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Variazioni sull’asse diacronico: passato e futuro del dialetto

8.2 Risultati

8.2.5 Variazioni sull’asse diacronico: passato e futuro del dialetto

Domande 16 e 17: Trovi qualche differenza tra la varietà parlata dai giovani e la varietà parlata dagli anziani? Se sì, che differenze? Pensi che la varietà parlata a Lamezia Terme sia destinata a scomparire? Se sì, perché?

I dati che si riferiscono alla domanda n. 16 mostrano che per la maggior parte dei soggetti (79%) ci sono differenze tra la varietà parlata dai giovani e quella parlata dagli anziani. Per il 14% le ragioni sono da ricercarsi nella frequenza e nell’ambito d’uso, e cioè nel maggiore o esclusivo utilizzo del codice dialetto da parte dei parlanti anziani.

“Cambia l’ambito. Gli anziani ne fanno uso quasi in ogni contesto, i giovani solo in situazioni particolari” (MVe)

“Sì, gli anziani non sanno parlare l’italiano” (RF)

I restanti soggetti concentrano le loro risposte attorno a degli ambiti di competenza e comprensione, per cui gli anziani parlano un dialetto più stretto (18%), più chiuso, duro e accentuato (5%) e ricco di termini, detti e parole antiche incomprensibili ai ragazzi (30%). Di conseguenza il dialetto parlato dagli anziani è più puro, fluido, vero e naturale per l’8% del campione, con una conseguente svalutazione del dialetto parlato dai più giovani che, in virtù del suo essere “una mescolanza con l’italiano”, risulta scorretto e storpiato.

“Gli anziani parlano vero dialetto, noi giovani cerchiamo di parlarlo correttamente ma a volte storpiamo solo le parole” (SR)

“Anziani lo parlano benissimo preciso senza sbagliare una parola. I giovani a causa di tutte queste lingue nuove come l’inglese è difficile da ricordare anche perché nelle scuole non si parla e quindi è facile da scordare non ripetendolo sempre” (IC)

Per quanto, come notato, siano in molti a riconoscere un cambiamento linguistico in atto nelle nuove generazioni, il 70% dei nostri soggetti non crede che il dialetto sia destinato a scomparire: sebbene all’interno del gruppo dei ‘negativi’ ci sia un sottogruppo di scettici che considera comunque la possibilità che ciò possa avvenire, i restanti soggetti sembrano sufficientemente convinti dell’impossibilità della morte del dialetto.

“No, perché dovrebbe?” (FC)

“Non credo, Lamezia è destinata ad ingrandirsi, non credo che il dialetto scomparirà, lo sanno tutti” (LS)

“No, spero proprio che il dialetto continui ad essere un elemento fondamentale della quotidianità lametina e CALABRESE” (PF)

“Spero vivamente di no. La morte del nostro dialetto sarebbe una sorta di morte di parte delle nostre radici. E senza radici non possiamo vivere” (MVe)

“Credo di no, perché forse più al sud che al nord legame con origini è forte. Ma potrebbe essere per molti il contrario, molti che vorrebbero dimenticare le origini umili del Sud” (IG)

“Lo stereotipo del calabrese legato alle tradizioni è fortunatamente vero, difficilmente perderanno il dialetto lametino, purtroppo alcune parole o modi di dire stanno andando in disuso e prima o poi si dimenticheranno” (CR)

Il 5% propone invece una previsione più moderata, parlando non tanto di scomparsa o sopravvivenza, ma di vero e proprio cambiamento in atto: per questi è indubbio che il dialetto rimanga, ma le sue forme sono destinate a cambiare e a evolversi.

“A scomparire non credo, forse a cambiare perché se si continuerà ad usarlo rimarrà intatto con qualche cambiamento appunto, che avverrà da qui a qualche anno...” (JD) “Penso di sì, il dialetto dei giovani è diverso, le generazioni sempre più nuove di conseguenza si avrà un dialetto sempre più diverso” (MCr)

Se escludiamo il solito gruppo degli indecisi (8% di soggetti che risponde con non so o lascia in bianco) solo una minoranza (16%), vede nel futuro più prossimo una sorte infausta per la sopravvivenza del dialetto. A causa dell’associazione ricorrente fra dialetto e tradizione, dialetto e cultura locale, la scomparsa di queste ultime porta inevitabilmente alla scomparsa del primo;

“Sì, le nuove generazioni tendono a perdere non solo i valori, ma anche le tradizioni e dunque la lingua” (LG)

“Ormai tendere a correggere il dialetto per arrivare ad un italiano perfetto sembra essere l’obiettivo di molti, che lo ritengono un segno di avanzamento linguistico, soffocando la diffusione di quello che rimane comunque il patrimonio culturale della nostra città” (SR)

“Penso che con le nuove generazioni le tradizioni, se non sono difese con i denti dai pochi affezionati vanno via via sgretolandosi e la città si conformi a tutte le altre” (CRo)

Anche la scolarizzazione, con la conseguente maggiore diffusione dell’italiano, e una conseguente stigmatizzazione del dialetto, è da ascrivere fra le cause principali.

“Penso di sì perché ormai è considerato indice di tamarragine ma spero di no” (MFA) Le risposte fanno emergere concezioni e processi cognitivi diversi da parlante a parlante, per cui il dialetto rappresenta non solo un codice linguistico ma tutto un mondo di valori e comportamenti. Soprattutto sembra che i soggetti non siano sempre coscienti del problema che riguarda la trasmissione linguistica, per cui la sopravvivenza pare non riguardare direttamente i loro stessi comportamenti e la possibilità che i loro futuri figli conoscano il dialetto. Questo risalta con particolare forza se confrontiamo due risposte che riflettono con chiarezza due visioni opposte sulla lingua: per GR il dialetto è destinato a scomparire

“[…] se non ci sono più le persone che testimoniano le origini antiche del dialetto e se non ci sono genitori che insegnano ai propri figli l'importanza delle loro origini attraverso appunto il dialetto”

mentre per SC le sorti non sono così nefaste:

”Non credo che scompaia, ma sarà senz'altro modificata dalla crescente istruzione. A conservare il dialetto ci pensano i numerosi gruppi folkloristici che offrono molti spettacoli parlando esclusivamente il nostro dialetto” .

Riepilogo

Proveremo ora a fornire delle conclusioni generali, considerando globalmente le risposte alle diciassette domande del questionario. Ci soffermeremo in prima battuta sulla prima parte, relativa alla biografia linguistica e alle competenze dialettali degli studenti, per poi passare alla seconda parte del questionario. Come si noterà, è stato peraltro difficile fornire delle conclusioni separate per ogni ambito del questionario: la

percezione del dialetto lungo i suoi assi di variazione è infatti un complesso intreccio di competenze, per cui risposte relative alla competenza diatopica contribuiscono spesso a illuminare risposte relative alla biografia linguistica, o alla competenza dialettale acquisita. Di conseguenza, per quanto si sia tentato di seguire un filo conduttore seguendo l’ordine delle risposte sopra elencate, queste conclusioni vanno viste come il frutto di un’interpretazione globale dei dati, riflesso gestaltico della percezione unitaria degli stessi soggetti.

Innanzitutto la biografia linguistica fa spesso emergere l’esistenza, nei genitori, di pregiudizi genericamente anti-dialettali. I pregiudizi non sono però distribuiti equanimemente: in Calabria (e non solo), infatti, la scuola cui si è iscritti sembra essere un buon predittore di differenze di classe sociale, per cui la composizione delle due scuole è radicalmente diversa da questo punto di vista. Questo, associato al quadro che i ragazzi ci offrono sulla dialettofonia a casa, può portarci a dipingere due scenari: da un lato, nel liceo, famiglie probabilmente italofone, che trasmettono ai propri figli un modello dell’agire in cui il dialetto risulta emarginato; dall’altro, nell’istituto tecnico, famiglie probabilmente dialettofone ma dialettofobe, che insistono nel trasmettere ai propri figli l’italiano. Inoltre si evidenzia il ruolo della famiglia, attraverso la quale vengono trasmesse anche tutte quelle norme comportamentali di costruzione del genere: perciò per una donna è meno indicato parlare in dialetto, essendo a essa associati altri ruoli. Il dialetto, così sminuito per le femmine, acquista però terreno per i maschi sul piano del prestigio occulto.

Le risposte ai nostri questionari mettono inoltre in luce l’importanza del periodo passato alle scuole medie nell’attivazione della competenza dialettale, dato che la maggior parte dei soggetti dichiara di ricordare come durante questi anni il dialetto diventasse codice fondamentale da utilizzare all’interno del gruppo degli amici, per poter intessere legami sociali e non sentirsi discriminato. Sappiamo che l’arco di età coperto dalle scuole medie – indicativamente dagli 11 ai 14 anni – è un momento critico per lo sviluppo psicobiologico della persona (v. §1.3): in bilico fra l’infanzia e l’adolescenza, è proprio in questo periodo che si manifestano le prime trasformazioni

somatiche legate alla pubertà e, soprattutto, v’è un significativo cambiamento nel rapporto con la società, con la famiglia e con il gruppo dei pari43. Aime & Pietropolli Charmet (2014: 147-48) ricordano come è proprio durante le scuole medie, agli albori della preadolescenza, che nella vita del bambino irrompe una nuova dimensione di gruppo rappresentata dalla classe. Attraverso la crisi del valore simbolico della scuola il gruppo-classe fa sì che sia la relazione orizzontale con i coetanei a essere investita della massima importanza: il gruppo dei pari, in opposizione con il gruppo degli adulti, sancisce così le nuove regole di appartenenza, di significazione dell’identità. La carica oppositiva e significativa del gruppo ‘classe scolastica’ può quindi essere considerata come fattore decisivo nello spiegare l’utilizzo del dialetto proprio durante questa finestra temporale. L’appropriarsi di una lingua giudicata ‘da grandi’, motivo di sanzione da parte delle autorità del mondo adulto – famiglia, scuola – spiega tutto il suo valore simbolico e favorisce così il processo di appartenenza al proprio gruppo (Tajfel 1970), segnalando così il limite invalicabile fra il mondo privato dei ragazzi e il mondo dell’autorità scolastica. Si può dire che per i giovani lametini il dialetto è a tutti gli effetti una lingua di socializzazione secondaria: l’attivazione del suo uso, favorita dal gruppo dei pari, avviene all’interno di un tessuto linguistico prevalentemente italofono dove il dialetto diventa un potenziale aggiuntivo, atto a svolgere funzioni simboliche e/o pragmaticamente marcate (Berruto 2006). Acquista particolare significato all’interno di una comunicazione che potremmo definire ‘privata’, all’interno di quegli ambiti suggeriti dagli stessi genitori durante il processo educativo, fra le mura domestiche o per comunicare con i nonni; diventa necessario con anziani dialettofoni, per permettere la comprensione reciproca; ricompare infine come registro ulteriore della tastiera linguistica per offrire il giusto arricchimento espressivo nella comunicazione fra amici e in ambienti giovanili quali pub e discoteche. Come riportato da Assenza (2006: 156) si assiste

43 “[…] l’ingresso alle medie avviene in un clima di iniziazione di particolare densità e intensità:

generalmente coincide con l’avvio e il progressivo dipanarsi dei fenomeni turbolenti e complicati della pubertà che, a conclusione dei tre anni di frequenza, consegnano il soggetto a un’altra fase evolutiva, quella propriamente adolescenziale” (Aime & Pietropolli Charmet 2014: 146-47).

“a una ricollocazione dei codici nel repertorio, con sovrapposizione alta dei domini. […] L’impiego del dialetto si colloca tra i poli opposti della “necessità” […] e del “lusso”, come tastiera di variazione stilistica (cambio di codice intrafrasale e parlato mistilingue, fenomeni di tag switching e di smooth switching). La prospettiva generale è perciò quella della linguistica del contatto che vede la presenza quotidiana di italiano e dialetto sotto forma di cambio di codice (cioè di un bilinguismo sociale endogeno, con un crescente orientamento verso la dilalìa). I nostri giovani informatori, dunque, in qualità di parlanti, sembrerebbero assicurare ancora, per quanto in forma parziale e sotto mutata specie, la sopravvivenza e la vitalità dei loro dialetti”.

Le osservazioni fatte finora sulla competenza linguistica dichiarata vanno necessariamente interpretate in parallelo con i giudizi, spesso negativi, assegnati dai parlanti al dialetto. Sappiamo con Ruffino (2006) che già alle elementari i bambini si rendono conto dei pregiudizi positivi e negativi degli adulti verso le varietà linguistiche, e li fanno propri. Nei nostri dati, emerge che gli studenti del biennio sono molto più propensi a considerare positivamente il dialetto, rispetto agli studenti del triennio. La domanda che sorge immediatamente in conseguenza di questa osservazione è dunque: come è possibile che, in soli due o tre anni, i ragazzi siano capaci di mostrare uno scarto così significativo nelle loro opinioni?

La proposta qui avanzata è che i ragazzi che si accostano alla maggiore età comincino a essere maggiormente consapevoli di ciò che è giudicato positivamente nel mercato linguistico. Partendo dal presupposto che ci troviamo di fronte a una dialettofobia ideologica mostrata da italofoni che potrebbero essere considerati semispeakers dialettofoni44, si può ipotizzare come l’avvicinarsi dell’ingresso nel mondo universitario e del lavoro spinga alcuni di loro a liberarsi della propria competenza linguistica dialettale, o almeno a svalutarla giacché non necessaria per il proprio avanzamento personale e professionale. Superata la fase critica in cui l’adolescente ha bisogno del gruppo dei pari per trovare la propria legittimazione, il

44 Si sottolinea il carattere principalmente italofono dei soggetti per evitare di confondere i loro

atteggiamenti negativi con quelli dei parlanti dialettofoni per i quali si può riscontrare un giudizio negativo di natura programmatica causato dal riconoscimento dei propri limiti linguistici (Mocciaro 1979).

processo di costruzione dell’identità comincia a farsi via via più personale e privato. Sembra di riscontrare un parallelo con quello che avviene nel processo di acquisizione delle competenze sociolinguistiche e nel conseguente ruolo svolto dai vari agenti di socializzazione (Kerswill 1996). Durante la preadolescenza, i bambini dai 6 ai 12 anni scelgono una norma linguistica che è differente da quella dei ‘grandi’, orientandosi verso la rete sociale del gruppo dei pari45 (Labov 2014); i ragazzi oramai adolescenti (dai 12 ai 17 anni) cominciano invece ad acquisire una conoscenza di ciò che sono le norme degli adulti (senza per forza sposarle), assieme a una maggiore consapevolezza delle regole dello style-shifting. Del resto ogni parlante “crea i sistemi del suo comportamento verbale in modo tale che essi somiglino a quelli del gruppo o dei gruppi con i quali di volta in volta potrà volere essere identificato (Le Page & Tabouret Keller 1985: 181), e questo può portarci a credere che ciò abbia un riflesso non solo sul comportamento linguistico vero e proprio, ma anche sui giudizi soggettivi che i parlanti danno dei sopradetti comportamenti linguistici.

Ruffino (2006: 66) ricorda che “quando si esprimono valutazioni qualitative sulla lingua – del tipo «bella», «brutta», «volgare», «buffa», «elegante» -, si tratta non di giudizi sulla lingua in sé, ma di indizi di informazioni sociali”. I ragazzi fanno propri i pregiudizi dei genitori e degli insegnanti nei confronti del dialetto – o più probabilmente della sua forma sonora - proprio nel momento in cui è più necessario scegliere una varietà di lingua maggiormente quotata nel mercato. Quello che rimane è probabilmente solo un prestigio coperto o nascosto, mostrato in modo implicito ogniqualvolta si accenni ai diversi valori simbolici portati dal dialetto, come quelli visti supra di lealtà verso il proprio gruppo; un prestigio, dunque, riflesso soprattutto nello scarto che vi è fra competenza dichiarata e giudizio negativo.

In relazione alle considerazioni sui giudizi assegnati al dialetto, vanno viste anche le risposte relative alle domande sulla percezione diatopica. Abbiamo visto

45 Valga come esempio il caso citato da Kerswill (1996), che mostra come i preadolescenti di Milton

Keynes siano concordi nel mostrare una regola fonologica non-standard caratteristica dei parlanti dell’Inghilterra sudorientale, (il Roland-rolling split, in altre parole l’abbassamento della vocale che precede una liquida /l/ solo in confine di morfema, es. r[əʊ]lling ‘rolling’ vs R[æ̈ʊ̈]land ‘Roland’) anche quando questa non è presente nel parlato dei propri genitori.

come i luoghi sui quali si concentra l’attenzione dei nostri soggetti vanno da un massimo di prossimità geografica corrispondente alle frazioni di Lamezia Terme (contrada Caronte, Sambiase, contrada Capizzaglie, Sant’Eufemia), attraversano i paesi circostanti (Nocera Terinese, Maida, Platania, Girifalco, Jacurso, Decollatura, Curinga, Feroleto, Acconia, Soveria Mannelli) e terminano con le differenze corrispondenti alle province amministrative, per cui si contrappongono l’area di Cosenza, di Vibo Valentia, di Reggio Calabria o della stessa provincia di Catanzaro. Ovviamente la categorizzazione mentale, la creazione di “mappe soggettive” riflette innanzitutto l’esperienza che i parlanti hanno con lo spazio circostante. Molti dei nostri soggetti hanno in mente l’esistenza di differenze e somiglianze, ma non sono spesso in grado di fare esempi, o di descrivere dettagliatamente i dialetti dell’area circostante, con la stessa precisione. Ciò è legato direttamente all’esperienza che essi possono avere di queste varietà, e sicuramente è grazie all’ambiente composito della classe che possono fare esperienza di dialetti diversi dal proprio. Molto spesso infatti la maggiore precisione nell’elencazione dei luoghi geografici rispecchia proprio la composizione della classe: è fra le pareti dell’Istituto Tecnico Economico che si ha maggiore possibilità di incontrare persone provenienti da altri paesi, e questo si riflette in elencazioni più ricche. Sul versante strettamente linguistico, i soggetti sembrano fare affidamento principalmente a fenomeni di tipo prosodico, relegando in secondo piano fenomeni che riguardano vocalismo e consonantismo.

Come già detto, la percezione del proprio spazio linguistico non richiede solo una competenza di tipo diatopico ma fa apparire come nella categorizzazione spaziale i piani si intersechino continuamente, mettendo in azione esperienze personali, rappresentazioni stereotipate, giudizi linguistici ed extralinguistici. Alcuni parlanti colpiscono per la loro precisione da ‘dialettologi in erba’ nel momento in cui sanno riconoscere sottili differenze fonetiche che intercorrono fra paesi vicini, altri sembrano essere in grado di ricostruire le stesse aree linguistiche proposte dai dialettologi. Le compartimentazioni che siamo soliti fare quando andiamo a cercare gli incerti confini che separano l’italiano regionale dal dialetto locale o dal dialetto di koinè ecc. non hanno alcuno spazio nelle rappresentazioni mentali che i parlanti hanno delle

differenziazioni linguistiche. Al dialetto vengono infatti ricondotti elementi relativi a fenomeni segmentali e sovrasegmentali (profili intonativi, esiti vocalici), molto spesso di pertinenza dell’italiano regionale, nonché a relitti lessicali. Si può dire che quello che i parlanti hanno a disposizione è una serie di elementi linguistici i quali, indifferentemente dal loro valore - che siano dialetto o italiano - vengono manipolati sia in fase di produzione che in fase di percezione, per compiere specifici compiti che sono sì linguistici, ma soprattutto sociali. È l’interazione tra questi fattori e gli attori sociali che permette ad alcuni di identificare le provenienze: un connubio di materiale linguistico di qualunque tipo, miscelato sapientemente con fattori extralinguistici come il modo di vestire, il luogo di provenienza, l’età o il gruppo etnico. Le risposte alle domande che miravano a far emergere la riconoscibilità dei parlanti, nelle quali si notava come spesso una riconoscibilità diatopica trovasse appoggio in caratteri extralinguistici, fanno risultare con più forza “come il confine spaziale sia in realtà, un confine di ordine sociale nel quale, ovviamente, nessuno vuole essere relegato” (D’Agostino 2002: 99). Emerge inoltre quanto detto da D’Agostino et al. (2002:178): “lo shibboleth del campanile vicino è, dunque, un boomerang utilizzato per distinguere “noi” dagli “altri””: di conseguenza, non sorprende come sia sempre il quartiere più vicino quello giudicato più riconoscibile.

Per Mæhlum (2010:21) l’utilizzo del dialetto è spesso concepito come un indicatore di una specifica posizione sociale, più che un indicatore di provenienza geografica, e in questo senso la territorialità del linguaggio è intimamente connessa con altri aspetti della lingua che sono considerati espressione di certe caratteristiche sociali. Il possedere la lingua più prestigiosa nel mercato linguistico, quella giudicata strumento di potere, e cioè lo standard, induce nei parlanti un senso di superiorità socio-culturale che può essere facilmente identificato come atteggiamento snobista. Si ripresenta qui quella dicotomia che emerge spesso negli esperimenti di matched-guise, per cui in Volkart-Rey 1990 o in Galli de’ Paratesi (1984) la pronuncia standard totalizza punteggi molto alti in ambiti legati allo status, mentre il dialetto appare preferibile in quella che viene comunemente definita ‘dimensione della solidarietà’. Inoltre, il riconoscimento della presenza del dialetto mostra una profonda competenza

di tipo diastratico e diafasico, per cui tutti i parlanti riconoscono che il suo utilizzo è collegato a determinate variabili di natura pragmatica, come la situazione comunicativa, i partecipanti alla conversazione, lo stato emotivo, o di appartenenza a determinati gruppi sociali, che siano essi i parlanti delle classi più disagiate o gli stessi anziani. Tra i nostri soggetti, infatti, l’età è un fattore ben presente alla coscienza. Il dialetto è insomma percepito, a tutti gli effetti, entro uno spazio di natura socio- geografica, associato a particolari gruppi sociali come vero e proprio marchio distintivo. Si può dire dunque, con Agha (2003), che i parlanti associano lingue, e dialetti, a specifiche persone, così che un tratto linguistico può diventare il loro indice, il loro elemento identificativo.

Per concludere, è necessario considerare le risposte relative al futuro del dialetto. Le risposte riportate sopra nel §8.2.5, per cui per un soggetto il dialetto non sopravvive se “non ci sono genitori che insegnano ai propri figli l'importanza delle loro origini attraverso appunto il dialetto”, mentre per un altro studente il dialetto può