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L’identità, la differenza e il dialogo interculturale

alla comunicazione

1.28 Il linguaggio istituzionale

1.28.2 L’identità, la differenza e il dialogo interculturale

La questione del linguaggio e della lingua si connette strettamente al discorso dellapercezione di sé e della definizione della propria identità. Questo aspetto, nel contesto attuale, implica una più ampia riflessione intorno ai concetti delle diverse appartenenze e dell’interculturalità. La lingua, infatti, rappresenta per le persone immigrate, ma anche per le società di accoglienza, una dimensione essenziale dell’incontro sociale e culturale. Una prima considerazione va posta sul linguaggio assunto dalla letteratura stessa sull’immigrazione. Capita, spesso in modo non del tutto consapevole o volontario, di designare persone ed eventi con parole che attribuiscono loro una connotazione non neutra ed oggettiva, ma positiva, negativa o discriminatoria. Ad esempio, i termini ondate migratorie o flussi migratori

156 Giusti G., Regazzoni S. (a cura di), Mi fai male … Atti del Convegno Venezia, 18-19-20 novembre 2008, Venezia, Cafoscarina, 2009, pag.161.

sono tipici di una visione naturalistica e allarmistica dei processi migratori, come pure i termini extra-comunitari o stranieri hanno un valore “estraniante”, perché sottolineano l’origine nazionale degli immigrati, anziché la “funzione sociale”. 157

In secondo luogo, la lingua agisce sui processi di identità. Per quanto riguarda le persone immigrate si possono distinguere le seguenti dimensioni di identità:158

1. perduta (quando si perde il contatto quotidiano con la lingua di origine);

2. cercata (nel tentativo di ritrovare nel paese di accoglienza un’identità capace di dare senso all’esistenza);

3. scissa (quando le due identità culturali non si ricompongono, ostacolando così il processo di integrazione);

4. equilibrata (quando le due identità si integrano, senza rinnegare la radice di origine).

Alla luce di queste dimensioni, l’apprendimento della lingua rappresenta un’essenziale condizione per la promozione e la riuscita dei processi di identità.

Un’adeguata competenza comunicativa consente inoltre di inserirsi in contesti complessi e non marginali della realtà sociale e professionale. “L’apprendimento linguistico di un immigrato non va visto, pertanto, solo nei termini riduttivi dell’imparare la grammatica, le strutture e le parole di una lingua, ma come il luogo di contatto fra lingue e culture”.159

Gli studi di linguistica acquisizionale interpretano l’apprendimento linguistico dell’immigrato non come la graduale acquisizione di una lingua, ma come la creazione di una nuova identità, denominata interlingua di apprendimento. La lingua delle persone immigrate induce a riflettere sulla propria identità anche la società di accoglienza. Sul piano istituzionale comporta l’elaborazione di progetti formativi che tengano conto della specificità della situazione dell’altro, mentre nella comunicazione quotidiana coinvolge tutta la popolazione nel ruolo di interlocutori e di

157 La critica ai vocaboli di uso corrente è stata tratta da: Basso P., Perocco F. (a cura di), Gli immigrati in

Europa, Milano, Angeli, 2003, pag 54.

158 Le varie dimensioni dell’identità sono tratte da: Barni M., Villarini A., La questione della lingua per gli

immigrati stranieri, Milano, Angeli, 2001.

insegnanti naturali di lingua. In quest’ultimo caso un’eccessiva semplificazione del linguaggio, se da un lato cerca di rispondere alle difficoltà di comprensione della persona immigrata, dall’altro non sollecita la sua elaborazione di apprendimento. Un parlare troppo semplificato e distorto evidenzia la distanza, anziché la reciprocità del rapporto con l’altro. Analogamente, il discorso dalla struttura elaborata e incomprensibile diventa parola che esclude. Non permette di inserire l’altro nella propria lingua, nel dialogo e nel rapporto umano. Le diverse forme di comunicazione assumono, pertanto, valore sociale. Possono diventare luogo di contatto e di incontro di lingue e culture o, in altre parole, di relazione ma, allo stesso tempo, di rifiuto e di esclusione.

Storicamente, il bisogno di riconoscimento pubblico è stato sancito dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789), che ha tradotto il principio dell’uguaglianza umana nel concetto di uguale dignità in quanto persone.

Riguardo al tema della funzione storica delle dichiarazioni dei diritti umani, G. Agamben (2005),analizza l’interessante questione della relazione che, nella democrazia moderna rispetto a quella classica, si pone tra la vita naturale (la persona come semplice vivente) e l’esistenza politica (la persona come soggetto politico). In altre parole, cerca di chiarire la relazione esistente tra la nuda vita, come egli la definisce e la sovranità. Agamben parte dall’affermazione di H. Arendt (1994), secondo la quale esiste un nesso necessario fra diritti umani e stato nazionale. Il rifugiato, spiega l’autrice evocando un paradosso, ovvero la figura che per eccellenza avrebbe dovuto rappresentare l’uomo dei diritti, segna invece la caduta di questo concetto. Nel sistema dello stato-nazione, infatti, i diritti inalienabili dell’uomo perdono ogni valore se non vengono riconosciuti come diritti dei cittadini di uno stato. Le dichiarazione dei diritti, illustra Agamben, non consistono nella proclamazione di valori eterni metagiuridici che vincolano il legislatore al rispetto dei principi etici, come erroneamente nel secondo dopo guerra si era enfatizzato. Esse rappresentano “la figura originaria

dell’iscrizione della vita naturale nell’ordine giuridico-politico dello stato- nazione”.160

Nell’antico regime la vita naturale apparteneva a Dio ed era politicamente irrilevante e nell’epoca classica era distinta come zoé dalla vita politica (bios). Le dichiarazioni dei diritti rappresentano, invece, il luogo in cui il principio di natività e il principio di sovranità si uniscono e fondano lo stato- nazione. Questo significa che alla base dello stato moderno e della biopolitica non sta l’uomo come soggetto politico ma, prima di tutto, la sua vita naturale, ovvero la sua nascita. Solo alla luce di questa interpretazione è possibile comprendere anche lo sviluppo successivo e le implicazioni delle dichiarazioni dei diritti.

Fascismo e nazismo costituiscono due esempi di “movimenti in senso proprio biopolitici, che fanno cioè della vita naturale il luogo per eccellenza della decisione sovrana.”161

Nel pensiero politico moderno la nozione di cittadinanza diventa così un concetto ambiguo. Stabilire e continuamente ridefinire quale persona possa essere considerata cittadino (di uno stato-nazione) e quale no diventa una questione politica, mentre in precedenza era ritenuta soltanto oggetto di riflessione filosofica. Con il nazionalsocialismo, stabilire chi e che cosa è cittadino e, di conseguenza, chi e che cosa non lo è, spetta alla sovranità. In questo senso nazismo e fascismo rappresentano in primo luogo una ridefinizione della relazione fra l’uomo e il cittadino. Una caratteristica peculiare della biopolitica moderna è la necessità di definire continuamente il confine tra dentro e fuori, tra esterno e interno, tra inclusione ed esclusione. I rifugiati, riprendendo il paradosso presentato da Arendt, mettono in crisi l’ordinamento dello stato-nazione perché, con le parole stesse di Agamben, “spezzano la continuità fra uomo e cittadino, fra natività e nazionalità”.162

Il nesso nascita-nazione, sul quale la dichiarazione del 1789 aveva fondato la sovranità nazionale, ha cominciato a venir meno a partire dalla prima guerra mondiale, con l’introduzione in molti paesi europei di norme che permettono la denaturalizzazione e la denazionalizzazione dei propri

160 Agamben G., Homo sacer, Torino, Einaudi, 2005, pag 140. 161 Ibidem, pag. 142.

cittadini. Sempre secondo Agamben, occorre distinguere il concetto del rifugiato da quello dei diritti umani e considerare seriamente la tesi di Arendt sulla profonda e necessaria relazione fra diritti umani e stato- nazione, affinché nella politica la vita naturale “non sia più separata ed eccepita nell’ordinamento statuale, nemmeno attraverso la figura dei diritti umani”.163

Parallelamente ai temi analizzati da Agamben, e dei quali sopra si è riportata una sintesi, la presenza di culture e appartenenze diverse in uno stesso stato- nazione, sposta il centro del discorso sulla questione del riconoscimento della differenza.

Etimologicamente, differenza culturale significa “portare da una parte all’altra” la propria cultura. La differenza, allora, induce a riflettere sui concetti di: popolo e cittadinanza, servizi e istituzioni, esclusione ed integrazione. Ne consegue che, il passaggio da una società policentrica ad una società interculturale, interroghi la messa in atto di strategie di lungo termine e non soltanto la risposta all’emergenza. Le persone immigrate sono parte integrante della società di accoglienza, pertanto “sarebbe auspicabile considerare la popolazione immigrata e quella del paese di accoglienza, non come due gruppi separati e antagonisti ma, al contrario, come un tutto, nella sua diversità nazionale e culturale.164

Istituzioni e servizi sono chiamati a definire politiche di integrazione con una legislazione che garantisca pari opportunità e rifiuti ed impedisca ogni forma di discriminazione.

Esistono due interpretazioni possibili del concetto di integrazione:

la prima rinvia all’idea di coesione interna di un sistema composto da una moltitudine di elementi individuali; la seconda fa riferimento all’allargamento del sistema in modo da permettere l’entrata di nuovi elementi. 165

L’integrazione delle persone immigrate, intesa come inclusione, presuppone entrambi i significati. Si traduce nell’integrazione residenziale, che esprime un concetto diverso di quello di appartenenza residenziale (essere residente). In altre parole, non c’è integrazione senza un progetto comune di

163 Ibidem, pag.149.

164 Castiglioni M., La mediazione linguistico-culturale, Milano, Angeli, 1997, pag 26. 165 Ibidem, pag. 27.

cittadinanza, inteso non tanto come appartenenza ad uno stato, quanto nel senso di accesso effettivo ai diritti sostanziali, ovvero di cittadinanza, specie quelli sociali e sanitari. Il riconoscimento delle differenze culturali nella struttura e organizzazione di servizi, diventa luogo di prevenzione del disagio e condizione per la riuscita dei processi comunicativi. La definizione di cittadinanza, così come ripreso nel contributo di P. Costa al Convegno annuale SISSCO Padova, 2-3 dicembre 1999, rinvia al sociologo inglese Thomas H. Marshall. Nel contributo citato si legge che per Marshall tale termine “suggerisce l’idea di un’eguaglianza che si traduce nella partecipazione di tutti cittadini a un comune patrimonio, ad una medesima forma di vita”.166

Gli strumenti principali di questa partecipazione sono costituiti dai diritti: civili, politici e sociali. Nella definizione di Marshall il termine cittadinanza indica il collegamento di concetti interdipendenti e non paralleli: il soggetto, i diritti, la comunità politica.

In secondo luogo, implica guardare alla comunità politica a partire dal soggetto. “Parlare di cittadinanza significa insomma guardare il costituirsi dell’ordine e lo strutturarsi della comunità politica dal basso verso l’alto, dal soggetto all’assetto oggettivo: il punto di vista della cittadinanza è il punto di vista del soggetto, è lo sguardo del soggetto sulla comunità politicamente ordinata”. 167

Sempre nell’intervento di Costa al convegno annuale SISSCO del 1999, si legge che Marshall ha evidenziato il nesso fra diritti e appartenenza,nella convinzione che tra soggetto e comunità politica si sviluppi una complessa e reciproca relazione di prerogative ed oneri.

Costa pone poi un ultimo interrogativo in merito alle strategia di ricerca relative alla cittadinanza, la distinzione tra pratiche sociali e discorsi e, richiamando M. Foucault (La “governamentabilità”, in Aut-Aut, 1978) rammenta che “i discorsi sono pratiche e che le pratiche passano attraverso i simboli, le strategie discorsive, i processi comunicativi”. 168 Tuttavia le

166 Sorba C. (a cura di), Cittadinanza. Individui, diritti sociali, collettività nella storia contemporanea, Atti del convegno annuale SISSCO Padova, 2-3 dicembre 1999, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Libreria dello Stato, 2002.

167 Ibidem. 168 Ibidem.

concrete strategie, sembrano talvolta orientate ora alle pratiche, ora ai discorsi.

La separazione tra pratiche e discorsi riporta al tema della diversità culturale. L’interculturalità richiede la messa in discussione di principi e consuetudini che contrastino con il rispetto della dignità umana e dei diritti fondamentali. Sul piano concreto, comporta la progettazione e la realizzazione di attività che effettivamente includano tutti nella comunità politica. Informazione ed educazione svolgono un ruolo primario nella promozione e nel rispetto delle altre culture. L’educazione all’interculturalità e ai diritti umani, infatti, favorisce la “pace fra i saperi e le discipline, oltre che fra i gruppi culturali”. 169

Per sostenere il dialogo interculturale la Direzione Generale per l’Educazione e la Cultura della Commissione Europea ha promosso una conferenza svoltasi a Bruxelles il 20-21 marzo 2002. Nel corso della Conferenza è emerso il fondamentale ruolo dell’integrazione e della partecipazione quali agenti di sviluppo del dialogo interculturale. Forte appare la relazione tra il non riconoscimento della diversità culturale e le diseguaglianze sociali. Un dialogo interculturale permanente può contribuire a prevenire i conflitti. A facilitarlo concorrono il riconoscimento dell’altro e la circolazione delle idee, mentre asimmetrie nel rispetto dell’altro e nell’interesse per la sua cultura lo rendono difficile.