I. Lo spazio del teatro
7. Varshe, ritorno e ripartenza
7.2. Vecchie e nuove storie
Oltre a Ida Kaminska e agli attori della sua famiglia teatrale, protagonisti della scena yiddish postbellica erano i personag- gi e le storie attraverso i quali questi artisti incontravano il pubblico. Anche dopo il trasferimento a Varsavia Ida rima- se fedele alla propria politica di repertorio, che bilanciava narrazioni contemporanee e internazionali (con qualche concessione alla propaganda) con storie e motivi yiddish, tradizionali o meno.
Durante la direzione del Teatro Statale Yiddish a Varsavia (1955-1968) Ida Kaminska curò la regia di circa venti spet- tacoli. Al gruppo dei drammi originariamente composti in yiddish oppure scritti in altre lingue ma a tema strettamente ebraico si ascrivono: Mirele Efros, che inaugurò il nuovo cor- so del teatro il 27 dicembre 1955 e conobbe due riallesti- menti (1959, 1968); I due Kuni-Leml (1958); L’opera dell’ebreo (1958)218 di Alter Kacyzne; Glikl di Hameln (1958); Il re allegro
(1959)219 di Jakub Preger; la ripresa di In una notte d’inverno
217. Intervista dell’autrice a Henryk Grynberg, cit.
218. Dramma storico del noto autore e fotografo Alter Kacyzne, scritto nel 1938 e incentrato sulle vicende dei marrani (ebrei convertiti a forza al cristianesimo, ma rimasti segretamente fedeli alla propria religione) portoghesi nella prima metà del xvii secolo e in particolare sulla figura del poeta e commediografo Antonio José da Silva, detto «O Judeu». Prima messa in scena a Buenos Aires nel 1948, pub- blicato poi nella raccolta Gezamelte shriftn (Tel Aviv 1967). In italiano Alter Kacyzne,
L’opera dell’ebreo, Giuntina, Firenze 1993.
219. “Dramma popolare” di un autore di cui si sono perse le tracce, si ha soltanto notizia di un allestimento del 1939 a cura di Michael Brandt al Teatr Nowos´ci di Varsavia. In una recensione dell’epoca il critico Jakub Appenszlak la definì una delle migliori opere della drammaturgia yiddish moderna, una sorta di versio-
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(1959); Meir Ezofowicz (già allestito nel 1953 e ripreso nel 1960 e nel 1965) di Eliza Orzeszkowa; La nave solitaria (1961) di Mojz·esz Dłuz·nowski;220 Serkele (1963) di Solomon Ettinger; Il conto finale (1963) di Michał Mirski; Senza una casa (1963)
di Gordin; Il certificato di matrimonio (1964) dell’israeliano Ephraim Kishon;221 Colmare i bunker (1964) della stessa Ka-
minska; Sure Sheindl (1966) di Yosef Lateiner; Mister David (1966) di Cecil P. Taylor222 ed Eravamo dieci fratelli (1968) di
Chaim Sloves.223
ne ebraica di Cenerentola, senza però lieto fine, cit. in Tomasz Mos´cicki, Teatry
Warszawy 1939 cit., pp. 224-225.
220. Moshe Dluznowsky (originariamente Mojz·esz Dłuz·nowski, 1903-1977): scrit- tore e drammaturgo yiddish nato in una famiglia chassidica di piccoli commer- cianti, emigrato in Francia nel 1930 e successivamente negli Stati Uniti. Tra le sue opere più note, La nave solitaria (1956?) è uno dei pochi drammi yiddish ad affrontare il tema della Shoah e ritrae gli sforzi degli ebrei per sfuggire ai nazisti. È stato portato in scena con successo da David Licht al Folksbiene nel dicembre 1956 e da Maurice Schwartz a Buenos Aires.
221. Commedia con inserti canori (1961) del drammaturgo e satirista israeliano Ephraim Kishon (pseudonimo di Ferenc Hoffmann, 1924-2005), apprezzata e rap- presentata con successo in tutto il mondo dagli anni Sessanta a oggi. L’opera ha per protagonisti l’idraulico Elimelech e la moglie Shiffra che, dopo venticinque anni di vita comune, si trovano nelle condizioni di dover recuperare l’attestato del matrimonio che hanno celebrato molti anni prima in un kibbutz. La com- media prende in esame l’istituzione del matrimonio, sia da una prospettiva seria che umoristica, e la complessità della relazione tra marito e moglie, soprattutto quando quest’ultima è costretta a sopportare per anni le tirannie del compagno. Nel 1982 Ruth Turkow Kaminska prenderà parte alla commedia al Folksbiene di New York, prima di ritirarsi definitivamente dalle scene, cfr. <http://www.nytimes. com/1982/11/09/theater/stage-the-marriage-contract.html>.
222. Cecil Philip Taylor (1929-1981), prolifico drammaturgo scozzese, la cui ope- ra attinge spesso alle proprie origini ebraiche e all’orientamento politico di stam- po socialista. Il primo dramma Mr David (1954) vinse il secondo premio nel con- corso per drammaturghi organizzato dal World Jewish Congress. La sua opera di maggiore successo fu Good (1981), dramma ambientato nella Germania prebellica e incentrato sul rapporto tra un professore di ampie vedute che ha per migliore amico un ebreo e che, a poco a poco, viene sedotto dall’ideologia nazista al punto da condividerne la “soluzione finale”.
223. Chaim Sloves (1905-1988), fervente comunista e promotore della cultura yiddish, avvocato, scrittore e drammaturgo di fama internazionale. Immigrato a Parigi nel 1926, durante la Seconda guerra mondiale partecipa alla resistenza clan- destina. Nel 1937 è segretario del comitato organizzatore del Congresso Mondiale della Cultura Yiddish di Parigi. Oltre a Eravamo dieci fratelli (1963) è autore dei drammi La rovina di Haman, un purimshpil sull’Olocausto messo in scena dal Tea- tro Yiddish della Bassa Slesia nel 1949 per la regia di Yitskhok Grudberg-Turkow e
Baruch di Amsterdam, rappresentato al Teatro Statale Yiddish nel 1961 per la regia
di Meir Melman, in cui Spinoza è ritratto come un giovane in lotta contro l’auto- rità rabbinica e trasformato nel paradigma dell’ebreo laico moderno. Zygmunt Turkow, che aveva contribuito alla regia di La rovina di Haman, pur trovandosi in
Lo spazio del teatro
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Le opere che possiamo definire internazionali, ossia com- poste in una lingua diversa dallo yiddish e non esplicitamente inerenti una tematica ebraica, sono in numero minore: L’uo-
mo di successo (1956) di Grigorij Jagdfeld;224 Madre Courage e i suoi figli (1957, poi ripreso nel 1967) di Brecht; Gli alberi muoiono in piedi (1958) di Alejandro Casona e La trasfusione
(1962) di Žak Konfino.225
Da questo sintetico elenco si comprende quanto fosse di- versificato il repertorio curato da Ida. Prima di entrare nel dettaglio di alcune produzioni, possiamo rilevare che una caratteristica comune alle opere dirette e interpretate da Kaminska era quella di privilegiare personaggi femminili dalla personalità marcata: una linea di stampo matriarca- le che rispecchiava la natura stessa del teatro ereditato da Ida, trasmesso di generazione in generazione per via matri- lineare. Ne sono un esempio le protagoniste dei due spet- tacoli “internazionali” che riscossero maggiore successo: la
Madre Courage brechtiana, a cui è dedicato il terzo capitolo,
e l’anziana protagonista del dramma di Casona, ingannata dai parenti affinché non venga a conoscenza della verità ri- guardo al nipote, compromessosi in attività criminali negli
Brasile al momento del debutto a Wrocław mandò i suoi auguri sia agli attori sia agli spettatori, secondo lui uniti da un legame profondo, attraverso il giornale yid- dish polacco «Nidershlezie». Alla figura di Sloves ha dedicato diversi studi Annette Aronowicz, tra cui: Haim Sloves, the Jewish People, and a Jewish Communist’s Allegiances, «Jewish Social Studies», 9.1, 2002, pp. 95-142; Spinoza among the Jewish Communists, «Modern Judaism», 24, 1, 2004, Oxford University Press, pp. 1-35; Homens mapo- le: Hope in the Immediate Postwar Period, «The Jewish Quarterly Review», 98, 3, 2008, pp. 355-388; Joy to the Goy and Happiness to the Jew: Communist and Jewish Aspirations in
a Postwar Purimshpil, in Inventing the Modern Yiddish Stage, a cura di Joel Berkowitz e
Barbara Henry, Wayne State University Press, Detroit 2012, pp. 275-294. 224. Non è stato possibile reperire informazioni sull’opera e il suo autore. 225. Žak Konfino (1892-1975) esercita la professione di medico fino alla Seconda guerra mondiale poi, all’età di quarant’anni, decide di dedicarsi integralmente alla scrittura, diventando uno dei più noti autori di satira jugoslavi. I suoi soggetti sono la vita quotidiana degli ebrei sefarditi in Serbia e la relazione psicologica tra medico e paziente. Proprio l’esercizio della professione in una piccola comunità serba sefardita sviluppa in lui una particolare sensibilità nei confronti della soffe- renza dell’umanità e una preferenza dal punto di vista lirico per i soggetti ebraici in condizione di povertà, accomunati tuttavia da una grande energia nella lotta per la sopravvivenza. Nella sua prosa cerca di alleviarne le amarezze attraverso una scrittura comica e satirica, un umorismo nero che per alcuni lo avvicina a Sholem Aleichem (delle cui opere ha curato la traduzione in serbo). The Encyclopedia of
Modern Jewish Culture, a cura di Glenda Abramson, Routledge, London-New York
2005, p. 815. Considerata la biografia e le scelte artistiche dell’autore forse anche lo spettacolo Trasfusione andrebbe ascritto al primo gruppo.
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Stati Uniti. A proposito di quest’ultima creazione attoriale, il critico Jan Paweł Gawlik osservava con ammirazione che la mancata conoscenza della lingua yiddish non costituiva affatto un ostacolo alla comprensione e alla partecipazione all’evento teatrale. Anche in presenza di un dramma in una lingua straniera, per di più di qualità non eccelsa, la poesia che sprigionava dal lavoro dell’attrice era capace di muovere a una profonda commozione.
Se un’attrice che recita in una lingua incomprensibile al- lo spettatore riesce a mostrare il dramma di un personaggio in maniera totalmente comprensibile, rendendo del tutto inutile la conoscenza della lingua; se in un uomo avvezzo al teatro, alle sue tecniche e ai suoi segreti, suscita una commo- zione tanto incontenibile e intensa da causare il proverbiale groppo in gola, allora tali circostanze divengono la misura dell’arte, l’espressione della “forza drammatica” (così po- polare nel secolo scorso e oggi dimenticata) racchiusa nella recitazione dell’attrice.
Ha creato un personaggio al confine tra due stili contrappo- sti, riuscendo tuttavia a conservare le peculiarità di entrambi. Un personaggio definito con minuzia e realismo e insieme dotato di poetica leggerezza attoriale. […]
Non so se nel nostro teatro ci sia un’attrice in grado di reci- tare la Nonna con una simile freschezza e perfezione espres- siva. […] Ida Kamin´ska ha interpretato questo ruolo con una delicatezza e una limpidezza che ho visto in lei per la prima volta. C’era in lei l’ispirazione della poesia e l’autenticità della grande arte. Kamin´ska è rinomata per la sua grandezza e spesso […] le si attribuisce la supremazia nel repertorio tragico. Di certo è una grande interprete e una grande at- trice tragica, ma credo che proprio nel ruolo della Nonna si sia rivelato uno stile precedentemente inedito: un tono di straordinaria delicatezza formale, una capacità virtuosistica di impiegare le sfumature con straordinaria incisività.226
Tra gli spettacoli del primo gruppo, invece, osserviamo la compresenza di autori classici come Goldfaden e Gordin e di drammaturghi yiddish contemporanei come Kacyzne e Slo-
226. Jan Paweł Gawlik, Ida Kamin´ska, in Id., Twarze teatru, Ossolineum, Wrocław 1963, pp. 124-125; pp. 129-131. Si può trovare conferma dell’impressione riportata da Gawlik anche osservando l’unico frammento dello spettacolo conservato, che mostra la protagonista in un momento di grande euforia e tenerezza, mentre can- ta e si ubriaca conservando tuttavia una delicatezza e finezza di disegno che non permette mai al personaggio di scivolare nella macchietta. Cfr. Il suo teatro.
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ves, la commistione di successi comici dell’anteguerra come
Serkele e Sure Sheindl e di componimenti teatrali che, diretta-
mente o meno, si riferivano al recente sterminio ebraico. In tutto, il Teatro Statale Yiddish portò in scena cinque opere esplicitamente incentrate sul soggetto che molti scrittori yid- dish del dopoguerra preferivano designare con il vocabolo
khurbn (distruzione) o brokh (catastrofe): La sparatoria di via Długa (1948) della poetessa polacca Anna S´wirszczyn´ska; due
drammi di Chaim Sloves (il già citato Eravamo dieci fratelli e
La sconfitta di Haman, allestito nel 1950); Una casa nel ghetto
(1953) di Bine Heler e Il conto finale (1963) del dramma- turgo ebreo comunista Michał Mirski. Quest’ultima ope- ra – appositamente scritta e allestita in occasione del vente- simo anniversario dell’Insurrezione del ghetto per i molti stranieri che avrebbero partecipato alla cerimonia – è un esempio lampante di manipolazione ideologica e riscrittura consapevolmente distorta della storia al servizio del revisio- nismo comunista. Secondo Seth Wolitz, che ne fu spettatore, Mirski eccedette nel ritrarre casi di amicizia e cooperazione tra ebrei e polacchi, semplificò eccessivamente la questione dello sfruttamento dei lavoratori ebrei da parte del borghese Judenrat ed esagerò il contributo dei comunisti nell’orga- nizzazione della rivolta, per di più diffondendo calunnie sui membri del partito sionista e nazionalista. Wolitz non rispar- mia neppure a Ida un giudizio severo, accusandola di essere una kluge Yidene (ebrea astuta) e di avere collaborato al gioco del regime. Annota tuttavia che la regista aveva inserito nello spettacolo un tableau estraneo al manoscritto originale: in una delle primissime scene il sipario si apriva su un vagone merci, dalle cui strette finestrelle, nel più completo silenzio, si agitavano disperate innumerevoli mani.227 Quel silenzio era
poi stato rotto da un frastuono di applausi perché, secondo Wolitz, il pubblico assisteva finalmente a un quadro veritiero, che «confermava ipostaticamente il messaggio: l’Olocausto ha spazzato via gli ebrei, la loro disperazione è rimasta ina- scoltata e tutto ciò che resta è il silenzio della memoria».228
227. Scena descritta anche da Roman Szydłowski, Epicka opowies´c´ o tragedii getta, «Trybuna Ludu», 24 aprile 1963.
228. Seth Wolitz, A Holocaust play in Warsaw in 1963, in Staging the Holocaust: the
Shoah in Drama and Performance, a cura di Claude Schumacher, Cambridge Univer-
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Anche Colmare i bunker, il dramma scritto da Ida229 e una-
nimemente giudicato mediocre dal punto di vista dramma- turgico, alludeva alla Shoah e affrontava un tema scottante come l’antisemitismo polacco del dopoguerra. La storia, am- bientata non a caso a Kielce nell’estate del 1946, bilanciava con accortezza la legittima mancanza di fiducia degli ebrei nei confronti della Polonia “liberata” con un finale positivo in linea con le aspettative del regime, finale in cui l’anziana protagonista Rachel, trascorsi gli anni dell’occupazione nazi- sta in un bunker sotterraneo e sperimentate l’indifferenza e le violenze del dopoguerra, ritrova l’ottimismo nei confronti del futuro e dell’umanità.230
Sul fronte opposto a questi due spettacoli, che anche per il loro carattere tendenzioso ebbero breve corso, si colloca il caso di Meir Ezofowicz, allestimento che in virtù delle qua- lità artistiche riuscì a svincolarsi dall’ingessatura ideologica e conobbe almeno tre riprese e diverse tournée estere. Lo spettacolo, che sia Kaminska che la critica consideravano tra i migliori del Teatro Statale Yiddish, era tratto da un roman- zo composto dalla scrittrice polacca Eliza Orzeszkowa per esprimere solidarietà alla minoranza ebraica e caldeggiare un’alleanza-assimilazione nella società polacca al fine di scon- giurare il pericolo della russificazione. L’opera ripercorre il conflitto secolare tra due famiglie ebraiche: i Todros, rappre- sentanti dell’ortodossia e del fanatismo religioso, e gli Ezo- fowicz, aperti alle riforme, all’istruzione e all’assimilazione. Il capostipite degli Ezofowicz lascia in eredità ai discendenti una raccolta di documenti che incoraggiano l’alleanza tra il popolo polacco e quello ebraico. Quando, dopo molti de- cenni, Meir (interpretato da Juliusz Berger) decide di porta- re avanti la lotta al progresso dei suoi avi, opponendosi per esempio alle punizioni corporali inflitte ai bambini e alla
229. Ida aveva già composto un dramma nel 1929 intitolato C’era una volta un re, che probabilmente non ebbe molto successo.
230. Molti critici espressero le loro riserve sul testo. August Grodzicki, per esem- pio, commentò che l’opera trasformava la tragedia di una nazione in un melo- dramma familiare dal linguaggio declamatorio, ma si premurò comunque di met- tere in rilievo la recitazione composta e magistrale di Kaminska, sostenuta dalla bravura dei colleghi Chevel Buzgan, Riva Buzgan, Ruth Kaminska, Karol Latowicz e dal talento della giovane Helena Wilda (l’unica tra gli attori “stabili” della com- pagnia a non avere origini ebraiche). A. Grodzicki, Wielki temat, «Z·ycie Warszawy», 18 novembre 1964; Jaszcz, Wszechstronnos´c´ Idy Kamin´skiej, «Trybuna Ludu», 18 no- vembre 1964.
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persecuzione ebraica nei confronti dei Caraiti, la bisnonna Frajda (Kaminska) gli affida gli scritti del marito per aiutarlo nella missione.231 Ma la comunità ebraica non è ancora pron-
ta per il cambiamento: anche la battaglia di Meir Ezofowicz si concluderà con un fiasco e il giovane verrà scomunicato dal rabbino Todros e cacciato dal villaggio.
Ida Kaminska portò per la prima volta in scena Meir
Ezofowicz nel 1953, un anno caldo dal punto di vista della
pressione ideologica sulle opere d’arte, e la lettura propo- sta dai critici della Repubblica Popolare Polacca si incentrò sulla lotta tra il progresso e le superstizioni nazionalistiche e religiose, che ostacolavano l’amicizia tra i popoli. Joanna Krakowska232 ha dimostrato tuttavia come il fulcro di questo
spettacolo – che aveva colpito la critica per la recitazione af- filata e la tensione emotiva, per le scenografie essenziali e metaforiche di Iwo Gall, insomma per uno stile espressioni- sta ben lontano dal realismo socialista – non risiedesse più nell’intreccio (la questione dell’assimilazione, ad esempio, aveva perso ogni ragione d’essere) ma si fosse spostato altro- ve. Negli anni, Meir Ezofowicz era diventato «l’epopea di un mondo scomparso»233 e la tensione prodotta sulla scena dalla
frizione tra le parole di Orzeszkowa e la lingua e i corpi degli attori non poteva non richiamare la specifica tragedia dello sterminio ebraico, per quanto nel discorso pubblico essa fos- se stata universalizzata e inglobata nel lutto collettivo della
nazione.234 Ma, suggerisce Krakowska, Ida Kaminska andava
231. Abbiamo un assaggio della scena della trasmissione dei “libri” al pronipote nel documentario Il suo teatro.
232. Joanna Krakowska, Meir Ezofowicz, czyli Z·ydzi, «Didaskalia Gazeta Teatralna», 113, 2, 2013, pp. 55-64. L’articolo è il risultato di una ricerca condotta all’interno del progetto multimediale realizzato presso l’Istituto Teatrale di Varsavia e intito- lato Repubblica Popolare Polacca. Rappresentazioni, una storia delle rappresentazioni teatrali intrecciata alla rappresentazione di questioni politico-sociali, cfr. <http:// www.teatrpubliczny.pl/PRL> e nello specifico sul tema Meir Ezofowicz/Ebrei/Ida Kaminska <http://www.teatrpubliczny.pl/PRL/id:17>.
233. Jan Sztaudynger, Epopea s´wiata zaginionego, « Teatr», 4, 1954, cit. ivi, p. 57. 234. Per una recente disamina di questo articolato processo di costruzione dell’i- dentità polacca dopo l’Olocausto, processo che è passato dall’ambivalente omo- geneizzazione della memoria nei primi tre decenni del dopoguerra ai tentativi di reclamare l’eccezionalità del destino ebraico nei primi anni Ottanta; dalla ri-arti- colazione della memoria alla luce del sentimento di colpa che ha caratterizzato gli anni dell’indipendenza (post ’89), fino all’attuale interiorizzazione della memoria ebraica nella coscienza polacca come esperienza non interamente assorbibile nella sola identità polacca cfr. Krystyna Duniec e Joanna Krakowska, Nie opłakali ich?, in
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oltre il pianto sulla sorte del proprio popolo: in Meir Ezofowicz faceva scontrare il discorso emancipatore della scrittrice con un’inedita presa di consapevolezza della perdita collettiva causata dalla Shoah e ne faceva emergere la propria, sem- pre attuale, missione etico-teatrale, che consisteva nel «sal- vare dallo sterminio della cultura ebraica le sue aspirazioni moderne […] a dispetto di tutto, coltivare l’emancipazione anche in assenza degli emancipati».235
Scrivendo all’epoca del “disgelo” e dell’autocritica, An- drzej Wróblewski commentava che negli anni precedenti il Teatro Statale Yiddish era stato in grado più di altri di non soccombere allo schematismo e che spettacoli come Meir Ezo-
fowicz e Mirele Efros non erano soltanto rimandi alla tradizione
yiddish, utili ad appagare i bisogni dello spettatore ebreo, ma una coraggiosa presa in carico, nell’oggi, del tema della lotta (vocabolo che piaceva sicuramente al partito, ma che poteva assumere un significato più profondo in relazione alla sopravvivenza della cultura yiddish):
[…] una lotta per i problemi morali, lotta a cui all’epoca i teatri polacchi avevano rinunciato. […] La compagnia del Teatro Yiddish si è assunta il difficile ruolo di avvocato della questione ebraica […] e senza dare nell’occhio si è fatta portavoce di questioni assai più ampie. In ciò si annida un amaro paradosso. Concentrandosi su temi ebraici, cercan- do i drammi più adatti a sé, il Teatro Yiddish ha affronta- to – unico in Polonia – problemi che abbiamo sempre sfug- gito con insistenza e taciuto (con la sola eccezione di Adolf Rudnicki). Risollevando queste questioni a uso interno, per regolare i conti con certi anacronismi […] ha toccato que- stioni morali straordinariamente dolorose e urgenti, che si ripercuotono in maniera molto più ampia.236
Il citato Adolf Rudnicki è stato tra i primi e più seguiti scrit-