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Il buen vivir di fronte al dilemma del cacciatore

Consequenziale a tale schema operativo, non può che essere un’idea di costituzione come unità organica nel suo impianto pluralistico e

olisti-ca nel suo percorso di sperimentazione, proprio perché soggettivamente plurale: non un complesso di materie di varia natura e contenuto a dispo-nibilità individuale o pubblica, tra loro isolabili e singolarmente tutelabili in bilanciamento reciproco; ma un tutt’uno, di cui comprendere il signi-ficato attraverso una sorta di originalismo costituente e una rigidità inter-pretativa, che salvaguardino il pluralismo che ha prodotto e si è ricono-sciuto in quella unità, sostenendo in tal modo politiche, processi, prassi e soprattutto interpretazioni vincolate alla volontà originaria (come espli-citamente richiesto dall’art. 196, p.to II, della costituzione boliviana con il richiamo al costituente con i suoi «documenti, atti e risoluzioni») e alla sistematicità del testo nei suoi enunciati (si veda la clausola di interezza inserita nell’art. 427 cost. Ecuador).

Nella proiezione dell’autoctonia costituzionale, questa insistenza te-stualistica è strategica e imprescindibile (Ávila Santamaría, 2011), perché mantiene in vita la complessità del dialogo interculturale come necessità di una sua verbalizzazione esplicita, non semplicemente praticata, a ga-ranzia della chiarezza reciproca, della trasparenza dei comportamenti, della visibilità delle responsabilità degli attori in campo, giudici e inter-preti compresi (sulla rilevanza di questa esplicitazione in generale per l’inclusione effettiva delle comunità indigene, già García Ramírez, 1996: 889 ss.). Non a caso, le formule della trasparenza e della responsabilità ricorrono in tutte le clausole costituzionali andine e risultano tutte co-niugate con la visione olistica del buen vivir. Si pensi agli articoli 83, sui doveri costituzionali, e 340 della costituzione dell’Ecuador; quest’ultimo esclude dal proprio lessico il termine materia costituzionale (tecnicismo che tende a presupporre ripartizioni di competenze) per parlare invece di «sistema di inclusione ed equità», come architettura istituzionale del buen

vivir comprensivo di «sistemi, istituzioni, politiche, norme, programmi

e servizi» che, tra l’altro, garantiscano la «esigibilità dei diritti ricono-sciuti nella costituzione», in tutti gli ambiti (educazione, salute, sicurezza sociale, gestione dei rischi, cultura, habitat e alloggio, comunicazione, cultura fisica, fruizione del tempo libero, scienza e tecnologia, popola-zione, sicurezza umana, trasporto, ecc.). In modo analogo, si collocano altre disposizioni, come gli artt. 32 o 275: lette singolarmente, ognuna di queste delimita enunciati di incerta classificazione (ottativi, emotivi, prescrittivi, limitativi, ecc.?). Nella unità testuale – indubbiamente

com-plessa, ma perché complesso e difficile non poteva non essere il dialogo interculturale a base di quella scrittura costituzionale – ciascuna gioca la carta della esigibilità e della progressività di tutela a tutti i livelli di azione, pubblici e privati.

È solo lungo questo percorso che il costituzionalismo andino può pro-cedere nella sua scommessa della inclusione interculturale. Se noi lo leg-gessimo attraverso le lenti del costituzionalismo liberaldemocratico fon-damentalmente monoculturale e individualistico, non comprenderemmo nulla di quella scommessa. Il costituzionalismo liberaldemocratico ha af-fidato al primato della libertà, alla rappresentanza individuale e alla limi-tazione del potere la riuscita delle strategie di cooperazione plurale e di risoluzione dei conflitti nell’attuazione dei suoi disegni normativi (Dani, 2013). Così evolvendosi, esso ha alimentato quella condizione esistenzia-le che proprio Rousseau, nel suo Discorso sull’origine della disuguaglianza del 1754, inquadrò come dilemma del cacciatore: il problema della pre-valenza degli interessi individuali verso i propri benefici immediati rispet-to ai benefici, comuni ma non immediati, dei maggiori interessi collettivi garantiti dal patto costituzionale (Skyrms, 2004); ossia il problema della intergenerazionalità dei compromessi costituzionali di fronte alla evolu-zione dei bisogni e degli interessi. Il dilemma del cacciatore, com’è noto, spiega come, nella caccia al cervo (inteso quale bene comune accettato da tutti i partecipanti al compromesso costituzionale), la cooperazione sociale e la fiducia reciproca siano condizioni oggettive e necessarie per il conseguimento dell’obiettivo (il cervo). Tuttavia, dimostra anche come il passaggio di una lepre davanti a uno dei cacciatori (il bene o interesse privato immediato) possa indurre ciascuno, senza scrupolo per gli altri, ad abbandonare l’impegno comune, per il diretto conseguimento del ri-sultato di soddisfazione individuale.

Proprio per evitare che questa tentazione finisca col prevalere nel tempo, è stata declinata la concezione della costituzione come documen-to scritdocumen-to fondamentale, che vincola alla cooperazione, ma al tempo stes-so emendabile nel futuro, allo scopo di rimediare agli effetti del dilemma contemplando il rinnovo della scrittura e dei patti di cooperazione tra i partecipanti alla dinamica costituzionale in ragione della dialettica evo-lutiva di interessi individuali e collettivi. Sempre in questa prospettiva, lo stesso costituzionalismo si è perfezionato, attribuendo al giudice

(so-prattutto al giudice costituzionale) il compito di vigilare sui conflitti tra interessi individuali e interessi collettivi, assumendo la scrittura costitu-zionale stessa, in quanto parametro di legittimità del sistema, come bene pubblico fondamentale di tutti gli appartenenti alla società (sulle varie declinazioni del bene pubblico, comprensive anche delle regole costituti-ve di un ordinamento giuridico, v. Hargreacostituti-ves Heap et al., 1992: 193 ss.). Rigidità ed emendabilità costituzionale, da un lato, e controllo di costitu-zionalità, dall’altro, hanno storicamente contribuito a ridimensionare gli effetti del dilemma del cacciatore. Sussiste, tuttavia, una condizione sto-rica da non sottovalutare in questa evoluzione del dilemma: esso è nato e si è sviluppato sempre in una prospettiva di fondamentale unicità delle visioni umane su interessi individuali e collettivi coinvolti da quel dilem-ma (escludendo, per esempio, donne, schiavi, “buon selvaggi”, ecc.).

Oggi, questa prospettiva è cambiata ed è diventata molto più com-plessa, e non solo perché donne, schiavi, “buon selvaggi” o altra umanità è stata finalmente inclusa nella cooperazione, ma soprattutto per altre due ragioni: da un lato, la logica di mercato, come logica dell’interesse individuale immediato, si è estesa dai beni privati a tutti i beni pubblici (Sandel, 2012), compresi quelli fondamentali delle stesse regole costitu-tive della convivenza, ridotte anch’esse a “valori” del mercato (le modi-fiche costituzionali degli Stati europei sui vincoli di bilancio ne offro-no inquietante conferma), sfalsando ulteriormente il delicato equilibrio espresso dal dilemma del cacciatore (quali sono gli interessi veramente collettivi di fronte al mercato?); dall’altro, l’ambiente, nella sua essenza di interesse collettivo, non può più restare escluso dal dilemma o parteci-parvi semplicemente al pari di qualsiasi altro bene (si pensi, per esempio, alla logica “chi inquina paga” come rappresentazione di quel dilemma tra beni e attori, posti tutti sullo stesso piano, come se lepri e cervi fossero la stessa cosa: Spotts, 2012: 102).

Il dilemma del cacciatore, a questo punto, non può più escludere un

tertium comparationis delle sue scelte: un tertium ignorato da tutte le

te-orie politiche e costituzionali, comprese quelle più critiche verso l’indi-vidualismo metodologico sotteso al costituzionalismo moderno, a partire dalla stessa tradizione marxista, che ha sempre negato, salvo alcune ecce-zioni (come la Dialettica della natura di Engels: Grijalva Jiménez, 2011), ogni ruolo alla natura nel processo di produzione della socialità. La

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tura, considerata senza diritti e soprattutto senza rappresentanza, perché appunto rubricata come materia prima della produzione sociale, deve far parte del dilemma del cacciatore; deve diventare soggetto delle decisioni interne a quel dilemma (il che conferma la originalità della proposta del

nuevo constitucionalismo, rispetto alle ridondanze marxiste del pensiero

critico latinoamericano: si pensi a previsioni come gli artt. 333, 334 e 335 della costituzione dell’Ecuador).

Stando così le cose, rispetto ai meccanismi della rigidità/emendabilità costituzionale e del controllo di costituzionalità, cos’altro può essere pre-visto in costituzione affinché il dilemma del cacciatore accetti la natura non come parte del gioco, ma come cornice indisponibile dello stesso? È plausibile ipotizzare che le innumerevoli clausole costituzionali ispirate al

buen vivir mirino a questo scopo? È su questo interrogativo che si radica

la doppia valenza dell’“autoctonia costituzionale”. Le due costituzioni andine si presentano come strutture pietrificate dei livelli di cooperazio-ne cooperazio-necessari a scongiurare o comunque limitare gli effetti del dilemma del cacciatore a danno dell’“autoctonia costituzionale” intesa come plurali-smo interculturale e come natura-soggetto. Vediamo come.

4. “Autoctonia costituzionale” e resistenza al mutamento

Le due costituzioni tentano di instaurare un sistema di democrazia deliberativa articolata su più livelli di dialogo interculturale tra le diverse componenti del pluralismo che le ha prodotte. In tale prospettiva, esse ridimensionano il ruolo del giudice come garante ex post di quel plurali-smo, per anticiparne i momenti di emersione su altri fronti di confronto e cooperazione (Palacios Romeo, 2008: 41 ss.). In altre parole, il rimedio alla rottura della cooperazione (la scelta individuale della lepre a danno della cooperazione per la cattura del cervo) non può essere solo il giudi-ce: neppure il giudice di costituzionalità. Ci vuole qualcosa di più, qual-cosa che tenga sempre attivo il concorso alla cooperazione.

Si spiega così l’enfasi tributata alla democrazia partecipativa come mandato costituzionale di cooperazione (v. per es. l’art. 11 della costitu-zione boliviana). Il pluralismo non deve semplicemente essere garantito per via giudiziale – quella via giudiziale alla democrazia deliberativa che

i giudici sovranazionali predicano come metodo, sia nel contesto intera-mericano (de Oliveira Mazzuoli, de Faria Moreira Teixeira, 2013: 199 ss.) che europeo (Starita, 2010: 275 ss.), senza tuttavia poter incidere sull’as-setto interno delle competenze e dei poteri. La costituzionalizzazione del-la democrazia partecipativa mira invece a reimpostare l’assetto dei poteri e delle competenze, imponendo il dialogo interculturale e l’inclusione della natura come soggetto costituzionale a tutti i livelli di azione pub-blica e privata. Ne offrono testimonianza diverse clausole costituzionali andine: penso, tra le altre, alla costituzionalizzazione del metodo nego-ziato tra giurisdizioni statali, indigene e campesinas, alla positivizzazione delle politiche pubbliche come vere e proprie “fonti” costituzionali (art. 11, n. 8, cost. Ecuador: «Il contenuto dei diritti è sviluppato in maniera progressiva attraverso le norme, la giurisprudenza e le politiche pubbli-che»), al rapporto tra riserva di legge ed esigibilità dei diritti, compresi quelli della natura (art. 426 secondo capoverso cost. Ecuador). Si tratta di metodi e approcci che non passano necessariamente o prioritariamen-te dalla inprioritariamen-terposizione legislativa né dalla inprioritariamen-terpretazione del giudice. Sintomatico, su questo fronte, è il regime delle lacune nella costituzione dell’Ecuador: oltre al già citato art. 426 secondo capoverso, è da conside-rare l’intero art. 11, soprattutto nei nn. 3, 4, 5 e 8. Ma riscontri analoghi si desumono da molte altre disposizioni: per la costituzione della Bolivia, valgono gli articoli 3, 9, 17, 18, 30, 45, 78-81, 93, 95, 96, 98, 100, 108, 176, 186, 218, 241, 345, 346, 380-383, 394-395; per quella dell’Ecuador, gli articoli 3, 10, 13, 15, 21, 31-32, 56-60, 95-102, 156, 242, 249, 334, 336, 340, 357-358, 375, 378, 380, 423.

Questa vasta rete normativa di sostegno alla interculturalità e al dise-gno dell’“autoctonia costituzionale” riscontra le sue giunture in tre bloc-chi normativi specifici: le clausole di resistenza istituzionalizzata al mu-tamento anticostituzionale; le clausole di progressività e non regressione di diritti e garanzie costituzionali; le clausole di pietrificazione. Si tratta di disposizioni non facilmente rubricabili nelle classificazioni consolida-te della consolida-testualità costituzionale euro-nordamericana. Esse, infatti, non fungono da semplici elementi di irrigidimento della forma costituzionale scritta, assolvendo piuttosto ad una funzione di garanzia della legittima-zione autoctona di quella scrittura.

mutamen-to anticostituzionale. Ci si riferisce ai Timutamen-toli III e IV della costituzione dell’Ecuador, collegati con l’art. 130, nonché agli artt. 26, 139, 140, 196 e ss. della costituzione della Bolivia. Sono tutti strumenti in cui la di-sponibilità anche interpretativa della scrittura costituzionale conosce dei contrappesi di iniziativa cittadina diretta (come per l’azione straordinaria di cui all’art. 134 cost. Ecuador o le declinazioni della partecipazione di cui all’art. 26 cost. Bolivia) o rappresentativa (art. 130 cost. Ecuador) o giudiziale (art. 88 cost. Ecuador, artt. 196 ss. cost. Bolivia), che mira al controllo sociale del mutamento costituzionale e alla denuncia istituzio-nalizzata dell’anticostituzionalità come negazione del disegno autoctono scritto in costituzione.

Analogamente operano le clausole di progressività e non regressione dei diritti, che definiscono il quadro di contenimento sia delle dinamiche interpretative della costituzione (nel senso che l’applicazione dei diritti dovrà essere progressiva e non regressiva, secondo lo stesso intento origi-nario del testo costituzionale) sia del mutamento formale o informale del documento costituzionale, scandito nella distinzione fra diversi procedi-menti, legittimati tutti dall’oggetto di intervento rispetto proprio a quella progressività e non regressione dei diritti posta a base dello sviluppo co-stituzionale. Non si tratta di clausole di auto-conservazione dello status

quo; né siamo di fronte ai classici meccanismi di difesa costituzionale

ap-presi dall’esperienza liberaldemocratica. Si deve riscontrare piuttosto un approccio differente di ottimizzazione della costituzione, il cui mandato è affidato a più attori in più contesti.

Si spiega in quest’ottica la tecnica della pietrificazione utilizzata dai due testi proprio sul fronte del mutamento costituzionale formale: tec-nica diversa dalla semplice garanzia della rigidità della costituzione (Co-lombo Morúa, 2011). La costituzione dell’Ecuador non provvede solo ad esplicitare limiti al mutamento (art. 441), ma formalizza la distinzione tra potere costituente e poteri di emendamento e riforma parziale della costituzione, con la corte costituzionale come arbitro (art. 443) non dei contenuti dei limiti, bensì delle regole dei procedimenti interculturali di partecipazione cittadina al mutamento, essendo appunto l’intercultura-lità l’unica fonte di legittimazione di qualsiasi mutamento. Ecco allora che la dinamica costituzionale potrà operare, nella continuità del metodo partecipato, a livello interpretativo (artt. 171 e 427), di emendamento

(art. 441), con condizioni di procedibilità per organicità della materia e dei contenuti (art. 136), di riforma parziale (art. 442), con la partecipa-zione cittadina interculturale (art. 101), fino all’esercizio di scrittura più prossimo all’evento originario autoctono, l’Assemblea costituente (art. 444), purché quest’ultima espressa dal consenso di tutte le autoctonie presenti nello spazio statale, attraverso la partecipazione referendaria. Analogamente si può scandagliare la scrittura della costituzione della Bolivia, negli articoli 190, 191, 192, 202, 411. Al pluralismo delle au-toctonie costituzionali (artt. 190-192), si affianca anche qui un metodo interculturale che vede nel tribunale costituzionale plurinazionale il suo interprete supremo a tutela di qualsiasi forma di mutamento costituzio-nale sia formale che informale e a tutela della partecipazione cittadina nei procedimenti formali (art. 202), con esclusione esplicita della mutabilità dei diritti interculturali a base della costituzione stessa, per i quali l’unica via non potrà che essere il ritorno alla scelta costituente con la partecipa-zione popolare delle diverse autoctonie (art. 411).

Questi esperimenti di scrittura ci dicono qualcosa di interessante per le nostre tradizioni di formalizzazione e interpretazione dei limiti al mu-tamento: una costituzione interculturale non si tutela dai suoi mutamenti con il solo irrigidimento formale dei procedimenti o con le astrazioni valoriali delle interpretazioni sapienziali circolanti tra i giudici. La costi-tuzione si tutela riducendo al minimo il dilemma del cacciatore, ovvero garantendo la persistente dialettica tra partecipazione interculturale e interpretazione, tra esperienza popolare (la interculturalità autoctona di quei paesi) e sapienza giuridica, proprio sul fronte della discussione dei limiti al mutamento.

Pertanto, quando Ecuador e Bolivia pietrificano persino il potere co-stituente, non lo fanno per imbrigliare il pluralismo. Lo fanno per pre-servarlo, prendendo atto che, in un contesto di autoctonia costituzionale come quello dei paesi andini, qualsiasi mutamento costituzionale non può chiamarsi fuori da quella esperienza giuridica di cooperazione in-terculturale – come verificatosi nelle imitazioni museali del passato – ma dovrà operare nel rispetto di quella autoctonia. Certo, ci si potrà sempre porre contro la “volontà” della costituzione. Ma, a quel punto, diventerà chiaro che il fenomeno non sarà più un mutamento/sostituzione dentro l’autoctonia costituzionale, bensì una sostituzione/soppressione di quella

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autoctonia: significherà, in altre parole, la rottura del quadro di coopera-zione e la ricaduta nel dilemma del cacciatore.

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