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Shomer (pseudonimo di Nokhem Meyer Shaykevitch, 1849?-1905): prolifico autore di storielle e drammi Incontrò Goldfaden in Romania e quando a Odessa

I. Lo spazio del teatro

10. Shomer (pseudonimo di Nokhem Meyer Shaykevitch, 1849?-1905): prolifico autore di storielle e drammi Incontrò Goldfaden in Romania e quando a Odessa

8 Indomita yidishe mame. Ida Kaminska e la sua famiglia teatrale

Il termine shund era stato coniato dagli intellettuali ebrei per indicare in maniera sprezzante gli spettacoli yiddish “leg- geri”, che mescolavano in modo anarchico i generi mettendo in primo piano canzoni e balli, a scapito di qualsiasi coerenza drammaturgica e strutturale. Questi spettacoli prossimi al va- rietà, eterogenei e spesso di qualità scadente, presentavano forti contaminazioni con le tradizioni popolari rumene, rus- se, polacche e con le forme spettacolari americane, al contat- to con le quali erano nati. I personaggi erano cuciti addosso agli attori protagonisti, considerati veri e propri divi, e non presentavano caratteristiche a tutto tondo; spesso si esprime- vano in uno yiddish maccheronico, in daytshmerish (un ibrido tra lo yiddish e il tedesco) o in yinglish (miscela di yiddish e inglese). Lo shund proponeva anche ambientazioni esotiche come l’antica Palestina o la Spagna del xvi secolo, in cui i personaggi dialogavano in maniera enfatica e con un lessico stilizzato sul modello biblico. Gli spettatori comuni apprez- zavano questo passatempo e ne ricavavano l’impressione che nobilitasse la loro parlata yiddish, mentre gli intellettuali e gli artisti più esigenti continuavano a stigmatizzare quelle che consideravano espressioni artistiche degradate. A loro avviso si trattava di una piaga che metteva in pericolo la cre- scita della cultura yiddish perché la collettività ebraica, che spesso (ma non sempre) conosceva la lingua del paese in cui viveva, cercava nei teatri locali opere ambiziose e guar- dava al teatro ebraico come a un intrattenimento triviale. A dispetto delle critiche, lo shund rimase il genere dominante sulla scena teatrale a cavallo tra i due secoli, pur coabitando con felici eccezioni come il teatro stabile yiddish fondato da Yankev Ber Gimpel a Leopoli, dove, oltre a riviste e operette, trovarono posto i più grandi drammi europei: Giulio Cesare e

Il mercante di Venezia di Shakespeare, I masnadieri di Schiller, Il revisore di Gogol’ e il “nuovo classico” yiddish Uriel Acosta

di Karl Gutzkow.

alcuni attori yiddish nel 1889 emigrò negli Stati Uniti, dove i più importanti espo- nenti dell’establishment letterario yiddish – tra cui Sholem Aleichem – lo attacca- rono, accusandolo di avere plagiato autori stranieri e di produrre opere prive di valore artistico, incapaci di ritrarre la vita ebraica e immorali. La critica non riuscì però a frenare la popolarità di Shomer, che pubblicò oltre duecento racconti e cinquanta drammi in yiddish, e il cui successo fu cavalcato anche da autori rivali, i quali ne sfruttarono il nome per diffondere il proprio lavoro. Cfr. in proposito il primo e il terzo volume di questa serie.

Lo spazio del teatro

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Il 7 agosto 1883 un decreto zarista emanato in risposta all’assassinio di Alessandro ii aveva proibito l’allestimento di spettacoli in lingua yiddish in tutto l’impero russo, ma que- sto provvedimento non riuscì a frenare gli artisti itineranti del teatro yiddish. Se molti scelsero di emigrare nel Nuovo Mondo, soprattutto a New York, i Kaminski decisero invece di rimanere in Europa, continuando a spostarsi tra diversi territori con una compagnia che aveva assunto l’appellativo di «Teatro tedesco dell’opera, dei drammi e delle comme- die». Furono anni molto duri per la giovane coppia e i loro compagni, costretti da una parte a ingannare i censori russi fingendo di recitare in tedesco e a portare in scena un miscu- glio linguistico (camuffamento in cui sembra che Kaminski eccellesse) e dall’altra parte a difendersi dai rappresentanti dell’ortodossia ebraica, che consideravano il teatro una pro- fanazione.

Anni contraddistinti da uno stile di vita nomade e sem- pre sulle soglie della miseria, che si ripercosse duramente soprattutto su Ester Rokhl, costretta a fronteggiare numero- se gravidanze, malattie e aborti in condizioni estremamente precarie, aggravate peraltro dai tradimenti del marito. Nel corso di dodici anni di tournée per la Russia e il Regno del Congresso, la donna diede alla luce sette figli, ma soltanto tre di essi sopravvissero: Regina (1894), Ida, nata nel 1899 durante una fortunata tournée a Odessa nel pensionato Tea- tralnaja Gostnica, e Yosef (1903). Per oltre un decennio Ester Rokhl fu sempre una donna in attesa o intenta ad accudire i figli, senza mai cessare di essere anche un’attrice e un pun- to di riferimento artistico e umano per i membri della sua troupe.11 Prima ancora di passare alla storia come «la madre

del teatro yiddish», Ester Rokhl era infatti già identificata con l’epiteto di madre da molti spettatori e da tutti i membri della compagnia, compreso il marito:

Mio padre la chiamava sempre Mame. Non l’ha mai chia- mata con il suo nome. I fratelli e le sorelle la chiamavano Rachel o, quando le si rivolgevano in russo, Ester Yefimovna (al che mia madre rispondeva: «Guai se mio padre Haim Yohanan sapesse di essere chiamato Yefim!»). Ma tutti gli altri la chiamavano Ester Rokhl. […] Tutti questi nomi le si 11. A. Kuligowska-Korzeniewska, Kamin´scy: Abraham Izaak i Ester Rachel, in Teatralna

10 Indomita yidishe mame. Ida Kaminska e la sua famiglia teatrale

addicevano […]. Mame, però, era quello più appropriato. Purtroppo, nel teatro yiddish il termine Mame è inestrica- bilmente connesso a un teatro di livello mediocre, spesso al melodramma di bassa lega. Ma questa caratteristica non ave- va nulla a che fare con Ester Rokhl. Essa era Mame non solo in virtù della sua sensibilità, ma anche nel comportamento e in tutta la sua persona.12

La scelta dell’appellativo Mame era dunque qualcosa in più di una semplice espressione d’affetto o di una convenzione linguistica: la presenza stessa di Ester Rokhl evocava un sen-

timento di «calore umano e familiarità»13 che trovava una

precisa corrispondenza scenica in una recitazione «intima e penetrante»,14 lontana dalle pose e dai patetismi così diffu-

si all’epoca. La stretta relazione tra la dimensione familiare e l’esperienza performativa si impresse profondamente nel carattere di Ida Kaminska, che considerò sempre la madre il primo e più importante modello artistico e il teatro «una faccenda di famiglia», dal momento che «la famiglia e l’ar-

te erano concetti pressoché coincidenti».15 Avremo modo

di approfondire questo tema, di capitale importanza, nelle prossime pagine. Va tenuto conto però che la composizione familiare delle compagnie era una caratteristica comune nel panorama teatrale europeo a cavallo tra xix e xx secolo e che la solidarietà tra membri della stessa famiglia consentiva agli artisti di contrastare le difficoltà economiche e la precarietà della vita nomade.

Paradossalmente, il ventennio di interdizione zarista im- presse un’accelerazione allo sviluppo della cultura yiddish moderna sul versante letterario, soprattutto grazie al con- tributo di Mendele Moykher Sforim, Sholem Aleichem e Yitskhok Leybush Peretz, che crearono e diffusero una lingua yiddish “alta”. Dal punto di vista del repertorio teatrale, si trattò invece di un periodo di stallo e regressione, dominato dallo shund di stampo americano. La rivoluzione russa del 1905 inaugurò una nuova epoca per il teatro yiddish, che da quel momento riacquistò il diritto alla propria lingua e trovò un nuovo partner culturale: la stampa. Da un giorno all’altro,

12. I. Kaminska, My life cit., pp. 8-9.