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3.2 Diglossia, dilalìa, diaglossia

3.2.2 Macrodiglossia e microdiglossia: il modello di Trumper

Una proposta alternativa, avanzata da Trumper (1984, 1989), è basata sulla separazione della nozione di diglossia in due diversi sottotipi regionali, definiti rispettivamente macrodiglossia e microdiglossia. La macrodiglossia riguarderebbe quelle regioni in cui il dialetto è vitale, con frequenti esempi di code switching e code-mixing, e in cui il dialetto può essere usato anche nella

comunicazione al di fuori del gruppo dei pari. L’autore riporta l’esempio del Veneto come regione tipicamente macrodiglottica, in cui l’interazione tra persone di diverse classi sociali può avvenire sia in italiano regionale sia in dialetto (Mioni 1979 aggiunge alla casistica anche la Sicilia). Nelle situazioni di microdiglossia non si è invece assistito alla formazione di un dialetto di koinè, e il dialetto e la lingua ricoprono funzioni d’uso specifiche e ben separate; il dialetto, sociolinguisticamente più debole, è confinato a pochi domini d’uso ed è usato nella comunicazione con membri del proprio gruppo e della propria comunità. Per Trumper & Maddalon (1982) questo sarebbe il caso di regioni come il Piemonte e l’Emilia Romagna; per Mioni (1979) rientrerebbero in questo scenario anche le Marche e la Calabria.

3.2.3 “Europe sociolinguistic constellation”: le proposte di Auer applicate alla situazione sociolinguistica italiana

Un altro tentativo di descrivere la situazione sociolinguistica italiana è presente in Auer (2005, 2011). Nei suoi lavori, Auer intende offrire una descrizione uniforme dei repertori sociolinguistici presenti nell’intera Europa. Egli suggerisce cinque differenti situazioni sociolinguistiche, definite come repertori di tipo 0, A, B, C e D. Queste cinque situazioni, oltre a riguardare diverse aree geografiche, rappresentano anche diversi stadi cronologici nel rapporto tra standard e dialetti: ciò significa che un’area geografica caratterizzata da un repertorio di tipo C è stata in passato un’area di tipo B, e così via. Prima di entrare nel dettaglio descrivendo i repertori che si ritrovano in territorio italiano, è opportuno precisare la terminologia usata in Auer (ibid.). Innanzitutto, il termine ‘dialetto’ sarà da intendere esclusivamente in termini relazionali, in relazione cioè con una lingua standard. L’uso rimanda direttamente al concetto di “dialetto primario”, così come teorizzato da Coseriu (1980), e cioè una varietà geografica coeva del dialetto da cui si è sviluppata la lingua promossa come standard (Cerruti & Regis 2005: 179). Il termine standard viene invece utilizzato per designare a) una varietà di lingua comune sovraregionale, b) soggetta a codificazione e c) utilizzata nello scritto e vista come varietà alta di prestigio.

Auer evidenzia come finora gli studi condotti in territorio italiano abbiano postulato una situazione uniforme per tutta la penisola; più corretto è invece far rientrare alcune regioni tra le situazioni di tipo B, mentre altre sarebbero caratterizzate da un repertorio di tipo C.

Un repertorio di tipo B viene definito come una situazione di “diglossia parlata” (Auer 2005: 15). In questo scenario la lingua standard è usata non solo nello scritto, ma è anche parlata. La differenza strutturale tra lo standard e i dialetti è comunque ampia, perciò le due varietà sono sottoposte a restrizioni funzionali legate a differenti norme d’uso. Lo standard viene usato nel parlato soprattutto per interazioni formali, con interlocutori con cui non si ha familiarità. Poiché lo standard è usato anche nel parlato, esso tende a differenziarsi dallo standard scritto; alcune strutture presenti nello scritto (soprattutto per la sintassi) tendono a non sopravvivere nell’orale e lo standard parlato tende a essere più variabile del corrispettivo scritto. Basandosi sul lavoro di Trumper & Maddalon (1987), per l’Italia Auer assegna questo scenario di diglossia parlata a Calabria, Lucania, Marche ed Emilia Romagna. In queste regioni non si sarebbe formato un regioletto, bensì permangono numerosi dialetti primari e domini d’uso differenziati tra standard regionale e dialetti. È importante precisare da subito cosa viene inteso per “regioletto”. Con questo termine l’autore indica quelle forme che sono intermedie tra lo standard e i dialetti primari di base: queste forme si presume siano più standard dei dialetti, ma più “regionalmente colorite” dello standard. Come precisato in Hinskens, Auer & Kerswill (2005: 25) i regioletti (definiti anche come dialetti regionali o varietà regionali livellate non standard) si sviluppano in situazioni in cui i dialetti primari assorbono tratti principalmente lessicali della varietà standard, grazie alla sinergia di diverse forze sociali, principalmente attraverso un processo concomitante di standardizzazione e koinizzazione dei dialetti. In sintesi, i regioletti rappresentano delle varietà che si pongono in un continuum che ha ai due poli la lingua standard e i dialetti, risultando quindi foneticamente distinti dallo standard ma comunque di più ampia portata geografica delle singole varietà dialettali.

sempre di questo tipo, ma attenuato. In alcune zone non specificate dell’Italia settentrionale sembra infatti che i dialetti siano stati livellati sotto l’influenza dell’italiano, e contemporaneamente si sia assistito a una destandardizzazione dello standard, senza però far emergere un continuum fra i due poli; si sarebbero quindi venuti a creare due continua separati, uno di tipo dialettale accanto a un continuum riguardante la lingua standard. Oltre al nord Italia, per Auer si ha una situazione di diglossia parlata attenuata anche in Sicilia (secondo i dati riportati da Alfonzetti 1998), ma per altre ragioni. In questa regione il dialetto e lo standard sono due sistemi separati, ma in stretto contatto l’uno con l’altro, rendendo possibili frequenti casi di code switching e code mixing all’interno dello stesso turno frasale e anche all’interno di un singolo item lessicale. Lo standard e il dialetto sembrano aver perso una rigida distinzione tra i vari domini d’uso, ed entrambi possono essere usati nella stessa conversazione (anche se nelle situazioni più formali vigono comunque maggiori restrizioni nei confronti del dialetto).

Accanto a regioni con repertori di tipo B, altre zone della penisola rientrerebbero invece in uno scenario di tipo C, definito di diaglossia. Il termine viene mutuato direttamente da Bellmann (1997: 24), per il quale si ha una situazione di diaglossia quando

“for extra-linguistic reasons, the original diglossia or the standard on the one hand and the dialect on the other does not exist anymore. Rather, we are dealing with a ‘diaglossia’, as I call it, between the hitherto existing poles, which is based on a continuous intermediate scale of features”.

Per Auer i repertori di tipo diaglottico sono i più frequenti in tutta Europa, e riguardano quelle situazioni in cui si ritrovano delle forme intermedie tra standard e dialetti che “riempiono lo spazio strutturale tra i due poli” (Auer 2011: 491):

“a diaglossic repertoire is characterised by intermediate variation between standard and (base) dialect. The term regiolect (or regional dialect) is often used to refer to these intermediate forms, although the implication that we are dealing with a separate variety is not necessarily justified. More usually, the space between base dialect and

standard is characterised by non-discrete structures (standard/dialect continuum)” (Auer 2005: 22).

Si tratta di situazioni in cui si assiste sempre di più a un processo di convergenza e di livellamento fra i vari dialetti locali primari, che porta alla scomparsa di quei tratti di più scarsa diffusione geografica: in altre parole si è di fronte a una situazione in cui vi è formazione di koinè dialettali e convergenza verso lo standard (italianizzazione) accanto a processi di de-standardizzazione e dialettizzazione dell’italiano (processo che, per Auer, porta alla formazione dell’italiano popolare). I dialetti sono caratterizzati da un processo di advergenza, ossia un “processo di mero avvicinamento formale o semantico di una varietà a un’altra, attraverso una sostituzione delle proprie forme con altre” (Mattheier 1996: 34).Proprio in virtù del progressivo avvicinamento dei due poli, oltre a fenomeni di code-switching standard-dialetto, i parlanti possono cambiare il proprio modo di parlare in maniera graduale, senza un chiaro punto di transizione tra il dialetto e lo standard (Auer 2005: 23). Non viene specificato in quale regione d’Italia si ritrovi una situazione diaglottica, ma si deduce come per Auer (almeno nel lavoro del 2005) lo scenario riguardi almeno i grandi centri urbani industrializzati come Torino, dove una massiccia migrazione proveniente da varie parti d’Italia ha causato processi di livellazione dialettale. È importante ricordare come la livellazione dei dialetti contribuisca alla creazione di regioletti urbani di più ampia diffusione geografica: possono darsi casi in cui questi regioletti urbani sviluppino forme innovative che non hanno base né nello standard né nei dialetti. Come detto sopra, inoltre, la diffusione sempre più ampia di questi regioletti urbani provoca una destandardizzazione della norma: in un repertorio diaglottico infatti, la varietà standard è più tollerante nei confronti dei tratti regionali (Auer 2005:25).

Il modello di diaglossia proposto da Auer (2005, 2011) è stato ripreso da diversi studiosi, i quali hanno tentato di adattarlo di volta in volta a specifiche situazioni sociolinguistiche sia nazionali, sia regionali. Per quanto riguarda l’Italia, esso è stato applicato alla situazione linguistica salentina (Golokvo 2012) e a quella piemontese (Cerruti & Regis 2015). Il lavoro di Cerruti & Regis (2015) permette di comprendere meglio ciò che si è detto poco prima in relazione alla maggiore

tolleranza di tratti regionali nello standard. Gli autori fanno riferimento a un corpus di articoli del quotidiano nazionale, con sede a Torino, La Stampa, per sua natura un mezzo di comunicazione nel quale si tende a usare una lingua standard, e mostrano come siano presenti diverse spie linguistiche. Ad esempio, l’utilizzo del marcatore pragmatico già, utilizzato nelle interrogative per segnalare che il parlante sta chiedendo che sia ripetuta un’informazione a lui nota ma che al momento non può ricordare, non è presente nell’italiano standard ma è attestato nei dialetti piemontesi:

es. com’è già che lo chiama? ah, sì! albero da passeggio (Anna Berra, La Stampa, 14.09.2012, in Cerruti & Regis 2015: 58).

Gli autori trattano inoltre quelli che vengono definiti processi orizzontali di convergenza tra differenti regioletti. Per prima cosa un tratto linguistico di uno specifico regioletto comincia a diffondersi anche all’interno di altri regioletti, per poi, in un secondo momento, essere accettato anche nello standard: l’esempio riportato è il caso della fricativa alveolare realizzata come fono sonoro [z] anche nei casi in cui lo standard richiede un fono sordo [s] (es. [ˈkaːza] ‘casa’, ma it. standard [ˈkaːsa]), diffusasi dai regioletti settentrionali nelle aree centrali e meridionali, e oramai accettata nello standard.

È importante notare come, creandosi un continuum tra standard e dialetto, si tenda ad abbandonare le forme più locali, spostandosi sempre di più verso la parte centrale del continuum. Di conseguenza, questi regioletti, intermedi tra standard e dialetto, vengono anche a ricoprire un bisogno sociale specifico: in particolare permettono ai parlanti della comunità di mettere in atto, nei contesti appropriati, un’identità che non può più essere simboleggiata dai dialetti primari (i quali potrebbero oramai avere delle connotazioni negative, di arretratezza, ruralità e ignoranza) né tantomeno dallo standard nazionale (il quale risulterebbe troppo formale e innaturale e non sarebbe perciò adeguato a esprimere un’affiliazione regionale (Auer 2005: 22).