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Il volto del teatro yiddish nella capitale

I. Lo spazio del teatro

7. Varshe, ritorno e ripartenza

7.1. Il volto del teatro yiddish nella capitale

Alla compagnia fu assegnato un edificio in legno in via Królewska 13, nel cuore della capitale, sede fino a quel mo- mento del Teatro della Casa dell’Esercito Polacco, appena trasferitosi nel nuovo Palazzo della Cultura e della Scienza “donato” da Stalin alla città. L’anno successivo, l’unico teatro stabile yiddish in Europa (insieme a quello di Bucarest)203 fu

intitolato a Ester Rokhl Kaminska,204 il cui nome comparve

sulla facciata a grandi caratteri polacchi e yiddish, a concre- tizzare e valicare un’utopia nata mezzo secolo prima: «mia madre aveva sempre sognato un teatro sostenuto dalla comu- nità, ma non aveva mai osato sognare un teatro statale».205

Il trasferimento del Teatro Statale Yiddish a Varsavia coin- cise con una fase di profonda trasformazione per il paese. La morte di Stalin, il 5 marzo 1953, aveva svelato la superficialità con cui si era attuato il processo di omologazione forzata ai parametri sovietici e aveva aperto la strada a un’epoca di speranza in riforme più liberali. Il processo di destalinizza- zione avviatosi con la morte del leader sovietico culminò nel febbraio del 1956 con il clamoroso «rapporto segreto» in cui il primo segretario Nikita Chrušcˇëv, durante il xx congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, denunciò i cri- mini compiuti da Stalin, colpevole di deviazione dalla corret- ta interpretazione della dottrina marxista-leninista e di culto della propria personalità.206 In Polonia, i segni del disgelo

203. Per una panoramica sul teatro yiddish romeno del dopoguerra cfr. Elvira Grözinger, Stalinist Policy and Jewish Culture: The Jewish State Theatre of Bucharest, in

Under the Red Banner: Yiddish Culture in the Communist Countries in the Postwar Era, a

cura di Elvira Grözinger e Magdalena Ruta, Harrasovitz Verlag, Wiesbaden 2008, pp. 47-58.

204. Ordinanza n. 222, datata 22 dicembre 1955, Archiwum Akt Nowych, Var- savia, Cart. 366 3/6 Atti del Ministero della Cultura e dell’Arte di Varsavia, t. ii, collez. 366/1, fasc. 3185.

205. I. Kaminska, My life cit., p. 228. I teatri di Wrocław e Łódz´ continuarono ad accogliere spettacoli di altre compagnie itineranti e a organizzare concerti e serate culturali, seppur con sempre minore intensità. A Wrocław restarono attivi fino al 1960 una Casa della Cultura intitolata a Ester Rokhl Kaminska e un coro yiddish. Gli eventi del marzo 1968 posero del tutto fine a queste attività e gli edifici in cui avevano sede furono assegnati a due teatri polacchi, il Teatr Nowy di Łódz´ e il Teatr Polski di Wrocław.

206. Per gli ebrei di tutto il mondo simpatizzanti del comunismo un ruolo ana- logo a quello ricoperto dal rapporto segreto di Chrušcˇëv fu rivestito dall’articolo

Unzer wejtik un unzer trajst (Il nostro dolore e la nostra consolazione), pubblicato

sul quotidiano «Folks-Shtime» in forma anonima, in cui veniva data notizia dell’e- purazione degli esponenti della cultura ebraica in urss durante l’epoca staliniana.

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apparvero più visibili che in altri paesi: ripresero i contatti con il mondo occidentale, il vecchio corso politico cominciò a essere oggetto di sempre maggiori critiche sulla stampa e il mondo della letteratura e dell’arte si liberò a poco a poco dal giogo del realismo socialista. Il disgelo si estese a tutti i campi della cultura: furono fondati circoli di discussione politica, nuove riviste tra cui il mensile teatrale «Dialog» (Dialogo), teatri come il Cricot 2 di Ta deusz Kantor a Cracovia e il Te- atro della Pantomima di Henryk Tomaszewski a Wrocław, e tre scene studentesche, avamposti di nuove visioni politiche e sociali, il teatro satirico Trota di Łódz´, il Teatro Studentesco dei Satirici di Varsavia e il teatro cabaret Bim Bom di Danzica, la musica jazz cominciò a filtrare attraverso la radio e sbocciò una generazione di registi cinematografici di grande talento come Andrzej Wajda, Janusz Morgenstern e Roman Polan´ski. Nel marzo del 1956 la morte di Bolesław Bierut, segreta- rio generale del poup (Partito Operaio Unificato Polacco), facilitò ai principali esponenti del partito polacco l’archi- viazione della fase duramente stalinista e il traghettamento del paese verso una nuova epoca. La società polacca freme- va: l’intellighenzia reclamava il ritorno al suo ruolo critico e indipendente e la classe operaia pretendeva una reale democrazia socialista, fondata sull’autogestione delle fab- briche e sulla socializzazione della produzione. In ottobre Władysław Gomułka, già segretario generale del partito, poi caduto in disgrazia, fu riabilitato ed eletto primo segretario del poup. In un convincente discorso pronunciato di fronte a quasi mezzo milione di persone, propose una mediazione tra le istanze popolari e le restrizioni imposte dall’urss: pur non mettendo in discussione il sistema monopartitico, la- sciò trapelare l’ipotesi di una “via polacca al socialismo”. La strategia si rivelò vincente e risparmiò alla Polonia la repres- sione militare sovietica che colpì invece, appena un mese più tardi, l’Ungheria. La società accolse Gomułka come un capo carismatico, confidando in cambiamenti orientati a una maggiore autonomia e democrazia, e nel gennaio 1957 gli confermò la propria fiducia in occasione delle elezioni parlamentari.

Contro le intenzioni dell’autore (il redattore capo Grzegorz Smolar), la pubbli- cazione persuase migliaia di ebrei in Occidente ad abbandonare il movimento comunista e le sue organizzazioni.

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In realtà la stagione delle riforme (nota come l’“Ottobre Polacco”) si esaurì dopo appena un anno perché Gomułka si trovò costretto a mediare tra due correnti interne al parti- to, quella dei “liberalizzatori” (tra cui figuravano molti espo- nenti di origine ebraica) e quella dei “conservatori”. Con il rafforzamento della posizione di Chrušcˇëv, divenuto anche capo del governo, e il ricompattamento del Partito Operaio Unificato Polacco, la società rientrò sotto il completo con- trollo del partito.

A metà degli anni Cinquanta la composizione della società polacca appariva ulteriormente mutata grazie al boom demo- grafico del dopoguerra e al rimpatrio di oltre duecentomila cittadini polacchi dall’Unione Sovietica (tra cui molti detenuti nei lager e la stessa Ruth Turkow-Kaminska con la figlia Erika). Con lo sterminio, le deportazioni e lo spostamento forzato di confini e popoli della Seconda guerra mondiale la Polonia aveva perduto i propri cittadini ebrei, bielorussi, ucraini e te- deschi ed era diventata uno stato etnicamente omogeneo. Il 1956 coincise con una seconda, ingente, ondata migratoria della popolazione ebraica, durante la quale oltre cinquanta- mila persone – circa un terzo dei sopravvissuti alla Shoah – ab- bandonarono il paese dirette verso Israe le o verso gli stati “ca- pitalisti”. L’esodo fu dettato in parte dalla paura suscitata dai riflussi di antisemitismo politico,207 in parte dal desiderio di

unirsi a maggiori concentrazioni ebraiche e migliorare la pro- pria situazione materiale. Tra gli emigranti si contarono molti rappresentanti del mondo culturale e metà dei componenti della compagnia del Teatro Statale Yiddish.

Nonostante le pressioni ricevute dal governo, Ida non ostacolò mai la partenza dei colleghi e si trovò così a gesti-

207. Tra gli effetti negativi del disgelo vi fu una nuova ondata di sentimenti anti- semiti, che portò a licenziamenti, tafferugli e attacchi sulla stampa. Questa volta si trattava di una precisa strumentalizzazione politica atta a regolare i conti ai ver- tici del partito comunista: la frazione detta “natoliniana”, formata da burocrati dell’apparato, provò a disfarsi della frazione “puławiana” avversaria, più liberale e composta da molti giovani di origine ebraica, addossando a loro la colpa dei crimini staliniani e tentando di riattizzare gli umori antisemiti serpeggianti in seno al partito e nelle masse. I primi chiamavano i secondi (che rivestivano alte cariche come Jakub Berman) con disprezzo “ebrei”, mentre questi definivano gli avversari “cafoni”, in riferimento al basso livello culturale del gruppo dei burocrati. Il risul- tato della discussione in seno alla dirigenza del partito fu la diramazione di una circolare ufficiale in cui si condannava con fermezza ogni forma di antisemitismo. C. Madonia, Fra l’Orso russo e l’Aquila prussiana cit., pp. 246-247.

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re un ensemble estremamente instabile.208 Per reintegrare

le forze mancanti accolse molti rimpatriati, tra cui figurava anche il decano degli attori yiddish Avrom Morevski,209 e cer-

cò di attirare giovani all’interno della compagnia attraverso

la creazione di uno studio drammatico210 e l’insegnamento

della lingua yiddish, che le nuove generazioni non conosce- vano più. Invece di scoraggiarsi, l’attrice si impegnò con en- tusiasmo in questo ruolo pedagogico, che percepiva come

intimamente connesso all’arte teatrale.211 Henryk Grynberg

racconta infatti che Ida

sapeva distribuire le parti e disporci sulla scena in modo che sembrassimo dei veri attori. […] Sapeva che cosa fosse impresso in ognuno di noi e che cosa ognuno di noi avesse da “dire”. Per questo […] i giornali mi descrissero come un importante “fenomeno teatrale”, nonostante fossi andato in scena senza alcuna preparazione tecnica.212

L’allievo ricorda anche il vigore e l’affetto con cui la direttri- ce esercitava questo compito:

Mi ero presto convinto che avesse più energia di tutti noi. Non aveva bisogno del copione perché conosceva tutti i 208. È difficile dare conto nel dettaglio di tutti i cambiamenti che interessarono l’organico degli attori. Per un orientamento generale si veda l’elenco a interval- li quinquennali fornito da Szczepan Ga˛ssowski, Zespół Aktorski Pan´stwowego Teatru

Z·ydowskiego, in Pan´stwowy Teatr Z·ydowski cit., pp. 276-277.

209. Purtroppo l’attore non godeva di buona salute, per cui fece in tempo a cu- rare la regia del Dibbuk e a interpretare il ruolo dello tsaddik (che aveva ricoperto anche nel debutto del 1920) e poi, pur continuando a fare parte formalmente dell’ensemble, si ritirò a scrivere le sue memorie. Sarebbe morto nel 1964. 210. Alla fine del 1954 il Teatro Statale Yiddish chiese delucidazioni in merito alla richiesta di finanziamento per uno studio drammatico, avanzata mesi prima e ufficialmente approvata. Lo studio avrebbe dovuto implementare l’organico della compagnia, costituito in maggioranza da attori in là con gli anni e affaticati dalle frequenti tournée per il paese. Il direttore amministrativo S. Lent motivava così la richiesta: «I diplomati delle scuole teatrali statali con conoscenza della lingua yiddish, se mai ve ne sono, non si scritturano presso il nostro teatro a causa delle difficili condizioni lavorative. Per queste stesse ragioni non si uniscono a noi attori provenienti da altre compagnie e sono invece i nostri attori a cambiare compa- gnia, come nel caso del cittadino Rajski […] e del cittadino Szafer […]». Lettera indirizzata al ministro della Cultura e dell’Arte Włodzimierz Sokorski, 2 ottobre 1954, Archiwum Akt Nowych, Varsavia, Cart. 366 3/6 Atti del Ministero della Cul- tura e dell’Arte di Varsavia, t. ii, collez. 366/1, fasc. 3185.

211. Dopo attenta osservazione, Jakub Rotbaum ritenne di avere compreso che il teatro per Ida Kaminska aveva un profondo valore educativo, J. Rotbaum, Ida

Kaminska – A groise idishe shoishpilerin, «Naïe Presse/La Presse Nouvelle», […].

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drammi a memoria, teneva a mente il programma di regia e, a differenza di altri registi, sapeva sempre a che cosa mirava. Era anche un’eccellente pedagoga. Non offendeva né feriva mai un attore. Sapeva risvegliare in noi l’entusiasmo anche per un piccolo ruolo. […] Se non era soddisfatta di qualcosa mostrava freddezza, e questa era una punizione sufficiente. La riconciliazione avveniva quando si rivolgeva a noi per nome e ci prendeva confidenzialmente sotto braccio.213

Il reclutamento dei giovani e l’apertura dell’ensemble anche ad attori non ebrei richiese a Ida uno sforzo non da poco per insegnare ai nuovi colleghi i linguaggi della scena e l’idioma in cui avrebbero recitato. Nel documentario Il suo teatro, de- dicato a Ida Kaminska e al Teatro Statale Yiddish, assistiamo a una lezione condotta dall’artista, che da principio ricorda agli studenti le regole base della comunicazione sulla sce- na – la necessità di utilizzare un tono di voce sostenuto ma non eccessivo, di scandire con chiarezza le parole e, ciò che è più importante, di ascoltare attentamente il partner – per poi ripassare insieme a loro le battute tratte da una scena di Terrore e miseria del Terzo Reich intitolata L’ora dell’operaio. Dapprima Ida ascolta un giovane allievo che sicuramente ha dovuto studiare lo yiddish e ne corregge la pronuncia laddo- ve si presenta eccessivamente slava, poi fa ripetere la stessa battuta a un ragazzo di nome Wajngarten, muovendo anche a lui, che pure mostra maggiore confidenza con la lingua, qualche piccolo appunto.

La condizione in cui si trovava, invece, Henryk Grynberg era quella di chi doveva recuperare dai recessi della memoria una lingua che era stato costretto a dimenticare per avere qualche speranza di sopravvivere.

Nella primissima infanzia avevo familiarizzato con la lin- gua yiddish, ma durante la guerra, dovendomi spacciare per “ariano”, sono stato costretto a rimuoverla accuratamente dalla memoria. Tra il 1947 e il 1952, quando frequentavo la scuola ebraica, ho imparato a capirla abbastanza bene, ma non a parlarla e sulla scena avevo difficoltà con la pronuncia gutturale combinata del “ch” con la “r”. All’epoca, il Tea- tro Yiddish aveva uno studio drammatico per giovani, ma lo frequentavo poco perché spesso ero impegnato nelle prove sul palco e negli spettacoli con cui giravamo la Polonia. Nel 213. Intervista dell’autrice a Henryk Grynberg, cit.

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117 novembre del 1962, insieme ai miei coetanei Helena Kaut

e Bruno Fink, ho sostenuto l’esame da privatista presso la Scuola Superiore Statale di Teatro. Nel frattempo si era uni- ta al nostro teatro Helena Wilda, una giovane attrice non ebrea, e aveva cominciato a recitare saltuariamente Szymon Szurmiej, che veniva da una casa non ebraica (la madre era ebrea ma il padre ucraino), conosceva poco lo yiddish e non era assolutamente in grado di leggerlo. Per gli altri compo- nenti della compagnia lo yiddish era la lingua madre, alcuni parlavano male polacco.214

Nell’intervista rilasciata a chi scrive, Grynberg ricorda il rap- porto assai differente che intercorreva tra gli artisti della compagnia e la lingua yiddish e mette in rilievo la discrepan- za tra la formazione degli attori della vecchia generazione e quella di Szymon Szurmiej, che alla fine degli anni Sessanta sarebbe succeduto a Kaminska nella direzione del teatro. Come vedremo nel terzo capitolo, Grynberg sceglierà di ab- bandonare la Polonia e la carriera di attore per dedicarsi alla letteratura, ma l’apprendistato teatrale compiuto sotto la guida di Ida – attraverso il ritorno alla lingua e il lavoro sulla scena – si rivelerà prezioso anche nell’esercizio del ruolo di scrittore-testimone.

Nel teatro di Ida Kamin´ska ho imparato a conoscere la cultura yiddish e sono diventato uno scrittore dalla doppia cultura. Forse non è un caso che abbia scritto e pubblicato i miei primi racconti sei mesi dopo avere debuttato su quella scena e che li abbia raccolti sotto il titolo Ekipa Antygona [La squadra di Antigone], con cui è poi uscita anche la mia prima antologia di racconti. Kamin´ska mi ha insegnato la di- sciplina artistica e la pulizia del disegno, che si sono rivelate molto utili nella mia pratica di scrittore.215

Più di un testimone dell’epoca ricorda che Ida Kaminska di- rigeva il Teatro Statale Yiddish esercitando un comando ma- triarcale, come se ancora si trattasse di una compagnia d’arte a struttura familiare. Questa tendenza si sarebbe tradotta in un’attenzione quasi materna nei confronti dei componenti del gruppo, ma anche nella concentrazione delle decisioni nelle mani della sola direttrice e nella predilezione verso i

214. Ibid. 215. Ibid.

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membri con i quali condivideva legami biologici o affettivi, come il marito Meir, la figlia Ruth e il nuovo compagno di

quest’ultima, Karol Latowicz.216 Come vedremo, negli anni

i servizi segreti comunisti avrebbero imparato a sfruttare le insofferenze generate da questa gestione parafamiliare per trasformare alcuni attori e attrici in “informatori” e spiare così le attività del teatro.

È indubbiamente vero che la conduzione del Teatro Sta- tale Yiddish rifletteva la forma tradizionale originaria del teatro di famiglia e che ruotava tutto attorno alla prim’at- trice, ma la scelta di Ida di assegnare ai familiari ruoli di primo piano era spesso giustificata dal loro effettivo talento e dalla necessità di arginare le spinte disgregatrici che asse- diavano la compagnia. Alcune difficoltà erano comuni alle compagnie polacche, alcune esclusive del teatro yiddish. Tra i condizionamenti figuravano il controllo statale sull’attività dell’ensemble e i richiami all’estetica del realismo socialista; le concessioni da fare alla politica per non essere intralcia- ti dalla censura e la determinazione a proporre un lavoro onesto, tale da non tradire la fiducia degli spettatori; i ritmi pressanti di un lavoro itinerante e che doveva produrre di continuo nuovi debutti per soddisfare un pubblico ristretto e non perdere visibilità, cioè utilità, agli occhi del governo. A ciò si aggiungeva la necessità per la regista e direttrice di trovare impiego ad attori in buona parte ormai anziani, di gestire l’andirivieni continuo degli artisti e di amministrare la suddivisione interna dei privilegi economici derivanti dalla possibilità di andare in tournée all’estero.

Non era solo una grande attrice, ma anche una grande madre. La maternità era il suo attributo più bello e profon- do. Lo ha mostrato in Mirele Efros, Madre Courage, Gli alberi 216. Karol Latowicz (1923-1984), figlio dei noti attori Yitzhok e Betty Latowicz. Debuttò sulle scene del teatro yiddish di Varsavia nel 1937, l’anno successivo pre- se parte al film Mamele, diretto da Konrad Tom e Joseph Green, poi si spostò in Belgio. Tornò in Polonia poco prima dello scoppio del conflitto e trascorse quel periodo in Unione Sovietica, lavorando anche come danzatore nella compagnia dell’Armata Rossa. Fece ritorno in Polonia nel 1946, anno in cui si stabilì in Bassa Slesia per prendere parte alla rinascita del teatro yiddish. Diresse il film Ebrei in Po-

lonia, prodotto da Szymon Federman e uscito per la casa di produzione Film Polski

nel 1957. Si unì alla compagnia diretta da Ida Kaminska e qualche anno più tardi sposò la figlia Ruth, un matrimonio al quale si oppose, invano, Zygmunt Turkow e che non ebbe un esito felice, forse anche a causa dei problemi di alcolismo e di tendenza al gioco d’azzardo di Latowicz.

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119 muoiono in piedi e perfino nel personaggio comico e satirico

di Sure Sheindl. Se nella nostra compagnia c’era maggiore invidia e suscettibilità ciò dipendeva dal fatto che il teatro yiddish fosse solo uno. Ma la causa principale della rivalità erano le trasferte all’estero. Nei paesi occidentali gli attori ricevevano un compenso di venti dollari al giorno. Venti dollari sul mercato nero polacco equivalevano al mio stipen- dio di un mese e alla metà dello stipendio di un attore più esperto. Con i risparmi sulla diaria ci si riusciva a procurare un po’ di abbigliamento e accessori di fine serie da rivende- re al ritorno. Per ragioni economiche si portava all’estero un cast ridotto al minimo, perciò era necessario lottare per ottenere un ruolo principale.217