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Neoliberalismo e regolazione della natura

GLI ORIZZONTI DELLA SOSTENIBILITà

5. Neoliberalismo e regolazione della natura

Ma c’è qualcosa di ancora più rilevante per il nostro ragionamento sul buen vivir come “archeologia” post-costruttivista del rapporto uomo-natura. Il carattere inevitabilmente metaforico e consensuale delle nuo-ve descrizioni della materia attira l’attenzione sul contesto in cui esse si vanno sviluppando. Se concetti e prassi scientifiche prendono forma solo entro quelli che Ludwik Fleck (1983) chiama “stili di pensiero”, ossia gli orizzonti di senso che gli scienziati condividono con le cerchie sociali più ampie in cui sono inseriti, dobbiamo interrogarci sulla

Weltanschau-ung odierna. Da trenta e più anni stiamo assistendo a una variegata ma

generalizzata trasformazione sociale e culturale imperniata sull’ideologia neoliberale (Brenner et al., 2010; Baccaro e Howell, 2013). Gli autori marxisti parlano di «neoliberalizzazione della natura» riferendosi a una rinnovata fase di accumulazione del capitale: attraverso strumenti par-zialmente inediti (che combinano potere statale e forme di regolazione indiretta e diffusa, la cosiddetta governance), è in atto un poderoso pro-cesso di privatizzazione e mercificazione del mondo biofisico, non dissi-mile da quanto è avvenuto in altre epoche (Harvey, 2003; Castree, 2008). Tuttavia, se guardiamo a un paio di esempi, ci rendiamo conto che in ballo c’è qualcosa di più.

Prendiamo i carbon markets, i mercati delle emissioni di CO2, pro-mossi dal Protocollo di Kyoto (1997). L’idea, com’è noto, è che si fissa un tetto alle emissioni e si distribuiscono “diritti a inquinare”, che pos-sono essere poi comprati e venduti. La ricerca dell’efficienza economica dovrebbe quindi spingere ad adottare gradualmente soluzioni tecniche meno impattanti. Senza entrare nel merito dei risultati (deludenti) fin qui ottenuti, notiamo che punto cruciale del meccanismo è che la riduzione del CO2 prodotto in un dato luogo del pianeta è considerata equivalente alla riduzione di un altro gas serra emesso altrove, e ciò in base a un tas-so di conversione stabilito dall’International Panel on Climate Change e definito global warming potential (Gwp). Per esempio, il Gwp del trifluo-rometano (Hfc-23) è fissato in 11.700, quindi una tonnellata di Hfc-23 corrisponde a 11.700 tonnellate di CO2. Un’industria italiana può così decidere di ridurre le sue emissioni di CO2 o comprare crediti venduti da una fabbrica che, da qualche parte nel mondo, sta riducendo l’Hfc-23. Prendiamo adesso i brevetti biotecnologici. Un tempo non erano consen-titi, in base all’assunto che l’ibridazione non presenta i necessari requisi-ti di novità, invenrequisi-tività e applicabilità industriale, posto che il materiale biologico si riproduce, tra l’altro in modo non riducibile a uno schema fisso. Ma nel 1980, la corte suprema statunitense ha sentenziato che un batterio geneticamente modificato è brevettabile quale “composizione di materia” di carattere innovativo (poiché in tale forma non è disponibile in natura), la cui applicabilità industriale risiede nell’identificazione della

sua specifica funzione191.

Ecco qui due esempi lampanti di neoliberalizzazione della natura, nel senso di estensione della privatizzazione e mercificazione: gas serra e bat-teri diventano oggetto di appropriazione e compravendita. Tuttavia c’è dell’altro. Il Gwp è un’astrazione (funziona da mezzo di scambio come la moneta) ma anche qualcosa che si suppone avvenga effettivamente nell’atmosfera, o meglio un processo o un’entità fisica il cui concretizzarsi si vuole evitare. Nel caso del brevetto su una sequenza genetica, identifi-care la sua funzione significa capire la biochimica della proteina che un gene produce e come ciò conduce a un tratto specifico dell’organismo. Il gene ha quindi uno status ambiguo, al tempo stesso entità materia-le e informazione. In effetti, come si evince anche dalla giurisprudenza in materia, il brevetto finisce per coprire tanto l’informazione genomi-ca quanto il materiale fisico (Dna) e quindi l’organismo che incorpora tale informazione. Organismo, tra l’altro, diverso da quelli “naturali” (e quindi protetto da un diritto di proprietà) ma anche “sostanzialmente equivalente” a questi ultimi (e dunque non passibile di regolamentazione specifica). In breve, Gwp e brevetti biotecnologici ci pongono di fronte a entità ontologicamente indefinite o oscillanti tra materiale e simbolico, reale e virtuale, costrutto epistemico e realizzazione concreta, differenza ed equivalenza (Pellizzoni, 2011).

È questo uno sviluppo puramente endogeno della ricerca e della re-golazione tecnoscientifica? È lecito dubitarne. L’indeterminazione on-tologica, infatti, è profondamente radicata nella razionalità neoliberale, per la quale è la gestione dell’incertezza e non il calcolo del rischio ciò che sta alla base della creatività imprenditoriale, la quale richiede intuito, flessibilità, anticipazione, giudizio esperienziale (O’Malley, 2004). L’in-determinazione, cioè, non è prospettata come angosciante e paralizzante ma come liberatoria, poiché riduce limiti e costrizioni aprendo spazi d’a-zione potenzialmente illimitati (Pellizzoni, 2011). L’esplosione dei deri-vati finanziari ne è la prova evidente. La vita stessa è descritta in termini di emergenza e adattamento complesso, condizione che comporta certo

1 Questa concezione si è imposta a livello mondiale in quanto inserita negli accordi Trips (Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights) del 1994, la cui sottoscrizione è parte integrante dell’adesione al Wto.

Luigi Pellizzoni 195 194 Natura, buen vivir e razionalità neoliberale

pericoli e insicurezze ma che è tuttavia posta «al cuore di ciò che vi è di positivo e costruttivo» (O’Malley, 2010: 502). L’idea di resilienza, quale adattamento contingente a turbolenze sociali e biofisiche imprevedibili, è non a caso sempre più incorporata da azioni di governo che abbandona-no la pianificazione tradizionale a favore di tecniche anticipatorie basate sulla costruzione di scenari (Walker, Cooper, 2011).

Arriviamo qui al nocciolo della questione. In un lavoro spesso citato, Luc Boltanski e Eve Chiapello (2005) descrivono il “nuovo spirito” del capitalismo post-fordista. Esso ha integrato e messo a valore la critica che i movimenti degli anni ‘60 e ‘70 avevano rivolto al modello fordista e statalista (burocratico, pianificato, standardizzato, industrialmente “pe-sante”), contrapponendogli autonomia, flessibilità, responsabilizzazione, creatività, smaterializzazione. C’è da chiedersi allora se non siano oggi il neo-materialismo e le ontologie flat a riuscire funzionali alle logiche di un capitalismo fluido e cangiante. La domanda mi pare scarsamente pre-sente nel dibattito. Nonostante l’insistenza sulla stretta relazione tra on-tologia e politica (Mol, Law, 2006; Escobar, 2010b; Coole, Frost, 2010), le posizioni post-costruttiviste non sembrano in genere registrare che la propria visione – in particolare la cancellazione di ogni distinzione tra ontologia ed epistemologia, realtà materiale e rappresentazione simboli-ca – coincide nella sostanza con quella neoliberale. Il problema, mi pare, sta nel fatto che esse continuano a visualizzare un bersaglio, il classico realismo scientifico e costruttivismo culturale, il quale sta rapidamente scomparendo sotto i colpi di una trasformazione nella prassi e nella re-golazione tecnoscientifica che va esattamente nella direzione auspicata, ma con esiti opposti. La somiglianza tra neoliberalismo e post-costrutti-vismo si estende perfino alla concezione del soggetto, in entrambi i casi anti-essenzialista, “decentrata” e contingente. Tra l’agente neoliberale e il soggetto “post-umano” di molta teoria post-costruttivista l’unica diffe-renza è che il secondo trae da anti-essenzialismo e contingenza una criti-ca alla hybris moderna, facendo professione di umiltà, cura e rispetto di un mondo biofisico mutevole e vitale, mentre il primo vede in tutto ciò l’opportunità di rifare il mondo a proprio piacimento, plasmandolo e pla-smandosi in un incessante divenire “altro” o “di più”. Differenza impor-tante, senza dubbio, ma non derivabile dalle rispettive posizioni ontolo-giche; tant’è che teoriche femministe come Donna Haraway (2008) e Rosi

Braidotti (2013) si collocano su posizioni così decisamente “affermative” circa le potenzialità di auto-trasformazione offerte dalla tecnoscienza, da risultare difficilmente distinguibili dalla narrativa neoliberale dell’human

enhancement (Roco, Bainbridge, 2003). Così come la “cittadinanza

biolo-gica” delle scelte responsabili, di cui parlano Nikolas Rose (2007) e altri, si carica di profonda ambiguità quando si tratta di distinguere interventi terapeutici (riparativi di danni o deficit fisici o psichici) e interventi di potenziamento fisico, estetico o mentale (Bard, 2012), la cui soglia di ac-cettabilità sociale è affidata al vaglio di imprecisate agenzie regolative che dovrebbero vigilare su un mercato di cui si ribadisce il ruolo di principale promotore e distributore dell’innovazione (Agar, 2010; Buchanan, 2010).

Tra i pochi studiosi che si stanno ponendo questo genere di domande può essere citata la filosofa Nancy Fraser (2009), la quale, richiamandosi proprio a Boltanski e Chiapello, parla di «fastidiosa convergenza» tra alcuni degli ideali espressi dal femminismo nel contesto dell’ascesa del neoliberalismo e le richieste di una nuova forma di capitalismo post-for-dista, “disorganizzato” e transnazionale. La questione è, in altri termini, se i cambiamenti culturali promossi dal femminismo siano serviti a legit-timare una trasformazione strutturale del capitalismo che va in collisione proprio con la visione femminista di una società giusta. A sua volta il geo-grafo marxista Neil Smith (2005) si interroga sugli approcci “neo-critici”, basati sulle ontologie flat sopra discusse, che stanno fiorendo nella sua disciplina. Approcci per i quali le nozioni di spazio, scala e gerarchia, fino a ieri cruciali per la critica di ingiustizie, disuguaglianze e sopraffazioni, sono da abbandonare a favore di una visione del mondo e della politica frammentata, “affettiva”, “immanente”, centrata su una “ecologia della speranza” e sulla sperimentazione continua (Amin, Thrift, 2005; Marston

et al., 2005); nozioni non solo fumose ma visibilmente affini alla retorica

neoliberale. Le idee innovative e radicali, osserva Smith, finiscono tritu-rate nella melma culturale. La loro forza, le sfide che esse pongono, le rende appetibili, politicamente e commercialmente, il che le espone a un processo di erosione, generalizzazione e integrazione. L’esempio viene da nozioni come differenza, multiculturalismo, pluralismo, identità, da tempo riciclate dal lessico e dall’iconografia di Cnn, Mtv, McDonald’s e Benetton.

6. Conclusione

Anche il buen vivir rischia di subire la stessa sorte? Impossibile dirlo in questo momento. Certo, come abbiamo visto, si tratta di un’idea con-troversa. Soprattutto, si tratta di una tradizione inventata, pienamente inserita nella teoria sociale post-costruttivista, della cui ambigua relazio-ne con l’avversario designato, l’ideologia relazio-neoliberale e il suo assalto alla natura e alle comunità locali, essa inevitabilmente partecipa.

Questa, almeno, la tesi che ho cercato di argomentare nel presente saggio, il cui obiettivo non era sviluppare una critica distruttiva del buen

vivir ma sollevare un problema trascurato. Come osserva Smith, non c’è

niente di inevitabile nel processo di integrazione e svuotamento delle idee innovative. Quello che occorre è però «essere sempre parecchi passi avanti al tritatutto capitalista, reinventando i conflitti, trovando nuovi lin-guaggi, nuove strategie politiche, nuove idee, nuove forme di attivismo» (Smith, 2005: 891). In questo senso il buen vivir ha dalla sua il fatto di innestarsi su una visione del mondo (natura, individuo, comunità) pro-fondamente diversa da quella da cui promanano tanto l’individualismo rapace del neoliberalismo che il post-umanismo decentrato della teoria sociale contemporanea. Una visione che, alla luce di una diversa conce-zione dell’esperienza, più che cancellare sembra rimodulare la tensione tra mondo e conoscenza. Nozione aperta, bisognosa di ulteriore elabo-razione ma non piegabile a qualsiasi lettura, il buen vivir può quindi co-stituire un punto di riferimento importante nella ricerca di un’alternativa praticabile alla neoliberalizzazione della natura.

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Abstract: By linking nature and culture in a relationship of mutual

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vivir seems to offer a “sustainable” alternative to the exploitation

of the biophysical world and human communities that neoliberal globalization is taking to the extreme. Buen vivir, however, is an “invented tradition”, still under elaboration. Indigenous cultures are read in the light of most recent developments in social theory, which connect emancipatory practices and deconstruction of clas-sic ontologies. On their side, new post-constructivist ontologies (this contribution focuses on feminist “new materialism”) build to a remarkable extent on the conceptualizations of nature provided by technoscience, which in their turn are attuned to neoliberal rationality. One may wonder, therefore, if the post-constructivist approach is pointing to a target of decreasing significance, while failing to acknowledge its own alignment with the vision of nature that underlies neoliberal policies. In any case, buen vivir remains a promising framework, especially in regard to its grafting onto a worldview that differs profoundly from the one which underpins both the greedy individualism of neoliberalism and the decentered post-humanism of contemporary social theory.

Keywords: Nature, Buen vivir, Neoliberalism, Post-constructivist

di Sabrina Lanni 20*

Sommario: 1. Riconoscimento dei diritti indigeni e ripensamento della gestione dei beni comuni. – 2. Vulnerabilità dell’acqua come bene comune tra diritti e garanzie. – 3. Crisis del agua a fronte dell’im-pegno delle esperienze giuridiche latinoamericane. – 4. A favore di una giustizia alternativa: il Tribunal Latinoamericano del Agua.

1. Riconoscimento dei diritti indigeni e ripensamento della gestione dei