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Berruto (1987) fa risalire al saggio di Pellegrini “Tra lingua e dialetto in Italia” il primo tentativo di modellizzazione dell’architettura variazionale dell’italiano contemporaneo (Pellegrini 1960)11.Secondo Pellegrini ogni ipotetico parlante medio di italiano ha a disposizione quattro registri o “tastiere”, identificati in “dialetto locale, dialetto regionale [o koinè dialettale], italiano regionale e italiano comune [o standard] […] ed è ancora in grado di poterli utilizzare tutti e quattro in determinate circostanze” (Pellegrini 1975: 37). Come si nota subito, la modellizzazione di

11 L’etichetta “architettura della lingua” deve la sua nascita a Coseriu, il quale scelse questa definizione

Pellegrini mette al centro del discorso la differenziazione diatopica, giudicata il principale asse di variazione presente in territorio italiano12, ma si preoccupa di tenere in considerazione anche la dimensione diafasica, ponendo l’accento su come il parlante virtuale sia in grado di scegliere la “tastiera” adeguata a ogni situazione comunicativa. Anche a livello intuitivo si sa però che non è sufficiente considerare la diafasia e la diatopia come unici assi della variazione. Diversi studiosi, da Pellegrini in poi, hanno quindi cercato di proporre dei modelli che permettessero di identificare i vari livelli in cui si articola il repertorio linguistico nazionale13. Alcune di queste proposte hanno tenuto in particolare conto la differenziazione diatopica, riguardante però solo la parte dialettale del repertorio. Ad esempio Mioni (1975) distingue tra italiano aulico - italiano parlato formale - italiano colloquiale-informale - dialetto di koinè e/o dello stile più elevato - dialetto del capoluogo di provincia - dialetto locale; Mioni (1983) distingue invece tra standard formale - standard colloquiale-informale - italiano regionale - italiano popolare regionale - dialetto formale - dialetto informale urbano - dialetto informale rurale, anche in questo modello attribuendo marcatezza diatopica solo alle parlate dialettali. Sobrero & Romanello (1981) impostano la distinzione secondo criteri diversi, e postulando dinamiche di scambio tra l’italiano comune basso e l’italiano regionale alto: gli autori identificano tre varietà (italiano comune, italiano regionale e dialetto) a loro volta articolate in due livelli. Si hanno così: italiano comune alto (non marcato in diatopia) - italiano comune basso (marcato in diatopia) - italiano regionale alto (regionale o interregionale in senso lato) - italiano regionale basso (regionale o locale in senso stretto) – dialetto alto (di koinè) – dialetto basso (rurale). La classificazione di Trumper & Maddalon (1982) mette in campo anche l’asse diamesico, escludendo la dimensione diatopica dall’uso scritto. Le varietà dell’uso scritto sarebbero: italiano standard - italiano substandard - italiano interferito substandard – dialetto letterario per l’uso scritto; per l’uso orale si avrebbero invece

12 “Ogni italiano è capace di riconoscere se il proprio interlocutore è settentrionale, dell’Italia centrale,

meridionale, siciliano o sardo. Bastano spesso poche parole per coglierne le caratteristiche linguistiche. Talvolta è la scelta delle parole a svelare la provenienza della persona con cui si sta parlando, talvolta è la sintassi; ma il più delle volte è l’uso di certe caratteristiche fonetiche o, ancora più spesso, è l’intonazione” (Grassi, Sobrero & Telmon 2003: 149)

13 Per una rassegna critica sui vari modelli proposti si rimanda a Berruto (1987) e alla tavola sinottica in

italiano regionale formale – italiano regionale informale – italiano regionale trascurato fortemente interferito – dialetto di koinè – dialetto urbano – patois locali. La classificazione pare avere il suo focus negli assi diafasico e diamesico, ma soprattutto fa emergere come per i due autori non esista uno standard parlato che non sia regionalmente interferito: per Trumper & Maddalon (1982) un italiano standard privo di coloritura locale sembra possibile solo nello scritto.

Si è già detto come molti di questi modelli, come Mioni (1975, 1983), pongano l’accento sulla variazione diatopica solo per quanto riguarda il dialetto; l’asse di variazione diamesico invece, è trascurato in alcuni modelli mentre diviene preponderante nella classificazione di Trumper & Maddalon (1982). Per queste ragioni, il modello di architettura dell’italiano proposto da Gaetano Berruto (1987) è risultato essere il più efficace, in grado di tenere conto, differenziandoli, di tutti gli assi della variazione, e al contempo mostrando come essi siano in parte interdipendenti. Lo schema che Berruto usa per visualizzare sinteticamente il proprio modello (cf. infra, figura 3) permette di osservare il rapporto esistente tra le dimensioni della diastratia, della diafasia e della diamesia, sottintendendo la dimensione diatopica (la quale non viene rappresentata, ma messa sullo sfondo e considerata come esistente a priori) e tralasciando la dimensione diacronica. È importante sottolineare che lo schema rappresenta una situazione fluida e dinamica, per cui è possibile identificare con relativa facilità le varietà poste agli estremi di ogni asse di variazione, mentre quelle intermedie tendono a sfumare l’una verso l’altra in un “continuum con addensamenti”. È cioè una situazione rappresentata da “un insieme di varietà non discrete, orientato ma non polarizzato, in cui le diverse varietà coincidono con addensamenti dei fasci di tratti lungo il continuum, in maniera che gli addensamenti principali possono trovarsi anche non agli estremi del continuum” (Berruto 1987(2006): 29).

Figura 3- L’architettura variazionale dell'italiano secondo Berruto (1987).

Ogni parlante è virtualmente in grado di spaziare lungo i diversi assi variazionali, e la sua capacità di muoversi in spazi più ampi o più ristretti rifletterà direttamente la sua competenza sociolinguistica. Questo movimento non deve essere però inteso in maniera lineare, come un progressivo avvicinarsi o allontanarsi dallo standard: l’orientamento dei parlanti all’interno dello schema riflette infatti la compresenza di norme di riferimento molteplici, per cui i soggetti si orienteranno di volta in volta verso diverse norme “attorno alle quali vengono anche costruiti complessi sistemi di autoidentificazione sociale” (D’Agostino 2007:118). Ad esempio,

ogni parlante può avere virtualmente a disposizione l’intera gamma della variazione diafasica, scegliendo di volta in volta la forma più adeguata alla precisa situazione comunicativa. La distanza sociale e il rapporto che intercorre con i nostri interlocutori influenzano la scelta della forma più opportuna, facendoci optare ad esempio per una forma più colloquiale come me passi er sale? con una persona con cui abbiamo un rapporto più stretto rispetto a un più formale potrebbe passarmi cortesemente il sale? con un interlocutore appena incontrato a una cena di lavoro (D’Agostino 2007). Come visto nell’esempio, la forma più colloquiale è caratterizzata anche da una maggiore regionalità (nel caso specifico la varietà di italiano parlata a Roma). Nel momento in cui la forma regionalmente marcata, come me passi er sale? viene usata in situazioni comunicative inappropriate (come ad esempio in una situazione caratterizzata da distanza sociale fra i due interlocutori e da alta formalità), il parlante mostra una scarsa competenza sociolinguistica che può rimandare direttamente alla sua collocazione lungo l’asse diastratico: un parlante anziano, con un basso livello di istruzione, potrebbe non padroneggiare la lingua standard e non essere in grado di evitare pronunce troppo regionali anche in contesti comunicativi più formali. Esistono però delle situazioni in cui l’utilizzo di un codice inappropriato è frutto di una scelta consapevole. D’Agostino (2007: 141) riporta come esempio un caso in cui un ragazzo legato alla malavita decide consapevolmente di parlare in dialetto siciliano con i poliziotti della questura, proprio per sottolineare la sua estraneità nei confronti del mondo istituzionale. L’utilizzo di un codice, in questo caso il dialetto, non è quindi il frutto di una scarsa competenza sociolinguistica del ragazzo, bensì è una scelta che riflette il suo identificarsi come appartenente a un mondo, quello della dialettofonia, in opposizione con la lingua del potere, e cioè lo standard.