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CAPITOLO II – I CARATTERI DEL METODO MAFIOSO

1. Il requisito della forza intimidatrice del vincolo associativo

1.2. L’apparato strumentale del sodalizio criminale

Il terzo comma dell’art. 416 bis individua il complesso strumentale di cui si serve l’associazione per perseguire le finalità sancita dalla stessa disposizione, delineandone i tratti essenziali nella forza di intimidazione, nell’assoggettamento e

nell’omertà, cui si deve aggiungere il prerequisito organizzativo29.

In particolare, alla forza di intimidazione viene generalmente conferita una duplice valenza, in quanto essa costituisce non solo lo strumento attraverso cui il sodalizio sprigiona la propria capacità criminale nel contesto sociale, bensì anche un

elemento costitutivo della fattispecie delittuosa30; essa infatti denota l’intrinseca

idoneità del gruppo a ingenerare paura nei terzi in ragione del già sperimentato

esercizio della coazione fisica e morale31.

A dimostrazione di quanto detto, si ritiene sufficiente segnalare la terminologia utilizzata dal legislatore, il quale pone l’accento sul termine “forza”, impiegato per connotare l’esercizio del potere criminale che si dispiega in modo arbitrario, nonché sul concetto di “intimidazione”, che evoca l’aura di timore ingenerato nei confronti

di un insieme indeterminato di soggetti dall’incombere di tale potere32; quest’ultima

caratterizza l’aggregato umano in sé, id est l’apparato strumentale dell’ente associativo, per cui l’opinione maggioritaria ritiene a ragione che non sia necessario che il singolo inserito nell’organizzazione abbia fatto o faccia ricorso ad atti di violenza o minaccia, potendo questo limitarsi a far valere gli effetti del metodo

28 G.SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1997, 28; non sarebbe rilevante, ai fini

dell’aggravante in esame, la circostanza che il singolo affiliato detenga, lecitamente o illecitamente, armi ma per uso personale o per scopi diversi da quelli perseguiti dall’associazione;

29 G.M.FLICK, L’associazione a delinquere di tipo mafioso. Interrogativi e riflessioni sui problemi proposti dall’art. 416 bis c.p., in Riv. It. dir. proc. pen., 1988, 855; il quale sostiene che

intimidazione, assoggettamento e omertà “rappresentano un vero e proprio patrimonio, avviamento, rendita di posizione”;

30 R.CARUSO, Struttura e portata applicativa dell’associazione di tipo mafioso, in Associazione di tipo mafioso, B.ROMANO (a cura di), Milanofiori Assago, 2015, 27;

31 G.SPAGNOLO, L’associazione, cit.;

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prevaricatorio perpetrato dagli altri associati33. In altri termini può affermarsi che i

compilatori dell’art. 416 bis, incentrandosi sull’elemento della forza di intimidazione, abbiano voluto riferirsi non solo alla concreta attuazione di specifici atti di violenza o minaccia diretti a produrre assoggettamento e omertà nel contesto sociale di riferimento e, di conseguenza, a consolidare il proprio status criminale, ma anche alla capacità, tipica in particolare delle consorterie mafiose “storiche”, di incutere timore a prescindere dalle singole condotte violente ed a ingenerare nell’ambiente circostante quella generale percezione della loro temibile efficienza

nell’esercizio della coercizione fisica34; sotto tale prospettiva si spiega l’uso da

parte delle consorterie in questione, la cui presenza nel territorio è sempre stata storicamente riscontrabile, di un’intimidazione mafiosa allusiva, indiretta ed implicita, non consistente in concreti atti di violenza o minaccia.

Pertanto la forza di intimidazione è stata considerata da una parta consistente della dottrina alla stregua di “un alone permanente di intimidazione diffusa, tale da mantenersi vivo anche a prescindere da singoli atti intimidatori concreti” posti in

essere dai singoli associati35 e derivante da una “fama criminale” di violenza e

sopraffazione acquisita e sviluppata nel tempo dalla stessa associazione36; altri

Autori hanno preferito parlare invece di “carica intimidatoria autonoma” in modo da attribuire maggiore rilevanza interna al requisito in esame, quale fonte da cui promanano l’assoggettamento e l’omertà propri del vincolo; infatti la locuzione “alone di intimidazione” sembrerebbe richiamare una situazione esterna al sodalizio

e tale da costituire un indizio dell’esistenza della carica intimidatoria autonoma37.

Ed in più, dalle oscillazioni interpretative della giurisprudenza di legittimità immediatamente successiva all’introduzione dell’art. 416 bis si evince la difficoltà di definire la rilevanza della forza di intimidazione all’interno dell’associazione.

33 G.DE VERO, Tutela dell’ordine pubblico e reati associativi, in Riv. It. dir. proc. pen, 1993, 116;

secondo l’opinione dell’Autore in commento sarebbero dovuti ritenersi necessari specifici atti di intimidazione affinchè il vincolo potesse sprigionare i requisiti indicati dal terzo comma; egli in aggiunta auspicava una modifica dell’art. 416 bis attraverso l’inserimento del requisito della commissione di “una serie ripetuta di atti di minaccia e di violenza, personale e reale”;

34 G.SPAGNOLO, Ai confini tra associazione a delinquere e associazione di tipo mafioso, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1989, 1731;

35 G.TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2015, 124;

36 G.SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1997, 28; l’Autore definisce la forza di

intimidazione del sodalizio mafioso come “la quantità paura che è in grado di suscitare nei terzi in considerazione della sua predisposizione ad esercitare rappresaglie”;

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Infatti, per un verso, alcune pronunce risultano incentrate sugli effetti che il requisito in esame produce all’esterno, quindi nei confronti delle cerchia indeterminata dei destinatari del metodo di violenza e prevaricazione, designando la forza intimidatrice quale “menomata libertà di determinazione così incisiva da rendere le persone strumento indiretto o passivo o, quantomeno, testimoni muti dei delitti e degli illeciti commessi dal sodalizio criminale” nonché distinguendola dall’influenza negativa dei singoli membri del medesimo derivante dall’efferatezza dei delitti da costoro perpetrati o comunque dal prestigio criminale del singolo

affiliato38; per altro verso i giudici di legittimità conferiscono comunque una certa

rilevanza probatoria ai riflessi interni della forza intimidatrice, in quanto idonei a dimostrare giudizialmente l’esistenza dell’apparato strumentale dell’associazione, senza però considerare questi ultimi essenziali al fine dell’integrazione della fattispecie39.

Ad una soluzione definitiva, almeno per quel che riguarda la definizione della forza di intimidazione, la giurisprudenza di legittimità è giunta con una sentenza emessa

nel 200740, in cui in primo luogo veniva sancita la natura strumentale della violenza

e della minaccia rispetto alla capacità di intimidazione che deriva dal vincolo associativo; in secondo luogo veniva posta una definizione generale di forza di intimidazione, quale “clima di diffusa intimidazione derivante dalla consolidata consuetudine di violenza dell’associazione, percepito all’esterno e del quale si

38 Cass. Pen., Sez. VI., 23.6.1999, n. 2402, D’Alessandro;

39 Cass. Pen., Sez. VI, 11 gennaio 2000, Ferone; Cass. Pen., Sez. I, 6 giugno 1991, Grassonelli; Cass.

Pen., Sez. I, 15 dicembre 1986, Amerato; G. DI LELLO FINUOLI, Associazione di tipo mafioso e

problema probatorio, in Il Foro Italiano, 1984, 248; i riflessi interni della forza di intimidazione

non potranno essere utilizzati dai partecipi dell’associazione al fine di invocare l’esimente di cui all’art. 54 c.p. (stato di necessità);

40 Cass. pen., sez. VI, 12 ottobre 2017, n. 28212; in tema di associazione di tipo mafioso, la forza di

intimidazione che caratterizza il vincolo associativo non deve necessariamente essere esternata attraverso specifici atti di minaccia e violenza da parte dell'associazione o dei singoli soggetti che ad essa fanno riferimento, potendosi desumere anche dal compimento di atti che, sebbene non violenti, siano evocativi dell'esistenza attuale della fama negativa e del prestigio criminale dell'associazione, ovvero da altre circostanze obiettive idonee a dimostrare la capacita attuale del sodalizio, o di coloro che ad essa si richiamano, di incutere timore ovvero dalla generale percezione che la collettività abbia dell'efficienza del gruppo criminale nell'esercizio della coercizione fisica. (In motivazione la Corte ha aggiunto che la violenza e la minaccia rivestono natura strumentale rispetto alla forza di intimidazione e ne costituiscono un accessorio eventuale, sotteso, diffuso e percepibile).

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avvantaggino gli associati per perseguire i loro fini”41. È possibile enucleare alcuni

principi sanciti dalla giurisprudenza di legittimità, in conseguenza dell’applicazione della disposizione penale di cui all’art. 416 bis, con riferimento all’accertamento probatorio sul ricorso al metodo mafioso da parte degli affiliati all’organizzazione criminale.

La capacità di intimidazione, innanzitutto, quale estrinsecazione del metodo mafioso deve essere effettiva e obiettivamente riscontrabile, da non confondersi con quei comportamenti dei membri del sodalizio mafioso riconducibili all’autorevolezza degli stessi nel contesto di appartenenza e privi di

condizionamento violento e sopraffazione42; in più non può desumersi la

sussistenza del ricorso al metodo di prevaricazione dalla semplice presenza, tra gli affiliati ad un sodalizio criminale, di persone già condannate per delitti di mafia, essendo necessario verificare in concreto che il metodo mafioso sia stato trasmesso

e pienamente recepito all’interno dell’organizzazione criminale stessa43.

Particolarmente significativa è da considerarsi una pronuncia della Suprema Corte, in sede di procedimento cautelare, avente ad oggetto azioni estorsive e una generica condizione di controllo ed assoggettamento, perpetrate da una struttura segreta interna ad ente di natura religiosa denominato Istituto Culturale Islamico, nei confronti di soggetti esercenti attività commerciali appartenenti alla comunità

islamica44. Nello specifico, tale influenza negativa veniva attuata mediante la

minaccia di gettare discredito all’interno della comunità religiosa nel caso in cui le vittime non rispettassero le regole imposte dall’organizzazione ovvero in estremo di incendiare o danneggiare l’esercizio commerciale: rispetto a tali condotte i giudici di merito ravvisavano invero il ricorso alla forza di intimidazione.

La Corte di Cassazione, ribadendo un principio già enunciato in precedenza45,

giunge a definire un’incompatibilità di fondo tra il reato associativo in questione ed il contesto religioso in cui si sviluppa la vicenda: nel caso in esame infatti la

41 Cass. Pen., Sez. I, 10 luglio 2007, Brusca; secondo la Cassazione dunque la violenza e la minaccia

costituiscono un accessorio eventuale e latente della forza di intimidazione potendo queste derivare dalla semplice esistenza e notorietà del vincolo;

42 Cass. Pen., Sez. VI, 9 luglio 2008;

43 Cass. Pen., Sez. I, 16 maggio 2011, n. 25242;

44 Cass. Pen., Sez. VI, 13 dicembre 1995, n. 4864, Mohamed Tohani Yonnis; 45 Cass. Pen., Sez. II, 9 febbraio 1995, n. 1426, Avanzini;

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soggezione prodotta dal legame associativo non può rientrare nell’ambito della forza di intimidazione, scontrandosi l’impostazione contraria col principio costituzionale della libertà religiosa. Il vizio di fondo quindi sarebbe consistito nell’attribuzione del rilievo intimidatorio alla minaccia di sanzioni connesse alle regole sostanzialmente religiose liberamente accettate dai membri della comunità, per cui non si ritiene possibile affermare la rilevanza penale del sistema percettivo

e sanzionatorio proprio di una fede46. In conclusione, viene confermato l’assunto

per cui non può rilevarsi la capacità di intimidazione del vincolo associativo a meno di non dimostrare l’effettiva prevaricazione ed una significativa incidenza sulla libertà di autodeterminazione anche nei confronti dei soggetti appartenenti al sodalizio, quindi anche a livello interno dell’organizzazione, rispetto alle regole imposte dalla stessa.

È riscontrabile in tal caso una zona grigia per quel che riguarda l’applicabilità del delitto in questione, la cui descrizione normativa è fortemente influenzata da parametri squisitamente sociologici, dal momento che potrebbe risultare estremamente labile il confine tra “soggezione ambientale” quale conseguenza anche indiretta della forza di intimidazione dell’associazione e “variabile culturale”, quale frutto di condizionamenti non derivanti dall’attività criminale ma dalla diversa sensibilità di soggetti dalla provenienza eterogenea per grado di

istruzione, opportunità di esperienze ed interscambi con altri contesti sociali47; da

tale premessa prende le mosse l’orientamento giurisprudenziale e dottrinale che richiede un riscontro esterno e tangibile, nonché indipendente dal dato ambientale,

quale l’effettivo utilizzo della forza di intimidazione48.

46 R.BLAIOTTA, La suprema Corte torna ad occuparsi dei rapporti tra istituzioni religiose ed associazioni criminali, in Cass. Pen., 1996, 3628; secondo l’Autore, tale pronuncia troverebbe

giustificazione nel timore, espresso nella sentenza in commento dai giudici di legittimità, di estendere l’ambito del sindacato giurisdizionale penale sulle attività delle organizzazioni religiose ben oltre i confini dell’antigiuridicità della stessa, fino a comprendere un apprezzamento sul loro contenuto; infatti dinanzi a condotte che incidono severamente sulla sfera personale delle vittime, non è parrebbe plausibile far ricorso al principio costituzionale di laicità.

47 D.NOTARO, Art. 416 bis e “metodo mafioso”: tra interpretazione e riformulazione del dettato normativo, in Riv. It. dir. proc. pen, 1999, 1475;

48 D.NOTARO, Art. 416 bis e “metodo mafioso”, cit., 1475; G.A.DE FRANCESCO, Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, cit., 312; R.CANTONE, Associazione di tipo mafioso, in

Dig. Disc. Pen., 2011, Torino, 32; A.INGROIA, L’associazione di tipo mafioso, in Enciclopedia del

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Da ultimo si rende necessario evidenziare la problematica della riferibilità della forza intimidatrice; sotto tale aspetto, la costante giurisprudenza ritiene essenziale la circostanza che essa promani direttamente dall’associazione in quanto tale, costituendo un “patrimonio” riconducibile all’ente associativo di per sé e non ai singoli affiliati ovvero per meglio dire una sorta di “avviamento” oggettivo, non soggettivo. In altri termini non rileva che taluno dei partecipi incuta soggezione all’esterno per l’efferatezza dei suoi delitti o per il suo prestigio criminale, dovendo la capacità di incutere paura e sudditanza in maniera diffusa essere riferibile

direttamente all’associazione49.

1.3. La c.d. carica intimidatoria autonoma (il passaggio dal “sodalizio

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