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L'idea di lotta armata per i Collettivi

La creazione di un braccio armato dei Collettivi identificato nel Fronte, aprì al problema di come inserire il tema della lotta armata all'interno del- lo sviluppo teorico dell'organizzazione. La presenza di un livello militare all'interno dei Cpv poneva il problema di delineare le linee guida del suo impiego e del ruolo che questo avrebbe dovuto assumere nello scontro con lo Stato. Il numero sette di Autonomia ospitò un articolo, riconducibile ai Cpv, in cui veniva delineato il posto della lotta armata rispetto alla strate- gia di rovesciamento dell'ordine capitalistico. Lo spunto per questo “deli- neamento di posizioni” venne dato dall'omicidio di Guido Rossa e del giu- dice Emilio Alessandrini. Ambedue considerati «esponenti del revisioni- smo operaio nostrano»,442 e la loro morte permise di affrontare «lo svilup- po e le contraddizioni della lotta armata comunista nel nostro paese»443. Le azioni condotte rispettivamente dalle Br e da Prima linea, rischiavano di fare più danni che benefici, perché i bersagli scelti potevano portare allo scavo di un solco tra la classe operaia e le organizzazioni rivoluzionarie.

Riemergeva nella posizione dei Collettivi il problema dell'organizzazio- ne della lotta armata e del suo subordinamento a una strategia ben defini- ta e di progressiva escalation dello scontro con lo stato.

PRIMO PUNTO – Se per noi, come per questi compagni, l'elemento essenziale per la rottura dell'opportunismo e per la fuori uscita da linee politiche revisioniste, per decenni se non da sempre presenti e dominanti nel movimento ,operaio come per un'ipotesi possibile di potere operaio rivoluzionario, sta, questo elemento, nella scelta di campo della lotta armata; altresì, da questa acquisizione teorica e pratica per noi irreversibile, ne discende il problema di come la lotta armata si or- ganizza all'interno di una prospettiva storica di liberazione dallo sfruttamento ca- pitalistico. Infatti, se il nemico di classe fa derivare il suo potere la sua dittatura sociale dall'esercizio del comando sul lavoro, questo comando no è alimentato unicamente dalla forza militare, ma anche da una qualità sociale e di massa di tale forza.444

Il ricorso alla lotta armata era inevitabile per rovesciare il sistema, ma il 442CSEL, f. Nalesso, b. 24 (Terrorismo e ultrasinistra), Sulla linea di combattimento, AUTO-

NOMIA n. 7, 15 febbraio 1979, p. 1. 443Ibidem.

potere statuale e capitalistico era ben ramificato all'interno della massa e poteva influenzarne idee e i comportamenti. Questa capacità di controllo si manifestava attraverso la presenza di un revisionismo che aveva «fun- zioni di controllo del consenso proletario al dominio della legalità borghe- se.»445 Allora la lotta armata per essere efficace doveva prima risolvere questo “problema del consenso”:

la lotta armata, allora, acquista caratteristiche di universalità solo se inserita den- tro un percorso politico e d'organizzazione legato ad una strategia e a tattiche di fase impiantate sulla risoluzione di tutti gli aspetti sovraesposti.446

Il percorso della lotta armata doveva prima vedere l'isolamento dei re- visionisti e poi colpirli perché il rischio, se si saltava la prima fase, era quello di vedere vanificati i risultati dell'azione da un allineamento della massa su posizioni di rifiuto della pratica rivoluzionaria. Perché:

anche se porci, spie, ruffiani del padrone e merde compromesse con il regime ca- pitalistico, i revisionisti presentano ancora caratteristiche sociali, di massa, gesti- scono strati di maggioranza del proletariato e quindi, da subito e in questa fase, capaci di innescare confusione, mistificazione, isterismo anticomunista e, sopra- tutto, un pericoloso capovolgimento all'interno della classe di un giusto misurarsi degli operai e dei proletari con le proposte e le ipotesi di combattimento e libera- zione contro e dallo sfruttamento capitalistico.447

Questi “revisionisti” andavano colpiti ma non prima di averne distrutto il consenso tra la massa proletaria, denunciando la loro compromissione con il capitalismo, perché altrimenti i lavoratori non sarebbero stati in gra- do di capire la “giustezza” di tali atti in quanto ancora condizionati da una propaganda mistificatrice. Ciò rendeva necessario inserire la lotta armata all'interno di una strategia di più ampio respiro, in cui il “lato violento” fosse sorretto da uno ideologico che legittimasse le azioni. Perché «il sog- getto comunista deve essere disciplinato dentro un progetto centrale d'or- ganizzazione capace di “armarlo” per disarticolare l'intero arsenale di co- mando e controllo dello stato capitalistico.»448

La lotta armata diventava una delle componenti della più generale lotta contro lo stato:

quindi, linea di combattimento dentro la pratica del programma proletario a livel- 445Ivi, p. 2.

446Ibidem. 447Ibidem. 448Ibidem.

lo territoriale, dentro l'esperienza dell'illegalità di massa e dello sviluppo del mo- vimento comunista organizzato. Movimento come rete soggettiva di un potere proletario che cresce sull'uso della forza, via via commisurata ai possibili salti e alle forzature della e nella intera soggettività proletaria. Quindi un'articolata e complessa pratica della lotta armata.449

Ritornava con l'articolo dei collettivi l'idea di una lotta armata dipen- dente e non disgiunta da un programma rivoluzionario:

a noi no va più bene se si spezza un corretto equilibrio di proporzioni tre le due principali componenti, linee del movimento rivoluzionario, cioè tra i comunisti clandestini e i comunisti dell'autonomia operaia. È un grande pasticcio con brut- tissime prospettive, se una variabile, quella clandestina, non si rapporta più in al-

cun modo alla dinamica generale del movimento comunista.450

In questo senso gli omicidi Rossa e Alessandrini si rivelarono, secondo i Collettivi, delle azioni inappropriate («A noi quelle due azioni non vanno bene»451) proprio perché non in linea con il programma rivoluzionario. L'eliminazione di due esponenti del revisionismo non era sbagliata in sé proprio per il ruolo che ricoprivano

non tanto per la fine di due impiegati della macchina sociale di controllo antipro- letario, quanto, appunto, per le dimensioni, lo stato di salute di questa macchina e le sue articolazioni dentro la società civile452

ma lo era per il momento scelto. La mistificazione della propaganda anti- rivoluzionaria non erano ancora stati “smascherati” e quindi l'eliminazio- ne di due sui esponenti poteva danneggiare il cammino verso la rivoluzio- ne.

449Ibidem. 450Ibidem. 451Ivi, p. 1. 452Ibidem.

CAPITOLO 7

L'ondata di violenza che colpì la città di Padova nella seconda metà de- gli anni '70, nella misura ivi analizzata era riconducibile alla sinistra extra- parlamentare trovando nei Cpv i principali responsabili. I Collettivi si di- mostrarono capaci di creare una situazione di generale insicurezza all'in- terno della quale si assistette a una progressiva escalation della violenza. Inizialmente l'attività criminale si limitava all'incendio di autovetture e a scontri di piazza, in occasioni di particolari scadenze politiche, a cui seguì un'ondata di attentati in cui si fece largo uso di armi da fuoco e di esplosi- vi. Anche l'università fu teatro di diverse puntate da parte di quelle strut- ture di massa che gravitavano attorno ai Cpv e che culminarono nel pe- staggio o ferimento di alcuni docenti come Petter o Ventura.

I Collettivi mirarono a creare una situazione d'instabilità continua che mettesse in luce da un lato l'incapacità dello stato di controllare il territorio e dall'altro la capacità dei suoi membri di muoversi all'interno della città decidendo modalità e tempi delle azioni, dando così l'idea di avere un ap- poggio tra la popolazione. I Collettivi in più di qualche occasione mostra- vano un'elevata capacità organizzativa che gli permetteva di mobilitare uomini e risorse in base al grado d'importanza dell'azione. Accanto a que- sta prassi d'illegalità di massa, non tanto distante come modalità d'esecu- zione da quelle di altri gruppi dell'ultrasinistra, ne esisteva una più chiusa e compatta che era in grado di mettere in piedi attentati di grave impatto sociale, come il ferimento di esponenti pubblici noti per la loro avversità verso i modi e le azioni della sinistra radicale.

A partire dal 1977 si assistette a quell'escalation di violenza prima citata e al contempo apparì sulla scena veneta il Fronte comunista combattente che segnò un punto di svolta fondamentale per l'organizzazione. Si alzò il tiro degli attacchi e fecero la loro comparsa sulla scena le armi da fuoco, usate in varie occasioni, e gli esplosivi mentre l'università fu sottoposta a un sistematico attacco che aveva come obiettivi quei professori che si sta- vano opponendo alla spirale di violenza in cui era finita la città e allo stra- potere dei Collettivi. Tra il 1977 e il 1979 città e provincia subirono nove attentati rivendicati dal Fronte mentre; contemporaneamente si succedet-

tero dieci cosiddette “notti dei fuochi”, caratterizzate dalla contemporanea esecuzione di diversi attentati che interessavano anche altre città della re- gione. Nei nove attentati compiuti dal Fcc rientrarono anche la gambizza- zione di Garzotto, Mercanzin, Filoso e Ventura. Dopo i morti di via Zaba- rella e l'assassinio dell'agente di polizia Antonio Niedda da parte del bri- gatista Paolo Picchiura la città non registrò altri morti a causa del terrori- smo ma questo non dovrebbe sminuire la portata che l'eversione raggiun- se. All'interno dell'università a diversi professori vennero distrutti gli stu- di, interrotte le lezioni o gli esami e in alcuni casi picchiati. A tutto ciò vanno aggiunte le minacce scritte sui muri dell'università e della città o trasmesse oralmente ai diretti interessati nel corso dei raid punitivi.