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Il primo approdo giurisprudenziale sulla vicenda (Cass Pen N 24535/2015, all’esito del procedimento cautelare)

VICENDA “MAFIA CAPITALE”

2. Il procedimento denominato “Mafia Capitale” e l’interpretazione estensiva dell’art 416 bis

2.1. Il primo approdo giurisprudenziale sulla vicenda (Cass Pen N 24535/2015, all’esito del procedimento cautelare)

La Corte di Cassazione, quale giudice di ultima istanza del procedimento de

libertate, ha scelto di approcciare alle censure avanzate dai ricorrenti prendendo

spunto dalla copiosa giurisprudenza attinente le nuove organizzazioni criminali di stampo mafioso e fissando un articolato principio di diritto.

Trattandosi di un procedimento cautelare, i giudici si trovano a decidere della delicata questione solo relativamente ai “gravi indizi di colpevolezza” ai sensi

dell’art. 273, primo comma106 del codice di procedura penale, e quindi al solo fine

di accertare la consistenza del quadro indiziario per l’adozione di una misura cautelare personale; in sintesi, la colpevolezza dell’imputato, aldilà di ogni

ragionevole dubbio107, sarà oggetto di una diversa valutazione del giudice sulla base

del materiale probatorio che abbia passato il vaglio del dibattimento108.

Secondo il Supremo Collegio dunque “ai fini della configurabilità del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo dalla quale derivano assoggettamento ed omertà può essere diretta tanto a minacciare la vita o l’incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti.

105 F. MANTOVANI, Mafia: la criminalità più pericolosa, cit., 14;

106 Art. 273, primo comma c.p.p. : “Nessuno può essere sottoposto a misura cautelare se a suo carico

non sussistono gravi indizi di colpevolezza”;

107 Art. 533 c.p.p., primo comma: “Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta

colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio. Con la sentenza il giudice applica la pena e le eventuali misure di sicurezza”;

108 G. CONSO,V.GREVI,M.BARGIS, Compendio di procedura penale, Padova, 2015, 364; oltre ai

gravi indizi di colpevolezza, è necessario che il giudice accerti la sussistenza di una delle esigenze cautelari sancite dall’art. 274 c.p.p.;

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Ferma restando una riserva di violenza nel patrimonio associativo, tale forza intimidatrice può venire acquisita con la creazione di una struttura organizzativa che, in virtù di contiguità politico-elettorali, con l’uso di prevaricazioni e con una sistematica attività corruttiva, esercita condizionamenti diffusi nell’assegnazione di appalti, nel rilascio di concessioni, nel controllo di settori di attività di enti pubblici o di aziende parimenti pubbliche, tanto da determinare un sostanziale annullamento della concorrenza o di nuove iniziative da parte di chi non aderisca o non sia

contiguo al sodalizio”109.

La preoccupazione dei giudici, nel sancire il principio appena menzionato, è stata quella di respingere ab initio le obiezioni che potevano essere avanzate rispetto al delitto dell’associazione mafiosa, fra le quali quella consistente nella impossibilità

di applicare la norma a fenomeni criminali nati in contesti non tradizionali110; in

altri termini si è voluta ribadire la ratio, sottesa all’art. 416 bis, di dettare normativamente una fisionomia generale applicabile a qualsiasi associazione che si avvalga del metodo mafioso ed indipendentemente dal contesto-storico geografico

di appartenenza111. Proprio a sostegno di tale affermazione, nella pronuncia viene

richiamata la sentenza Hsiang concernente le “piccole mafie”: lo schema normativo dunque comprenderebbe anche quelle consorterie criminali di modeste dimensioni organizzative (essendo sufficienti almeno tre appartenenti) e finanziarie e che rivolgono la forza d’intimidazione tipica verso un limitato territorio o un

circoscritto settore di attività112.

Il Supremo Collegio poi prosegue in via sistematica affrontando le questioni nell’ordine che segue: prima fra tutte quella relativa al prestigio criminale dell’associazione (rectius, carica intimidatoria autonoma), per poi concentrarsi sull’esercizio della forza d’intimidazione acquisita nel tempo, da cui sarebbero derivate le condizioni di assoggettamento ed omertà, e sull’influenza esercitata in

ambito istituzionale mediante accordi di tipo corruttivo-collusivo113.

109 Cass. Pen., Sez. VI, 10 aprile 2015, n. 24535, Mogliani e altri; 110 C. VISCONTI, A Roma una mafia c’è. E si vede.., cit, 3;

111 L. BARONE, Associazione di tipo mafioso e concorso esterno, in Cass. Pen., 2016, 104; A.

APOLLONIO, Rilievi critici sulle pronunce di “Mafia Capitale”, cit., 129;

112 Cass. Pen., 30 maggio 2001, Hsiang Khe Zhi, con nota di G. GIORGIO, in Il Foro It.alian, 247,

2004;

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Innanzitutto, è necessario premettere come nel caso concreto venga riproposta, sia

nell’atto di accusa della magistratura inquirente114 sia nell’ordinanza cautelare

emessa dal giudice delle indagini preliminari115, la tesi secondo cui un’associazione

può essere etichettata come mafiosa quando abbia sviluppato intorno a sé una “carica di intimidazione diffusa ed autonoma” la quale per un verso costituisce il risultato di una pregressa fase evolutiva del sodalizio, in cui i membri praticano una strategia di violenza ed intimidazione proprio al fine di porre in essere e consolidare il prestigio criminale del vincolo associativo, e per altro verso deve ingenerare una stato di assoggettamento a prescindere da concreti atti intimidatori.

In conclusione, la forza d’intimidazione deve essere ricollegata esclusivamente al

vincolo associativo e non ad altri fattori116.

È questo dunque il percorso logico-ermeneutico seguito dalla giurisprudenza per accertare la “mafiosità” di un gruppo criminale.

Secondo quanto sostenuto dalla Sesta Sezione della Suprema Corte, quindi, la compagine criminale romana (o per meglio dire, quel primo nucleo operante nel settore dell’usura e dell’estorsione) trarrebbe il suo prestigio da “un’eredità criminale complessa, dunque, e sedimentatasi a strati, lentamente entro un lungo arco temporale, il cui lascito, sempre vivo ed attuale, si è perpetuato nella nuova realtà associativa scaturita dalla fusione con il gruppo [operante nei gangli della Pubblica Amministrazione] del Buzzi, costituendone un’indispensabile riserva di violenza percepibile all’esterno e, per certi versi, un valore aggiunto cui ricorrere,

se necessario per perseguire ed attuare gli scopi del sodalizio”117. La pronuncia in

esame chiarisce come la carica intimidatoria autonoma del sodalizio affonderebbe

114 Requisitoria della pubblica accusa, relative al procedimento n. 12621/2015, R.G. Dib., 34; G.

PIGNATONE,M.PRESTIPINO, Modelli criminali, cit., 110;

115 T.GUERINI, Dei delitti contro l’ordine pubblico, in Codice penale commentato, A. CADOPPI,S.

CANESTRARI,P.VENEZIANI (a cura di), Torino, 2018, 1509; è lo stesso Autore che osserva come nell’ordinanza, emessa dal GIP di Roma in data 28 novembre 2014, venga assimilata l’autorevole dottrina espressa da G. TURONE, in particolare nella parte in cui si legge che “ogni associazione di tipo mafioso ha alle spalle un precedente (e concettualmente distinto sodalizio – matrice, con originario programma di delinquenza in parte finalizzato proprio alla produzione della ‘carica intimidatoria autonoma’”;

116 G. TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2015, 129; A. INGROIA, L’associazione di tipo mafioso, Milano, 1993; G.A. DE FRANCESCO, Associazione a delinquere e associazione di

tipo mafioso, in Dig. Disc. Pen., Torino, 1987, 310;

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le sue radici nel passato criminale di uno degli esponenti di spicco della consorteria, quale Massimo Carminati, di cui viene rilevata un’ “eccezionale notorietà criminale” in ragione della sua passata appartenenza a gruppi eversivi di estrema destra e della connivenza con un’associazione criminale operante a Roma a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta denominata “Banda della Magliana”, di cui venivano riprodotti

il modello organizzativo e le metodologie operative118. Tale prestigio criminale

sarebbe stato trasfuso anche nei soggetti operanti nel circuito istituzionale ed

imprenditoriale a seguito della fusione tra i due gruppi119. È chiaro dunque che,

secondo tale ricostruzione del quadro indiziario, la fama criminale non possa definirsi come patrimonio appartenente al vincolo associativo, in palese contrasto con il principio della impersonalità della forza di intimidazione così come sancito

sia dalla dottrina120 sia dalla giurisprudenza121 conformemente al dettato normativo.

In aggiunta, le vicende giudiziarie connesse alla sussunzione della “Banda della Magliana” all’interno dell’art. 416 bis risultano contraddittorie: infatti la Cassazione, con sentenza emessa il 24 marzo 1999, aveva riconosciuto la qualificazione mafiosa del sodalizio criminoso, a differenza però di quanto deciso dalla Corte d’Assise di appello che aveva escluso nello stesso frangente la

configurabilità del delitto di associazione mafiosa122.

118 C. VISCONTI, La mafia è dappertutto.. Falso!, 2016, Bari, 19; ID., A Roma una mafia c’è. E si vede.., www.dirittopenalecontemporaneo.it, 2015, 4;

119 Cass. Pen., Sez. VI, 10 aprile 2015, n. 24535, Mogliani e altri; la Corte indica alcuni elementi

sintomatici riguardanti la presunta fusione dei due gruppi criminali, tra cui il ruolo decisionale svolto da Carminati nella gestione delle società cooperative di Buzzi, l’utilizzo di dispositivi elettronici adottati al fine di eludere le investigazioni, la ripartizione dei profitti conseguiti dall’aggiudicazione delle gare;

120 G. TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2015, 129; G.M. FLICK, L’associazione a delinquere di tipo mafioso. Problemi proposti dall’art. 416 bis c.p., in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1988,

855; A. INGROIA, L’associazione di tipo mafioso, in Enc. dir., Milano, 1997; R. CANTONE,

Associazione di tipo mafioso, in Dig. Disc. Pen., Torino, 2011, 30;

121 Cass. Pen., Sez. VI, 23 giugno 1999, n. 2402; per cui la forza di intimidazione deve promanare

impersonalmente dal consorzio criminoso, con al conseguenza che risulta irrilevante la circostanza che alcuno dei partecipi esprima di per sé e proietti anche all’esterno un’influenza negativa idonea ad esercitare soggezione nelle persone investitene; Cass. Pen., Sez. VI, 3 gennaio 1996, n. 7627, in Cassazione penale, 1997, 3384; con riguardo ad un gruppo sociale costituitosi a seguito di diaspora da altra consorteria, la suprema Corte ha ritenuto non sufficiente l'accertamento di forza prevaricatrice riferibile all'associazione madre e ad un socio che di questa era stato uno dei capi; Cass. Pen., Sez. VI, 11 gennaio 2000, n. 1612, Ferone; nella pronuncia citata si legge il principio per cui allorchè “la forza di intimidazione sia soltanto la risultante delle qualità soggettive di alcuni componenti del sodalizio, si potrà ipotizzare un’associazione a delinquere comune, ma non certo un’associazione per delinquere di tipo mafioso”;

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Altra questione affrontata dai giudici di legittimità concerne appunto il consolidamento di tale forza di intimidazione a seguito dell’infiltrazione del primitivo nucleo associativo nelle stanze del potere istituzionale capitolino in ragione di una rete di contatti con figure operanti nel ramo politico ed imprenditoriale; ed anche in tal caso viene evidenziata la necessità di valutare la sussistenza del potere intimidatorio da parte dell’associazione tenendo conto delle

peculiarità del contesto in cui questo viene esercitato123, corrispondente nel caso di

specie ad una “realtà politica, economica e sociale come quella della Capitale, evidentemente connotata da una particolare fluidità delle relazioni cointeressenze

la cui vischiosità non pare riscontrabile in altre aree territoriali”124. Per tale motivo

il sodalizio avrebbe agito nelle “vesti di un comune corruttore”: in altri termini, la forza di intimidazione normativamente fissata per le associazioni mafiose avrebbe ceduto il passo ad un sistematico asservimento di funzionari infedeli e per di più sarebbe stata relegata ad una riserva di violenza cui eventualmente ricorrere in caso

di ritrosia da parte dei pubblici amministratori125. Sembra evidente come si faccia

dunque riferimento all’intenzione di avvalersi della forza intimidatrice del vincolo associativo: tale impostazione, come nel caso della sentenza Fasciani, mal si concilia sia con la giurisprudenza maggioritaria in tema di nuove mafie, per le quali è ritenuta indispensabile la prova dell’esteriorizzazione della forza di intimidazione

(che pertanto non può essere meramente potenziale)126, sia rispetto a quanto sancito

dal Primo Presidente della Corte di Cassazione il quale, nell’ordinanza menzionata nei paragrafi precedenti, aveva ribadito come fosse necessaria la prova di

un’esternazione del metodo mafioso127.

Al fine di risolvere l’annosa questione di una possibile assenza di assoggettamento ed omertà ingenerati nei pubblici funzionari, la Cassazione ha in aggiunta precisato

123 L. BARONE,A.SALEMME, Il reato di associazione mafiosa, in Cassazione penale, 2018, 160; F.

SALVIANI, Osservazioni a Cass. Pen., Sez. VI, n. 57896, in Cassazione penale, 2018, 2003;

124 Cass. Pen., Sez. VI, 10 aprile 2015, n. 24535, Mogliani e altri;

125 A. APOLLONIO, Rilievi critici sulle pronunce di “Mafia Capitale”, cit. 130;

126 Cass. Pen., Sez. V, 3 marzo 2015, n. 31666; Cass. Pen., Sez. VI, 28 dicembre 2017, n. 57896; 127 L. FORNARI, Il metodo mafioso: dall’effettività dei requisiti al “pericolo d’intimidazione” derivante da un contesto criminale, www.dirittopenalecontepmoraneo.it , 2015, 28; appare opportuno riportare il passaggio dell’ordinanza del Primo Presidente nella parte in cui si legge come la forza d’intimidazione debba essere “non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva ed obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano in contatto con i suoi componenti”;

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che la forza di intimidazione non ha agito nei confronti dei pubblici funzionari per influenzarne le scelte, ma è servita per indurre a favorire il gruppo mediante una strategia corruttiva in modo da alterare il buon andamento e l’imparzialità della

Pubblica Amministrazione128; dunque la pressione intimidatoria del sodalizio

sarebbe stata sofferta non dai funzionari pubblici, che quindi non dovrebbero essere considerati alla stregua di vittime ma di soggetti contigui all’associazione, ma dagli

imprenditori concorrenti nel settore economico preso di mira dal sodalizio129.

Sotto tale prospettiva si pongono due ordini di problemi: in primo luogo, vi sarebbe un’inconciliabilità di fondo tra metodo mafioso, il cui esercizio produce una lesione della libertà di autodeterminazione della vittima, e accordo corruttivo, che

presuppone al contrario una posizione paritaria tra le parti130; in secondo luogo, la

cerchia delle vittime così individuata sarebbe eccessivamente esigua sì da rendere

difficile provare l’esistenza di uno stato di assoggettamento e di omertà131.

In tal senso la Corte aveva postulato la sussistenza di “una situazione di assoggettamento talmente radicata e pervasiva di fronte alla quale nessuno, in sede politica ovvero giudiziaria, sia essa penale o amministrativa, ha mai osato innalzare

una voce di dissenso”132, ammettendo come la diffusività del fenomeno corruttivo

avrebbe eliso ogni capacità di reazione da parte degli organi di prevenzione e

controllo133.

Senonché a parere dello scrivente parrebbe emergere una lacuna concettuale all’interno del ragionamento logico portato avanti dalla Corte regolatrice: anche

128 L. BARONE, Associazione di tipo mafioso e concorso esterno, in Cass. Pen., 2016, 90;

129 A. APOLLONIO, Rilievi critici sulle pronunce di “Mafia Capitale”, cit. 130; L. BARONE, Associazione di tipo mafioso e concorso esterno, cit., 109;

130 S. SEMINARA, Gli interessi tutelati nei reati di corruzione, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1993, 976;

M. ROMANO, I delitti contro la Pubblica Amministrazione, Milano, 2013, 134;

131 L. BARONE, Associazione di tipo mafioso e concorso esterno, cit., 130;

132 Cass. Pen., Sez. VI, 10 aprile 2015, n. 24535, Mogliani e altri; secondo la Corte la reiterazione

sistematica delle prassi corruttive “da un lato ha contribuito ad incrementare la ‘fama criminale’ di cui godeva l’organizzazione, che ha potuto far leva, specie con riferimento agli imprenditori che non hanno inteso adeguarsi alle regole del mercato illegale, sull’aura di invincibilità che gli proveniva dalla fitta rete di sostegno offertale da una cerchia di pubblici funzionari stabilmente asserviti; dall’altro lato, si è rivelata funzionale all’incremento di relazioni omertose, consolidandone lo spessore attraverso il ricatto di un possibile reciproco coinvolgimento in una denuncia penale, ove si consideri che il disvalore dell’azione corruttiva è sempre riposto nella garanzia della reciproca segretezza dello scambio di consensi che lega i protagonisti del patto illecito”;

133 L. BARONE, Associazione di tipo mafioso e concorso esterno, cit., 109; A. APOLLONIO, Rilievi critici sulle pronunce di “Mafia Capitale”, cit. 130

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accettando il presupposto per cui non vi sarebbe una incompatibilità logico- giuridica tra metodo mafioso e prassi corruttiva, la carica intimidatoria autonoma del sodalizio troverebbe la sua fonte al contempo, da una parte, in una forza d’intimidazione non diffusa ma anzi che viene esercitata nei confronti di pochi soggetti ed in determinati settori, dall’altra in una strategia corruttiva finalizzata non a condizionare “le attività svolte dai pubblici funzionari corrotti [..] quanto invece a creare e mantenere all’esterno le condizioni di una conventio ad

excludendum volta ad impedire ogni possibilità di libera partecipazione alle gare

pubbliche da parte di imprese che non intendano conformarsi al sistema di regole

imposte dall’organizzazione criminale”134.

In altri termini, le condizioni di assoggettamento ed omertà non sarebbero conseguenze direttamente legate alla forza di intimidazione esercitata su una cerchia ristretta di vittime, ma costituirebbero un effetto dovuto all’asservimento dei pubblici funzionari agli interessi dell’associazione e dunque alle strategie corruttive della stessa; il baricentro del problema si sposta su una inconciliabilità non tra metodo mafioso ed accordo corruttivo, ma tra “non diffusività” della forza di intimidazione e diffusività del fenomeno corruttivo stesso.

In questo senso verrebbe completamente spezzato il nesso causale tra assoggettamento ed intimidazione, così come sancito dalla norma incriminatrice; la prima infatti sarebbe diretta emanazione di una prassi corruttiva collaudata e non di una capacità intimidatoria propria del sodalizio.

Pertanto, come rilevato anche in dottrina, non sembrerebbe potersi sostenere l’assunto per cui la carica intimidatoria derivi esclusivamente dalla pervasività del fenomeno corruttivo originato dall’associazione mafiosa per così dire “giovane”, la quale non avendo ancora costruito un suo patrimonio di intimidazione, non può non far ricorso concretamente ad un’intimidazione esplicita e sistematica per ingenerare

nelle vittime quello stato di soggezione rilevante ai fini dell’art. 416 bis135.

134 Cass. Pen., Sez. VI, 10 aprile 2015, n. 24535, Mogliani e altri;

135 A. APOLLONIO, Rilievi critici sulle pronunce di “Mafia Capitale”, cit., 125; I. MERENDA,C.

VISCONTI, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell’art. 416 bis tra teoria e diritto vivente, cit., 10; G. CANDORE, Il “mosaico spezzato”: da “mafia capitale” a “corruzione capitale”, in

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Questi dubbi interpretativi vengono accentuati dalla stessa Corte, la quale ritiene integrato il delitto associativo mafioso anche ove la forza intimidatrice venga acquisita “con l’uso di prevaricazioni e con una sistematica attività corruttiva”: sembra dunque che a seconda che l’associazione eserciti l’uno o l’altro metodo ci si riferisca a diverse platee di vittime, non suscettibili di rientrare in un concetto unitario di collettività ad ulteriore sostegno di una inesistenza o quantomeno flebile

forza di intimidazione136.

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