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CAPITOLO II – I CARATTERI DEL METODO MAFIOSO

1. Il requisito della forza intimidatrice del vincolo associativo

1.1. L’essenzialità dell’elemento organizzativo

Prendendo in considerazione la dimensione collettiva di tale delitto, è pacifico come questo debba poggiarsi sul requisito dell’organizzazione, nonostante non venga menzionato dall’articolo in esame; tale lacuna in realtà sarebbe dovuta alla difficoltà di definire a livello empirico i caratteri strutturali dell’organizzazione mafiosa, propendendo per una fattispecie che focalizzasse la propria attenzione

sulla proiezione esterna della stessa e quindi sul modus operandi10. In sintesi,

trattandosi di un reato associativo, è necessario postulare un’organizzazione, i cui caratteri possono essere descritti in base alle conclusioni raggiunte con riferimento all’art. 416, rimediando in tal modo all’assenza di un’espressa indicazione

legislativa11. Si deve quindi far riferimento ad una complessità organizzativo –

strutturale stabile e permanente, che possa perpetuarsi nel tempo e rimanere

7 R.CAPPITELLI, Brevi considerazioni intorno alla nozione di “Associazione di tipo mafioso” e all’interpretazione dell’art. 416 bis ultimo comma, in Cass. Pen., 2011, 1734; nei lavori preparatori

infatti si evince come l’originaria intitolazione fosse “Associazione mafiosa”;

8 Cass. Pen., Sez. I, 11 aprile 1983, Giuliano;

9 G.SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1997, 64; secondo cui già con riferimento

alla proposta di legge emergerebbe “la volontà di prendere in considerazione non una macro – organizzazione mafiosa, ma ogni micro – organizzazione di quel tipo”;

10 F.ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale, Vol. II,C.F.GROSSO (a cura di), Milano

2015, 115;

11 G.NEPPI MODONA, Il reato di associazione mafiosa, in Democrazia e diritto, 1983, 48; per i reati

associativi di natura politica e per il reato di associazione mafiosa “la scarsa significatività degli scopi deve essere controbilanciata da una individuazione più pregnante della struttura dell’associazione”;

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indipendente rispetto all’attività preparatoria ed esecutiva dei delitti – fine12, nonché

ritenersi idonea ad attuare il programma criminoso13.

A conferma di quanto appena specificato, autorevole dottrina ha propugnato la tesi per cui l’associazione di tipo mafioso sia la risultante di un precedente sodalizio, dotato di un’autonoma impalcatura organizzativa ma ancora senza quel grado di

offensività tipico degli aggregati mafiosi14.

Da ciò discende dunque la considerazione per cui il metodo mafioso funge da “elemento unificante” dell’organizzazione mafiosa. Di conseguenza sono da respingere le tesi avanzate in dottrina per cui il requisito modale dell’uso della forza di intimidazione varrebbe a sostituire l’elemento dell’organizzazione sia da un

punto di vista sostanziale15, in quanto l’utilizzo della locuzione “associazione” in

luogo di “gruppo” rende manifesta la voluntas legis di postulare l’esistenza di un apparato strutturale, sia da un punto di vista processuale, per cui la prova della suddetta organizzazione non può ritenersi soddisfatta mediante la verifica in

concreto del ricorso alla forza intimidatrice16.

Un arresto giurisprudenziale sul tema è costituito dalla pronuncia dei giudici di

legittimità che concluse la vicenda del c.d. Maxiprocesso17, il cui esito costò la vita

ai giudici istruttori Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; la Suprema Corte infatti, oltre a confermare l’assunto della struttura unitaria e verticistica del fenomeno

mafioso di Cosa Nostra propugnato dalla giurisprudenza di merito18, valorizzò

l’elemento organizzativo dell’associazione quale substrato giuridico mediante il quale la stessa esprime la forza criminale data dal metodo mafioso e al contempo

12 G.A.DE FRANCESCO, Societas sceleris. Tecniche repressive delle associazioni criminali, in Riv. It. dir. proc. pen, 1992, 54; ID., Associazione a delinquere e associazione di tipo mafioso, in Dig.

Disc. Pen., Torino, 1987, 312;

13 A.INGROIA, L’associazione di tipo mafioso, in Enc. Dir., Milano, 1997, 135; secondo cui infatti

non può esservi un’associazione senza organizzazione, per cui la sussistenza dell’elemento organizzativo deve essere autonomamente dimostrato;

14 G.TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2015, 130;

15 NEPPI MODONA, Il reato di associazione mafiosa, in Democrazia e diritto, 1983, 50;

16 G.FIANDACA, L’associazione di tipo mafioso nelle prime applicazioni giurisprudenziali, in Il Foro Italiano, 1985 301;

17 Cass. Pen., Sez. I, 30 gennaio 1992, Abbate e altri, con nota di G.FIANDACA,G.DI CHIARA, Il Foro Italiano, 1993, 15;

18 Cass. Pen., Sez. I, 18 aprile 1995, Farinella e altri; contro la tesi sostenuta nella sentenza Abbate,

la stessa Cassazione ricostruirà in maniera parzialmente diversa la realtà organizzativa dell’associazione mafiosa, costituita, a differenza di quanto sostenuto nella sentenza conclusiva del Maxiprocesso, da più entità distinte ed autonome anche se caratterizzata dall’osservanza di metodi comuni e da rapporti di coordinazione e collegamento;

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grazie al quale è possibile attribuire la responsabilità penale dei membri

dell’organismo di vertice con riferimento ai delitti c.d. “eccellenti”19, elencando in

maniera esemplificativa alcuni elementi sintomatici dell’organizzazione mafiosa (tra cui l’assoluto vincolo gerarchico, la religione dell’omertà, i riti di iniziazione e di promozione dei capi, l’uso di un linguaggio oscuro e convenzionale, l’accollo delle spese di giustizia). In continuità con i principi sanciti in questa decisione, la costante giurisprudenza di legittimità ha da sempre sottolineato l’essenzialità del requisito strutturale sempre partendo dal presupposto per cui l’elemento specializzante dell’associazione mafiosa rispetto all’associazione a delinquere

tradizionale sia costituito dalla forza di intimidazione20. Da qui la necessità che la

compagine mafiosa sia dotata di una forma organizzativa connotata da particolare

intensità e stabilità e quindi non rudimentale21, al contrario di quanto afferma

talvolta la giurisprudenza con riferimento al reato di cui all’art. 416 c.p.; sotto tale prospettiva, appaiono quindi da condividere i dubbi sulla circostanza che l’associazione mafiosa possa ritenersi integrata anche soltanto da tre persone, stante

la complessità strutturale e gerarchica propria delle consorterie mafiose22.

Attinente sempre all’elemento organizzativo, e dunque meritevole di essere

esaminata, è la circostanza aggravante speciale oggettiva23 sancita dal comma

19 G.CANZIO, Responsabilità dei partecipi nei singoli reati – fine: l’evoluzione giurisprudenziale negli anni 1970-1995, in Cass. Pen., 1996, 3163; sul tema della responsabilità concorsuale dei capi

e dei dirigenti componenti della c.d. “Commissione provinciale” o “Cupola”, i giudici di merito avevano affermato la necessità di dimostrare non solo una “deliberazione autorizzativa esplicita o tacita” dell’organismo, ma anche di un ulteriore criterio di specifico collegamento tra ciascun delitto – fine e la “misura del comportamento interno” all’organo di vertice del singolo membro portatore di specifici interessi rispetto alla commissione del reato, così da evitare il ricorso ad una sorta di responsabilità “collegiale” (a meno di considerare gli altri membri alla stregua di concorrenti morali); la Corte di Cassazione aveva rilevato nella sentenza impugnata il vizio logico- motivazionale afferente all’individuazione dell’iniziativa di ciascuno di tali crimini in capo soltanto a quei membri della “cupola” aventi specifico interesse all’eliminazione fisica della vittima sotto i profili della settorialità degli interessi strategici coinvolti (senza considerare gli effetti controproducenti per l’intera organizzazione a seguito dell’esecuzione del crimine) e della reale portata del “consenso tacito o passivo” con il quale l’intera commissione avrebbe avallato la consumazione del delitto;

20 Cass. Pen., Sez. II, 19 marzo 1992, D’Alessandro; 21 Cass. Pen., Sez. VI, 1 marzo 2017, n. 27094;

22 G.TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2015, 187; A. INGROIA, L’associazione di tipo mafioso, Milano, 1993, 19; R.CANTONE, Associazione di tipo mafioso, in Digesto disciplinare

penalistico, 2011, Torino, 30;

23 G.TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2015, 186; ai sensi dell’art. 70 del codice

penale, essa viene valutata a carico di tutti i membri del sodalizio sempre che ricorrano le condizioni di cui all’art. 59, comma secondo, quindi che gli altri sodali siano stati a conoscenza di tale disponibilità o l’abbiano ignorata per colpa o per errore determinato da colpa;

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quarto dell’art. 416 bis e concernente l’ipotesi dell’associazione di tipo mafioso armata; essa sussiste infatti “quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento ella finalità dell’associazione, di armi e materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito”. Essa quindi ricorre anche se armi ed esplodenti non vengano concretamente utilizzati né messi in mostra, essendo sufficiente che queste si trovino nella sfera di utilizzabilità da parte dei membri dell’associazione. La formulazione del quarto comma non influisce sugli elementi costitutivi del reato associativo, rendendo possibile la configurazione dello stesso

anche quando non vi sia la prova della disponibilità di armi24. Ciò coerentemente

con l’intento del legislatore di delineare un paradigma di associazione mafiosa più ampio di quello incentrato sulla coercizione fisica, giacché dall’esperienza giudiziale si è assistito ad organizzazioni criminali in grado di imporre il proprio

potere intimidatorio anche senza ricorrere all’uso delle armi25. Quest’ultima

considerazione non si ripropone nei procedimenti aventi a oggetto le “mafie storiche”, in quanto la disponibilità di armi si presenta come “coessenziale al fatto

base”26; pertanto non solo dall’esperienza storica ma anche dalle risultanze

processuali risulta consolidato il costante ricorso alle armi da parte dei gruppi

criminali27. Risulta evidente la stretta relazione esistente tra l’aggravante citata e

l’apparato strumentale proprio della compagine mafiosa: essa infatti può ricorrere ove si dimostri che la disponibilità di armi o esplosivi, così come la carica

24 G.TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2015, 192; secondo l’Autore, il fatto che

in tema di criminalità comune e anche mafiosa il carattere armato dell’associazione venga concepito non come elemento strutturale del reato deriva probabilmente da un retaggio storico, per cui tradizionalmente l’uso delle armi da parte della criminalità comune era considerato un fatto eccezionale;

25 App. Genova, 17 dicembre 1990, Teardo e altri, in Rivista italiana di diritto e procedura penale,

1992; le condizioni di assoggettamento ed omertà possono derivare non solo dalla paura di attentati all’integrità personale ma anche dal timore di danni economici rilevanti, quali l’impossibilità di continuare a svolgere la propria attività economica;

26 F.BRICOLA, Premessa al commento articolo per articolo della legge n. 646/1982, in Leg. Pen.,

1983, 235; G.FIANDACA, Commento all’art. 1 della legge 646/1982, in Leg. Pen., 1983, 255; G.DE FRANCESCO, Associazione a delinquere e associazione di tipo mafioso, in Dig. Disc. Pen.alistico, 1987, 312;

27 Cass. Pen., Sez. I, 18 aprile 1995, Farinella e altri; secondo la Suprema Corte infatti la disponibilità

di armi da parte di un’associazione mafiosa, nella specie Cosa Nostra, è da considerare alla stregua di un “fatto notorio non ignorabile” che trova fondamento nell’esperienza storica e giudiziaria;

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intimidatoria propria del gruppo, sia finalizzata al conseguimento delle finalità

dell’associazione28.

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