I. Lo spazio del teatro
4. Gli anni Trenta
4.3. Il terzo vykt
Turkow aveva riattivato il vykt nel 1938, con l’intento preciso di rafforzare la coscienza nazionale ebraica. Se in passato il progetto si era appuntato sulla creazione di un teatro eu- ropeo in lingua yiddish, con il terzo vykt l’artista aspira- va invece a creare uno stile teatrale nazionale ebraico, ben radicato nella tradizione e ispirato all’opera di Goldfaden. In un’intervista al critico Mojz·esz Kanfer, il regista descrisse questo cambio di prospettiva facendolo risalire agli anni di nomadismo che erano seguiti allo scioglimento del secondo vykt e alla separazione da Ida:
Poi iniziò il mio viaggio per il mondo e cominciai a com- prendere meglio il significato della vita ebraica, di quella vita modellata sempre in maniera provvisoria, che perennemen- te muta d’aspetto, passando dalla più profonda disperazione alla felicità spesso sfrenata. Il teatro ebraico non può essere diverso dalla vita ebraica, deve avere in sé la profondità e la leggerezza, la meditazione e il dinamismo, deve essere cantato, danzato, ricco di lacrime e canti. E tale è il teatro di Goldfaden.136
135. Avrom Morevski (1886-1964): attore, regista, traduttore e saggista nato a Vil- nius. Debuttò come attore russo nel 1905 e nel 1910 si diplomò presso la scuola teatrale Suvorin di San Pietroburgo. Recitò in russo fino al 1918, quando passò alla scena yiddish, prima a Vilnius e poi a Łódz´. Nel 1919 si unì alla Vilner Trupe, dove interpretò il ruolo dello tsaddik nel Dibbuk diretto da Dovid Herman. Continuò poi a lavorare a fasi alterne con la compagnia fino al 1927, traducendo in yiddish drammi del repertorio classico europeo, tra cui Il mercante di Venezia. Diresse il Krokever Yidish Teater nella stagione 1927-1928, ma nel 1928 lo lasciò per recitare a New York sotto la direzione di Maurice Schwartz, poi a Chicago (1929) e a Parigi (1930). Negli anni 1931, 1934 e 1935 formò diverse proprie compagnie, senza però riuscire a a stabilizzarle. Nel 1938 interpretò Prospero nella celebre versione yiddish della Tempesta diretta da Leon Schiller. Prese inoltre parte come attore a di- versi film in Polonia e Germania, tra cui Il dibbuk (1937). Alla fine della guerra tor- nò in Polonia, dove entrò a fare parte del Teatro Statale Yiddish di Ida. Mirosława M. Bułat, Avrom Morevski, The yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, 8 ottobre 2016: <http://www.yivoencyclopedia.org/article.aspx/Morevski_Avrom>. 136. M. K., Teatr goldfadenowski – teatrem z·ydowskim. Z rozmowy z Zygmuntem Tur-
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Il richiamo alla poetica del «padre del teatro yiddish» tra- duceva l’ambizione di Zygmunt a dare vita a un teatro che entrasse in comunione profonda con il popolo ebraico e con le sue attuali inquietudini. L’ex marito di Ida ricreò infatti il Varshever Yidisher Kunst-teater animato dall’idea di una nuo- va missione: trasformare l’arte in uno strumento per opporsi alla violenza dell’antisemitismo e al vilipendio dei cittadini ebrei e delle loro tradizioni. Per molti artisti ebrei gli anni Trenta furono contrassegnati da una tendenza alla chiusura difensiva e sia Ida sia Zygmunt si posero il problema di vo- tare il proprio artigianato alla rappresentazione di modelli positivi di vita ebraica. Lo dimostra il mutato manifesto della compagnia del vykt, che delineava la necessità di un teatro «serio», che non anestetizzasse lo spettatore con la vacuità dello shund ma avesse il potere di risollevarne lo spirito:
La collettività ebraica non ha mai avuto tanto bisogno di un teatro serio come ora. […] Lo shund ha trovato il proprio pubblico nel piccolo borghese e nel borghese intellettuale, sui quali agisce come un narcotico, atrofizzando il gusto e le capacità spirituali di resistenza. Il teatro deve infonde- re gioia, ottimismo, elevazione e fiducia nel domani. […] Attraverso esempi tratti dal lontano passato dobbiamo mo- strare che siamo un popolo che, molto prima della nascita di Cristo, ha celebrato l’amore per l’umanità, per il lavoro e l’attaccamento alla terra, dalla quale negli anni siamo stati cacciati e alla quale abbiamo non meno diritto di coloro che ci accusano di essere un popolo di parassiti e usurai.137
Il terzo vykt tornava a puntare l’attenzione sulla dramma- turgia yiddish tradizionale, rielaborandola tuttavia nella for- ma di un folkshpil moderno, una messa in scena in grado di combinare dramma, commedia e operetta con la musica, il canto e la danza: un teatro che necessitava di un regista capa- ce di mettere a sintesi linguaggi e registri e di attori versatili in tutti questi campi. Il repertorio della compagnia incluse il riallestimento dei Sette impiccati e Il campanaro di Notre Da-
me, l’adattamento del romanzo Lo zio Mosè di Shalom Ash e
di Stelle vagabonde di Sholem Aleichem e tre allestimenti da kowem, «Nowy Dziennik», 107, 1939, p. 8, cit. in M. Bułat, W poszukiwaniu teatru “z·ydowskiego” cit., pp. 595-596.
137. Zygmunt Turkow, cit. in Jacob Guinsburg, Aventuras de uma língua errante:
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Goldfaden, realizzati nel 1939 a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro: I cantanti di Brody, Bar Kochba e Shulamis o la figlia
di Gerusalemme. Furono proprio queste produzioni goldfade-
niane, di cui oggi abbiamo qualche notizia grazie agli studi di Mirosława Bułat,138 ad attirare l’attenzione degli spettatori
e dei giornalisti.
Turkow vs Goldfaden
Particolarmente rappresentativa della nuova poetica di Zygmunt Tur- kow fu Shulamis, prima opera del ciclo goldfadeniano che, dopo i suc- cessi riscossi a Leopoli e Cracovia,139 nel settembre del 1939 approdò
al Teatr Nowos´ci di Varsavia. Come Tkies kaf, anche Shulamis racconta le conseguenze funeste della rottura di un voto. Nel deserto dell’an- tica Palestina, Shulamis e Avisholem si giurano amore eterno, ma dopo essersi separati l’uomo dimentica l’innamorata e si sposa con un’altra donna. Soltanto la morte dei due figli riporterà alla mente di Avisholem la promessa fatta alla ragazza e, dopo avere abbandonato la moglie, farà ritorno a Betlemme per ricongiungersi con Shulamis, rimastagli sempre fedele. Il desiderio del regista di contrastare la dif- fusione dell’ideologia nazista attraverso la proposizione di immagini positive della vita ebraica tratte da modelli del passato lo spinse a introdurre diverse modifiche nella caratterizzazione dei personaggi e nello sviluppo della trama. Non tutti i critici apprezzarono la libertà che l’artista si prese nel modificare l’originale,140 ma non poterono
138. Per una sintetica ricostruzione degli spettacoli e della loro ricezione, all’in- terno di un più ampio studio sulla poetica di Zygmunt Turkow, cfr. il già citato articolo di Mirosława M. Bułat, pubblicato in polacco con il titolo W poszukiwaniu
teatru “z·ydowskiego”: Zygmunt Turkow, in Antreprener. Ksie˛ga ofiarowana profesorowi Ja- nowi Michalikowi w 70. rocznice˛ urodzin, a cura di J. Popiel, Kraków 2009, pp. 585-
605, e in inglese “Cosmopolitan” or “Purely Jewish”?: Zygmunt Turkow and the Warsaw
Yiddish Art Theatre, in Inventing the Modern Yiddish Stage, a cura di Joel Berkowitz e
Barbara Henry, Wayne State University Press, Detroit 2012, pp. 116-135.
139. Shulamis era stata creata a Leopoli nel 1938 e aveva debuttato a Cracovia il 28 aprile del 1939, attirando numerosi spettatori anche tra quanti abitualmente non frequentavano il teatro yiddish. L’11 giugno il quotidiano «Nowy Dziennik» tirò le somme del successo: lo spettacolo contava già quaranta repliche, per un totale di dodicimila cinquecento spettatori, numero che nessun altro allestimento yiddish a Cracovia aveva mai eguagliato. Cfr. Trzeci dzien´ niebywałego powodzenia Sulamity, «Nowy Dziennik», 14 maggio 1939; Z z·ycia teatru: rzadki jubileusz, «Nowy Dziennik», 15 maggio 1939; Dzis´ nieodwołalnie po raz ostatni Sulamita, «Nowy Dziennik», 25 maggio 1939, Wymowa liczb, «Nowy Dziennik», 11 giugno 1939, cit. in M. M. Bułat,
From Goldfaden to Goldfaden cit., p. 151.
140. «Nonostante dall’esterno ci colpisca per la sua forza, l’architettura è un’arte molto discreta. La prima regola dell’architettura è non erigere colossi su fondamen- ta progettate per ville ariose. Zygmunt Turkow non sempre osserva questa regola. Ama così tanto il teatro, ha così tanto da dire ed è così pieno di idee che, incau-
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fare a meno di constatare che questi riallestimenti condividevano gli stessi scopi delle opere di Goldfaden: risollevare lo spirito del popolo ebraico e risvegliarne l’orgoglio nazionale rinsaldando il legame con il suo passato. Turkow stesso dichiarò esplicitamente che l’obiettivo del suo teatro era offrire evasione ed elevazione morale al ceto medio e al proletariato ebraico, minacciati dall’antisemitismo:
Shulamis di Goldfaden è l’epopea della nobile umanità che caratterizza il nostro popolo. Racchiude tutti i più importanti elementi della trage- dia greca e shake spea riana (il fato spietato e ineluttabile, che punisce per peccati non commessi) e presenta allo stesso tempo un elemento ebraico: l’ottenimento del perdono per il peccatore pentito. Inoltre il tutto è proposto in una veste comprensibile, attraverso esperienze e vicende umane realmente accessibili a tutti. […]
E i suoi valori puramente ebraici […]? Non c’è dubbio che gli spettato- ri odierni, così come quelli di un tempo, nel teatro yiddish vorrebbero trovare distensione e conquistare la fede.
Ho scelto Shulamis […] Un’epoca diversa, un contesto differente, per due ore la possibilità di staccarsi dalla grigia realtà e introdurre lo spettatore allo splendore del paesaggio orientale e mostrargli gli ebrei – non quelli poveri, con la fronte aggrottata dalle preoccupazio- ni, non quei ragazzotti pallidi e ingobbiti usciti da cheder asfissianti, e neanche il nostro artigiano, il proletario ebreo disperatamente in lotta per mantenere la propria vacillante posizione, a cui il teatro oggi può offrire solo ruoli passivi sulla scacchiera degli eventi – ma gli ebrei- contadini, gli ebrei-pastori, gli ebrei liberi dagli affanni, uomini che sfidano la sorte e ne sostengono il peso, come solo gli uomini liberi sanno fare. Uomini che non sopportano le città e l’atmosfera corrotta delle viuzze, ma amano naturalmente i propri campi, i prati e i cieli sconfinati oltre le montagne. Questi uomini parlano un’altra lingua, più bella e melodiosa. Con il canto manifestano la propria gioia e il canto è espressione della loro tristezza. E soprattutto amano le feste, perché tutta la loro atmosfera è festosa.
Ed è proprio in questa atmosfera che vorrei condurre il nostro con- cittadino ebreo, oberato di lavoro e angosciato, per incoraggiarlo a dimenticare la propria miseria. Affinché sorrida, respiri liberamente ed esca cantando dal teatro, affinché anche più tardi, al lavoro, gli tornino alla mente le canzoni melodiose di Goldfaden.141
tamente, carica troppo le fondamenta. Ad esempio, Shulamis dovrebbe essere un dramma storico pastorale ma in alcuni punti diventa un oratorio, in altri un’opera dell’Antica Grecia, per non dire dell’accento del tutto grottesco sul… movimento per i diritti dei neri». Tra i cambiamenti più vistosi introdotti da Turkow e dal dram- maturgo Aszendorf vi fu infatti la trasformazione di Tsingitang, servitore nero del protagonista Avisholem, che tradizionalmente era una figura comica, nel portavo- ce della protesta degli uomini di colore contro l’oppressione dei bianchi, Mojz·esz Kanfer, Wieczory teatralne: Goldfaden czy Aszendorf?, cit. in M. M. Bułat, ivi, pp. 153-154. 141. Zygmunt Turkow, Dlaczego wystawiłem „Sulamite˛”, «Nowy Dziennik», 115, 1939, p. 9. cit. in M. M. Bułat, W poszukiwaniu cit. p. 598.
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Zygmunt Turkow aspirava a un teatro dal forte impatto so- ciale e politico, in grado di intaccare la faticosa quotidianità dello spettatore e di fargli risollevare il capo per guardare con fiducia a un futuro dai contorni differenti. Per raggiun- gere questo scopo, il regista abbandonò soggetti e personag- gi dell’attualità e volse il proprio sguardo all’indietro, verso una figura di antenato dai contorni mitici, un uomo dedito ad attività “libere” come la pastorizia e l’agricoltura e non asservito ai meccanismi impoverenti della città.
Pur non condividendo la medesima idealizzazione del pas- sato, anche Ida concentrò sul teatro le speranze utopiche di un miglioramento della condizione ebraica e, pur temendo l’imminente invasione tedesca, firmò un contratto decennale per l’affitto del Teatr Nowos´ci chiedendo in prestito a un amico l’anticipo di ventimila złoty.
Il 31 agosto del 1939 Ida, il marito Meir e la figlia Ruth lasciarono Łódz´ per fare ritorno nella capitale; nel cuore della notte furono svegliati dalle sirene che annunciavano il bombardamento tedesco e decretavano l’inizio della Secon- da guerra mondiale. Il terzo giorno dall’inizio del conflitto la Wehrmacht riuscì a circondare le truppe polacche con una manovra a tenaglia da nord e da sud e si aprì la strada verso la capitale. Il cinque settembre una delle bombe scaricate dalla Luftwaffe colpì l’edificio di via Bielan´ska, dove ancora pochi giorni prima era andata in scena la Shulamis di Turkow, e distrusse il teatro. Nei giorni successivi Ida trovò rifugio insieme alla famiglia e ad alcuni amici, tra cui Zygmunt e la nuova moglie, nelle cantine del Café Esplanade, dove tra- scorse le giornate attanagliata dalla fame, dalla sete e dalla paura. Attorno alla città, intanto, le truppe polacche che con- trastavano eroicamente l’offensiva tedesca confidando nel soccorso degli alleati furono sorprese dall’arrivo a tradimen- to dei reparti militari sovietici. Quando, il 29 settembre, ces- sarono le incursioni aeree, l’esercito polacco era stato ormai sopraffatto e Ida scoprì che tutti i documenti della famiglia Kaminski erano stati distrutti e che di venticinque anni di lavoro teatrale non restava più alcuna traccia.142
142. Tutto il patrimonio artistico materiale della famiglia Kaminski – che com- prendeva centinaia di costumi, scenografie e accessori teatrali – rimase a Łódz´, dove fu distrutto. Cfr. Curriculum artistico, Cart. personale di Ida Kamin´ska, Instytut Tea tral ny im. Zbigniewa Raszewskiego, Varsavia.
76 Indomita yidishe mame. Ida Kaminska e la sua famiglia teatrale 5. Guerra e sovietizzazione
Fin dai primi giorni del cessate il fuoco, Ida e Meir comprese- ro la necessità di lasciare al più presto Varsavia: per le strade i soldati tedeschi aggredivano chiunque avesse un aspetto ebraico e la sera prima della partenza Ida fu avvertita da una giornalista polacca che il suo nome si trovava sull’elenco del- le persone che la Gestapo avrebbe arrestato con l’accusa di avere prodotto spettacoli anti-hitleriani. La mattina del 17 ottobre – dopo avere salutato gli amici che non volevano o non potevano abbandonare la capitale, tra cui Zygmunt e Jonas Turkow – marito e moglie fuggirono a bordo di due automobili prese in affitto. Con loro, diretti verso i territori occupati dall’Armata Rossa, viaggiavano Ruth e il neomarito, il jazzista Ady Rosner,143 Yitskhok Turkow con la moglie Annie
Littman (anch’essa attrice) e altri conoscenti. Seguirono il loro esempio almeno cinquanta tra i più celebri attori del teatro yiddish, che in questo modo trovarono scampo allo sterminio nazista.
Dopo essere stato preso in ostaggio dai tedeschi, il gruppo riuscì fortunosamente a oltrepassare il confine e a entrare nei territori che di recente erano stati annessi all’Unione Sovietica. L’accordo stipulato tra il Terzo Reich e l’Urss cir- ca la spartizione della Polonia, già decisa in agosto con la firma del patto Ribbentrop-Molotov, si basava su un criterio di omogeneità etnica: al primo sarebbero spettati i territori abitati da polacchi, alla seconda quelli popolati da bielorussi
143. Adolph Rosner (noto con il soprannome Ady o Eddie, 1910-1976): nato a Berlino da genitori ebrei polacchi fu un giovane prodigio musicale e un trombet- tista di talento, definito dallo stesso Satchmo “il Louis Armstrong bianco”. All’età di diciotto anni entrò a fare parte della band Weintraubs Syncopators, con la quale ottenne uno straordinario successo. In seguito all’ascesa al potere del Partito Na- zionalsocialista, Rosner si trasferì in Polonia, dove contribuì alla nascita del jazz nel paese, suonando nei più celebri locali di Varsavia e al “U Adi” (Da Adi) di Łódz´. Il suo apporto allo sviluppo del jazz in Polonia e in Russia non ebbe eguali: seb- bene la sua orchestra, come molte all’epoca, suonasse anche altri stili musicali, si distinse per l’attenzione e la maestria nel genere swing. Durante la Seconda guerra mondiale entrò nelle grazie di alcuni rappresentanti del partito comunista e dello stesso Stalin, per il quale tenne anche un concerto personale. Quando la musica jazz fu condannata come un’arte perversa, borghese e capitalistica, Rosner – che era considerato il più grande jazzista nella storia dell’Unione Sovietica – cadde in disgrazia e nel 1946 fu internato in un gulag. Fu riabilitato come artista soltanto dieci anni più tardi, ma poco dopo la musica jazz venne nuovamente messa al ban- do. In Unione Sovietica tutte le sue registrazioni radiotelevisive furono cancellate e il ricordo della sua arte andò in gran parte perduto.
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e ucraini, ma anche regioni a maggioranza polacca come la Podolia, i distretti di Białystok, Vilnius e Leopoli (ossia la metà del territorio polacco), e la Lituania. Per mezzo di tale concordato, tredici milioni e duecentomila cittadini della Re- pubblica Polacca diventavano membri della “famiglia delle nazioni sovietiche”.
Con il pretesto di liberare i popoli fratelli della Bielorussia e dell’Ucraina, il governo sovietico avviò una brutale cam- pagna di depolonizzazione, mirata a cancellare ogni traccia della cultura polacca: i primi a farne le spese furono i duecen- totrentamila soldati polacchi fatti prigionieri o consegnatisi spontaneamente all’Armata Rossa durante la campagna di settembre. Prigionieri dell’nkvd, alcuni furono deportati nel- le aree più remote della Russia mentre oltre ventimila di essi furono eliminati con un colpo alla nuca, con raggelante si- stematicità e in spregio a ogni convenzione internazionale.144
Le istituzioni polacche furono spazzate via e per un certo periodo le regioni sotto l’influenza sovietica rimasero preda dell’anarchia e della violenza, che sfociò anche in alcuni po- grom contro gli ebrei, accusati di avere pugnalato alle spalle i polacchi consegnando la nazione ai sovietici.
L’atteggiamento di generale accoglienza manifestato dalla popolazione ebraica nei confronti del nuovo regime sovie- tico è ancora oggi un argomento spinoso, oggetto di feroci dispute e recriminazioni. Le ragioni dell’entusiasmo espresso sia dalla locale cittadinanza ebraica sia dagli ebrei che ave- vano trovato rifugio nei territori occupati dall’Armata Rossa furono molteplici. In molti avevano sperimentato le atrocità compiute dai nazisti nei primi giorni della guerra e apprez- zato l’aiuto offerto dai soldati sovietici nell’evacuare città co- me Lublino e Vilnius; altri erano rimasti impressionati alla vista di un esercito che esprimeva potenza, tecnologicamente equipaggiato e disciplinato, e che manifestava un comporta-
144. Il riferimento è all’eccidio di Katyn´, una serie di esecuzioni di massa com- messe dall’nkvd ai danni di militari e cittadini polacchi tra l’aprile e il maggio 1940. Fino a qualche anno fa era uno degli orrori meno conosciuti della Seconda guerra mondiale. Alcune fosse comuni furono scoperte nel 1943 dai tedeschi, che decisero di strumentalizzare l’eccidio a vantaggio della propaganda nazista. Fino al 1990 l’Unione Sovietica negò le accuse indirizzatele dal governo polacco in esi- lio, attribuendo ai tedeschi le responsabilità del delitto. Nel 2007 il regista Andrzej Wajda ha girato un film sull’eccidio di Katyń, di cui anche il padre fu vittima. Nel 2010 il parlamento russo ha approvato una dichiarazione in cui condanna Stalin e altri ufficiali sovietici come responsabili di avere ordinato il massacro.
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mento assai diverso da quello tenuto dai bolscevichi durante la guerra con la Polonia del 1920, caratterizzato da saccheggi e stupri ancora impressi nella memoria dei più anziani. Inol- tre per i militanti comunisti, che contavano una cospicua partecipazione ebraica, l’arrivo dell’Armata Rossa poneva fine a un periodo di esistenza clandestina e prefigurava la realizzazione di un ideale politico: se il Partito Comunista di Polonia era stato liquidato dal Komintern nel 1938,145 molti
dei suoi membri avevano continuato a sentirsi pienamente comunisti e avrebbero pertanto contribuito al consolidamen- to del nuovo regime integrandosi nei governi provvisori. Le comunità ebraiche che avevano già sperimentato la vita in aree annesse all’Unione Sovietica, accolsero semplicemente l’Armata come il minore dei due mali.
Dal canto proprio, il regime sovietico mirava a ottenere l’integrazione politica e ideologica delle popolazioni ucrai-