di nuove forme di protesta che permette- vano lo sviluppo di una situazione di tensione permanente . Ciò che i ver- tici aziendali si trovavano di fronte erano fabbriche sottratte al pieno con- trollo padronale dove la loro stessa autorità, espressa tramite i capireparto e i capisquadra, insieme al paternalismo aziendale, era messo in discussio- ne. Il modo in cui veniva organizzata la lotta contribuiva alla creazione di una conflittualità permanente che in molti casi si svolgeva indipendente- mente dai sindacati e dalle loro forme di lotta. Nuove forme di sciopero come quello a gatto selvaggio, a singhiozzo (si alternavano momenti di scioperi a quelli di lavoro) o a scacchiera (diversi raparti o anche singoli operai scioperavano a momenti alterni) mostravano una nuova solidarietà aziendale194 che permetteva la nascita e lo sviluppo degli scioperi. A que- ste forme di scioperi si affiancavano anche il picchettaggio e il corteo inter- no, dove un gruppo di operai in sciopero al posto di uscire restavano in fabbrica e la percorrevano, scandendo slogan e usando dei fusti come tam- buri improvvisi. Se i dirigenti non riuscivano a evitare l'arrivo del corteo si avrebbero dovuto sorbire un comizio operaio.195
Nel biennio1968-69 si assistette al tentativo di formazione di un'alleanza tra lavoratori e studenti, con quest'ultimi che vedevano negli operai un banco di prova per le loro teorie mentre la presenza degli studenti permet- teva di rinforzare le lotte operaie. Fin dall'iniziò delle lotte sociali si vede- va nella mobilitazione degli operai l'influenza del movimento studentesco, dato che continuava a essere veicolata, da parte di prefetti e forze dell'or- dine, l'idea che i lavoratori avevano come unica forza il loro numero.196 Il mondo operaio aveva la capacità di organizzarsi autonomamente, come avrebbe ampiamente dimostrato nel 1968-69, ma venne influenzato dal mondo studentesco. Ciò era dovuta principalmente all'immissione in fab- 193M. Scavino, La mobilitazione dei lavoratori industriali in Italia nel biennio 1968-69, in Il de-
cennio rosso, p. 163.
194P. GINSBORG, Storia d'Italia, p. 378.
195Ivi, p. 379.
brica di lavoratori-studenti che una volta iniziate le proteste universitarie portarono la loro esperienze all'interno della fabbrica. Dal mondo studen- tesco venne importata l'assemblea, diventata anche nella fabbrica, come nelle università e nelle scuole, il luogo deputato a prendere le decisioni inerenti alla lotta e a cui erano invitati a partecipare i lavoratori. Il rappor- to tra studenti e lavoratori non era di sudditanza di quest'ultimi verso i primi ma più di reciproco scambio di elementi: ognuno dei due mondi prendeva dall'altro ciò di cui avevano bisogno. Per gli studenti la condi- zione operaia era la dimostrazione delle teorie operaiste e dell'operaio- massa mentre per i lavoratori il modo in cui i giovani facevano le cose si prestava a essere imitato. Non era però facilmente dimostrabile un legame d'influenza degli studenti sui lavoratori, perché in molti casi di sciopero, come nelle officine trentadue e trentatré di Mirafiori, gli operai imitarono le tecniche dei gruppi estremistici ma non erano infiltrati da essi, come al- cuni giornali lasciavano intendere.197
CAPITOLO 3
L'Italia negli anni '70 attraversò una grave crisi di sistema che colpì il paese nel suo complesso. In campo economico il decennio non fu tra i più felici del paese, perché dopo una decade di crescita iniziò un periodo di contrazione che aveva in diversi fattori interni ed esterni le sue cause. La politica cominciò a sperimentare un processo di degenerazione morale che mise in luce sia l'incapacità della stessa a riformarsi che il sistema cliente- lare su cui si reggeva il dominio democristiano. A questa crisi del partito di maggioranza corrispose un'avanzata del Pci che lo portò a un passo dal- la Balena bianca ma si dimostrò incapace di sfruttare tale spinta convo- gliandola in un processo unitario della sinistra italiana che la portasse a scalzare la Dc dalle “stanze dei bottoni”.
Accanto alla crisi socioeconomica il paese si trovò a dover fronteggiare il terrorismo, prima nero e poi rosso, che segnò l'intero decennio e che vide la connivenza di una parte degli apparati statali nei confronti delle azioni del neofascismo, viste come un utile strumento in chiave anticomu- nista. La fine del '69 inaugurò il periodo delle “stragi di stato” che rispon- devano a un programma ben definito di slittamento verso destra della po- polazione che avrebbe favorito una possibile svolta autoritaria, la cosid- detta “strategia della tensione”. La responsabilità di quelle stragi, fatte ri- cadere sulla sinistra radicale, andava invece attribuita alle forze di destra e a frange deviate degli apparati statali che svilupparono una vero e proprio attacco contro lo stato atto a favorire un trasformazione in senso presiden- ziale o dittatoriale delle istituzioni democratiche. Di fronte all'attacco ter- roristico il paese riuscì a mantenere le proprie istituzioni democratiche e a combattere il fenomeno senza degenerazioni autoritarie.
3.1. Crisi economica.
La strabiliante crescita economica del paese nel corso degli anni '60 non fu esente da limiti e punti deboli che, già esplosi nel '68 e nell'Autunno cal- do, si ripresentarono in forma più grave nel decennio successivo. L'econo-
mia italiana si trovò, più di quelle di altri paesi europei, a risentire degli sconquassi degli anni '70, come la fine della convertibilità del dollaro in oro che aprì a una stagione di cambi flessibili, e la crisi petrolifera che cau- sò un vero e proprio shock petrolifero per un paese così dipendente dall'o- ro nero. I vari governi succedutisi nel corso del decennio cercarono di por- re un freno alla deriva dell'economia italiana ma non sempre riuscirono ad andare oltre a brevi successi intervallati da periodi di ristagno. Il decennio si contraddistinse per l'adozione di una politica di austerity, per ridurre i consumi dei derivati dal petrolio, e da un'alta inflazione che costrinse le parti sociali e Confidustria ad accordarsi per eliminarne gli effetti attraver- so un progressivo adeguamento dei salari. Un altro settore che risentì del- la crisi fu la finanza pubblica che si trovò a dover intervenire in vari settori economici al fine di garantirne l'occupazione generando un aumento del debito e della spesa pubblica. Anche la pubblica amministrazione subì un'espansione dei suoi dipendenti a causa del suo uso come ammortizza- tore della crescente disoccupazione.
La crisi economica ebbe in Italia effetti più considerevoli rispetto agli al-