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Il paradigma dominante: Popper, Russell, Ryle

ALL’EPISTEMOLOGIA

3.1. Il problema della conoscenza in Michael Polany

3.1.1. Il paradigma dominante: Popper, Russell, Ryle

Nel periodo in cui si interessa a problemi filosofici Michael Polanyi si trova da lungo tempo nel Regno Unito. Il ritmo del clima culturale anglosassone tra la fine degli anni Trenta e gli anni Cinquanta è dettato dagli ambienti filosofici che fanno capo alle due prestigiose università di Cambridge e di Oxford. Infatti, se Cambridge trova

stimoli nelle riflessioni di Bertrand Russell e Ludwig Wittgenstein, ad Oxford76 si

respira l’influenza di Gilbert Ryle ed Alfred Ayer e si registrano le prime importanti

76 In quel periodo ad Oxford insegna anche Alfred Ayer, il cui pensiero qui scegliamo di non

considerare perchè esponente del positivismo logico vicino a Carnap, che gli stessi Ryle e Austin vedono come un avversario.

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riflessioni sul linguaggio ordinario, in particolare quelle di John L. Austin77. In

questo contesto, lo spartiacque tra la filosofia analitica, dominante a Cambridge, e la filosofia del linguaggio ordinario oxoniense è costituito dalle opere di Ludwig Wittgenstein.

In questo quadro, la teoria della conoscenza personale di Polanyi è continuamente esposta ad un confronto perdente con questi mainstream epistemologici.

Tuttavia, sosteniamo che la portata innovativa della teoria della conoscenza personale e della teoria della conoscenza tacita possa emergere solo tenendo presente

da un lato la concezione della conoscenza secondo Ryle78 e dall’altro la prima

distinzione operata da Bertrand Russell tra conoscenza diretta e conoscenza per descrizione. Il terzo elemento del quadro è costituito dalla distinzione tra conoscenza soggettiva e conoscenza oggettiva di Karl Popper.

Quando Russell pubblica nel 1911 The problems of philosophy si occupa soprattutto di epistemologia, mostrando una puntuale attenzione per i problemi della percezione,

con lo scopo di criticare l’idealismo di Berkeley79.

La prima distinzione posta da Russell è quella tra “sapere” e “conoscere”. Secondo Russell, sappiamo qualcosa quando ciò che conosciamo è vero e ci riferiamo principalmente a credenze e convinzioni. Invece, conosciamo qualcosa quando abbiamo una esperienza diretta delle cose, riferendoci a una conoscenza determinata dai dati sensoriali. Quando abbiamo conoscenza diretta di qualcosa siamo anche consapevoli della sua esistenza, ossia abbiamo un giudizio esatto della nostra conoscenza. Nel caso in cui abbiamo un giudizio su qualcosa che non conosciamo direttamente, entra in gioco la conoscenza per descrizione. Esiste però il caso in cui possiamo avere un giudizio diretto su qualcosa e non averne una conoscenza diretta:

Diremo che abbiamo conoscenza diretta di qualcosa di cui siamo consapevoli in modo immediato, senza l’intermediario di nessun processo deduttivo o di una conoscenza di verità. In presenza del mio tavolo io ho conoscenza diretta dei dati sensoriali che costituiscono la sua apparenza: colore, forma, durezza, ecc.; tutte cose di cui ho coscienza immediata quando vedo e tocco il tavolo. [...] La mia conoscenza del tavolo è del genere che chiameremo “conoscenza per descrizione”. Il tavolo è “l’oggetto fisico che determina questi e questi altri dati sensoriali”. Col che descriviamo il tavolo per mezzo dei dati sensibili. [...] Conosciamo una descrizione e sappiamo che vi è un solo

77 Austin è invitato a tenere le William James Lectures alla Harvard University nel 1955; i suoi

interventi si concentrano sulla classificazione e gli usi del linguaggio. In questa occasione, egli presenta e scrive le lezioni pubblicate postume con il titolo di How to do things with words.

78 Vedremo che l’idea di conoscenza tacita polanyiana è debitrice della teoria di Ryle.

79 Con il termine “idealismo”, Russell intende: «la dottrina secondo la quale tutto ciò che esiste, o

almeno tutto ciò di cui si può conoscere l’esistenza, deve essere, in un certo senso, mentale» (Russell, 1912, trad. it. 2007, p. 43).

80 oggetto fisico che vi corrisponde; benché di esso non abbiamo conoscenza diretta. In tal caso, diciamo che la nostra conoscenza dell’oggetto è una conoscenza per descrizione (Russell, 1912, trad. it. 2007, pp. 54-56).

Qui Russell accenna la relazione tra conoscenza per esperienza diretta e conoscenza per descrizione: la seconda si basa inevitabilmente sulla prima, per cui esiste una certa incidenza del dato sensibile sulla conoscenza: «Ogni conoscenza, di cose sia di verità, trova il suo fondamento nella conoscenza per esperienza diretta» (Russell, 1912, trad. it. 2007, p. 56).

Esistono diverse forme di esperienza diretta, la prima a cui si fa riferimento è quella che si basa sui dati sensibili, la seconda è quella che ci consente di ricordare tutto ciò che riguarda i dati sensibili del passato, la terza è l’esperienza diretta per introspezione, che inerisce a una forma di autocoscienza e di conoscenza dei fatti mentali, di alcuni pensieri e sentimenti.

Conosciamo “per descrizione” gli oggetti fisici e la mente degli altri quando corrispondono a una proprietà. Benché la questione in campo non sia la coerenza delle nostre descrizioni con la realtà, Russell sostiene la necessità di dare un senso alle parole che impieghiamo nella costruzione delle “descrizioni”, le quali includono elementi particolari e universali che ci sono noti. La possibilità di conoscere gli oggetti e le menti altrui ci consente di oltrepassare l’esperienza personale.

La conoscenza del mondo esterno costituita da oggetti fisici e altri esseri umani viene quindi linguisticamente formalizzata. Lo sviluppo di questo tipo di approccio alla conoscenza e alla filosofia ha delle ripercussioni sull’epistemologia del Novecento. Ad esempio, è a questo tipo di riflessioni che possiamo ricondurre l’idea da cui prende avvio la ricerca di Ryle e che è tipica dell’epoca: «la matematica e le scienze naturali formalizzate costituiscono il paradigma delle conquiste dell’intelletto umano» (Ryle, 1949, trad. it. 2007, p. 21).

A partire dalla posizione filosofica dominante, Ryle ricorda che il confine tra la mente animale e la mente umana è fissato in termini della capacità di arrivare alla conoscenza della verità, ossia formulando teorie. Però Ryle sostiene che la via di accesso alla conoscenza non passa soltanto dall’approccio teorico ma anche attraverso pratiche intelligenti. In seguito a una rivalutazione della pratica e della sua relazione con la teoria, l’errore dell’epistemologia contemporanea, secondo Ryle, consiste nella scarsa considerazione dell’attività pratica.

81 La teoria della conoscenza di Ryle mette in luce la differenza tra sapere come e sapere che. In generale, secondo il filosofo oxoniense, la dimensione del sapere che attiene alle regole e ai criteri necessari per raggiungere il livello del sapere come, ammettendo che esiste una prima fase dell’esame e dell’analisi e dopo una seconda fase che è quella dell’azione. In questo modo, ogni atto intelligente è compiuto in due fasi distinte. Tuttavia, Ryle sostiene che ci sono molte attività intelligenti che vengono praticate senza alcun coinvolgimento di conoscenza di regole e criteri. Non è un caso quindi che «La pratica efficiente precede la teoria che la riguarda: le metodologie presuppongono l’applicazione dei metodi, e costituiscono il prodotto di un’indagine critica di tali metodi medesimi» (Ryle, 1949, trad. it. 2007, p. 25), questo mostra l’impossibilità di ridurre il “sapere come” al “sapere che”. Consideriamo un novello giocatore di golf che guardando il modo di giocare di altri golfisti riesce a percorrere le sue 18 buche, senza conoscere le regole del gioco. O ancora, pensiamo a un esperto golfista che non bada più all’applicazione delle singole regole ma gioca la sua partita apparentemente non tenendole presente. Attraverso la pratica entriamo in possesso di una conoscenza, più nello specifico del sapere come, a cui non siamo addestrati da un’altra persona. Senza conoscere delle regole (ambito del “sapere che”), siamo comunque in grado di applicarle (in relazione al “sapere come”). Lo ‘sprofondamento’ dell’abilità in abitudine è solo apparentemente un aspetto marginale. Le abitudini e il “sapere come” hanno una cosa in comune: entrambe sono delle disposizioni, ma di due specie diverse. Le abitudini sono disposizioni a senso unico, mentre: «le attualizzazioni del sapere come sono attività in cui si osservano regole o canoni oppure si applicano criteri, ma non si tratta di doppie operazioni consistenti prima nel dichiarare le massime e poi metterle in pratica» (Ryle, 1949, trad. it. 2007, p. 42).

Come abbiamo possibilità di notare, il concetto di “sapere come” mostra delle analogie con il polanyiano tacit knowledge e certamente Polanyi ha avuto modo di leggere della distinzione operata da Ryle tra i due tipi di conoscenza. Tuttavia, Polanyi contesta a Ryle la non articolazione della consapevolezza in sussidiaria e focale che a suo giudizio è la sola strada per conoscere la propria mente e la mente degli altri.

Analizzando l’evoluzione della nozione di conoscenza tacita in Polanyi, noteremo che il “sapere come” di Ryle a carattere pratico, ne rappresenta un importante precedente epistemologico.

82 Anche se è possibile avvicinare Polanyi a Ryle, la specificità della posizione di Polanyi emerge sulla questione del soggetto conoscente, argomento che lo mette in rotta di collisione con l’epistemologia del Novecento, la quale si caratterizza per l’eclisse del soggetto conoscente e l’oblio della persona. Come mette in luce Vinti:

tutta l’epistemologia del Novecento è correntemente definita epistemologia senza soggetto conoscente, per usare la nota espressione popperiana, perché al suo interno, nella considerazione dello statuto della conoscenza scientifica, non solo il concetto di persona, ma anche quello di soggetto, di individuo, di singolo viene denunciato come irrilevante, come impalcatura filosofica e ideologica, cioè ordine surrettizio e fittizio, presupposto e imposto dal sapere filosofico, ma privo di ogni legittimazione reale nella concreta pratica conoscitiva (Vinti, 2008, p. 20).

In opposizione alla teoria della conoscenza personale considereremo qui, tra i tanti, come paradigma epistemologico dominante quello di Karl Popper. Secondo Popper, il problema principale della filosofia occidentale è il dualismo mente-corpo, la cui soluzione può essere raggiunta attraverso un approccio pluralista. Quello che Popper considera una sorta di pluralismo “speciale” consiste nel ritenere il mondo costituito da almeno tre sottomondi, ognuno con una propria ontologia. Il primo mondo è costituito dagli stati fisici, il secondo dagli stati mentali, il terzo dalle idee oggettive, dalle teorie, dagli argomenti e delle situazioni problematiche in sé. Ad ogni modo, la sola suddivisione del mondo in tre sottomondi non garantisce il superamento del dualismo. Infatti, è la particolare relazione che questi tre mondi intrattengono tra di loro la vera risposta al vecchio problema filosofico. Lo schema relazionale popperiano prevede che il mondo degli stati fisici (I) interagisce con il mondo degli stati mentali (II) e il mondo degli stati mentali, soggettivi e personali (II) interagisce con il mondo del pensiero oggettivo (III).

Quindi, il primo e il terzo mondo, in realtà, intrattengono una forte e decisa relazione che si esplica attraverso il secondo mondo, ossia il mondo del soggettivo e personale. Popper infatti usa contemporaneamente questi due aggettivi per indicare il secondo mondo senza distinguerli e, anzi, sovrapponendoli. Da questa identità tra soggettivo e personale, nasce la critica alla teoria della conoscenza personale di Polanyi:

Non si può seriamente negare che il terzo mondo delle teorie matematiche e scientifiche eserciti una immensa influenza sul primo mondo. Lo fa, ad esempio, tramite l’intervento dei tecnologi che effettuano mutamenti nel primo mondo applicando certe conseguenze di queste teorie; incidentalmente, di teorie sviluppate originariamente da altre persone che possono essere state inconsapevoli di alcune possibilità tecnologiche inerenti alle loro teorie. Così queste possibilità erano nascoste nelle teorie in sé, nelle idee oggettive in sé; e furono scoperte in esse da persone che tentarono di capire queste idee.

83 Quest’argomento se sviluppato con cura, mi sembra avvalori la tesi della realtà oggettiva di tutti e tre i mondi. Inoltre, mi sembra che avvalori non soltanto la tesi che esiste un mondo mentale soggettivo di esperienze personali (tesi negata dai comportamentisti), ma anche la tesi che una delle funzioni più importanti del secondo mondo consiste in afferrare gli oggetti del terzo mondo. Ciò è qualcosa che tutti facciamo: è parte essenziale di un essere umano imparare un linguaggio e ciò significa essenzialmente imparare ad afferrare contenuti oggettivi di pensiero (come li chiamava Frege) (Popper, 1972, trad. it. 1975, p. 212).

Sebbene i tre mondi intrattengano tra di loro una relazione, il terzo mondo è comunque autonomo rispetto ai primi due ed è prodotto dall’attività umana:

Secondo la posizione che io adotto qui, il terzo mondo (parte del quale è il linguaggio umano) è il prodotto degli uomini, proprio come il miele è il prodotto delle api e la tela di ragno dei ragni. Come linguaggio (e come il miele) il linguaggio umano, e quindi la maggior parte del terzo mondo sono il prodotto non pianificato delle azioni umane, sebbene possano essere soluzioni di problemi biologici o di altro genere (Popper, 1972, trad. it. 1975, pp. 216).

All’interno del terzo mondo, sulla base delle teorie oggettive esistenti, l’uomo crea e inventa sempre nuove teorie e proprio questo atto di creazione, che si fonda sul pensiero critico e creativo allo stesso tempo, costituisce l’autonomia del terzo mondo, in modo che proprio questo sia lo statuto ontologico di questo terzo mondo. L’autonomia del terzo mondo presenta di riflesso due caratteri opposti: agiamo sul mondo della conoscenza oggettiva ma non possiamo mai completamente padroneggiarlo. Se il terzo mondo è dominato dal linguaggio, per Popper la questione principale è la formulazione di una teoria generale della comprensione, quindi del significato (nel senso di meaning e understanding). Tuttavia, il processo di comprensione chiama in causa anche una dimensione personale e soggettiva, che risiede nel Secondo mondo. Lo stadio finale della comprensione, invece, risiede nel Terzo mondo, quello dedicato alle interpretazioni e alle teorie.

1. Ogni atto soggettivo di comprensione è largamente ancorato nel terzo mondo

2. Quasi tutte le considerazioni importanti che si possono fare a proposito di tale atto consistono nel mettere in luce le sue relazioni con oggetti del terzo mondo.

3. Tale atto consiste principalmente di operazioni con oggetti del terzo mondo; operiamo con questi oggetti come se fosse oggetti fisici (Popper, 1972, trad. it. 1975, p. 218-219).

84 Come appare chiaro, nell’epistemologia popperiana ogni atto conoscitivo è giustificato e garantito solo in vista del terzo mondo, in cui a dominare è la

formulabilità di una teoria, senza alcun contributo attivo del soggetto conoscente80.