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alla comunicazione

1.26 La teoria degli atti linguistic

Una delle più significative espressioni della pragmatica è stata la teoria degli atti linguistici.

L’iniziatore fu il filosofo del linguaggio J.Austin (già precedentemente incontrato), che introdusse un nuovo paradigma e coniò il termine “atto linguistico” (speech act). Austin segnò il passaggio da una concezione del linguaggio come rappresentazione (descrizione del mondo con le domande sul rapporto tra linguaggio e realtà, sul significato) al linguaggio come azione (come esecuzione di azioni, sul passaggio dal suono all’atto illocutorio). Il termine atto linguistico indica le azioni che si compiono attraverso il linguaggio e la comunicazione. Nel 1962 venne pubblicata postuma una raccolta delle sue conferenze, intitolata “How to Do Things with Words”, “Come fare cose con le parole”, in cui Austin dichiara che “parlare è agire”. Significa che certi fenomeni linguistici vanno considerati da un punto di vista pragmatico, come un prodotto emesso dal parlante in una determinata situazione non tanto per descrivere un evento, per “dire” qualcosa, ma per mettere in essere, compiere un azione, per “fare” qualcosa. Alcune frasi dichiarative come ad esempio “ti do la mia parola che …” corrispondono all’esecuzione stessa di un’azione. Un enunciato la cui emissione serve “ a fare” si definisce performativo. Gli enunciati performativi, come ad esempio prometto, non si può affermare che siano veri o falsi, come nell’atto constativo chiamato anche asserzione, poiché hanno la funzione di compiere un’azione. Tuttavia, possono essere giusti o sbagliai, ovvero “non riusciti”. Perché un atto linguistico sia compiuto, abbia buon esito, occorre siano soddisfatte delle condizioni di “buona riuscita” o di “felicità”. L’atto linguistico si compone di tre aspetti che vengono attuati simultaneamente: la locuzione, la perlocuzione, l’illocuzione.

L’atto locutorio indica l’enunciazione di una frase dotata di senso, dire qualcosa. Si riferisce sia all’attività fisica di emettere suoni o parole, sia alla competenza linguistica e grammaticale della lingua. Si realizza una

comunicazione collegando opportunamente suoni, parti del discorso e significati.

L’atto perlocutorio rappresenta la produzione di effetti su “sentimenti, pensieri e azioni” di chi ascolta, ottenuti attraverso l’enunciazione di una frase. L’obiettivo che si intende raggiungere va oltre l’azione che si compie. Ad esempio, informando qualcuno, si può allarmarlo oppure tranquillizzarlo. Con l’atto perlocutorio si organizza strategicamente la comunicazione.

L’atto illocutorio è l’esecuzione di un atto in virtù della “forza” associata per convenzione all’enunciazione di una frase. Indica l’azione intrapresa dall’emittente che comunica. Ad esempio: “io ordino che”, “io asserisco che “ sono atti che producono effetti immediati sull’interlocutore. Austin riassume così i tre tipi di atto:

• l’atto locutorio è l’emissione di un “significato”;

• l’atto illocutorio la produzione di una certa “forza” convenzionale; • l’atto perlocutorio il raggiungimento di un dato “effetto”

sull’ascoltatore.

Come affermato appena sopra la buona riuscita o, come si dice tecnicamente, la felicità degli atti linguistici è così traducibile: nel valutare la felicità locutoria ci si chiede se i suoni o le parole sono articolati chiaramente, se la sintassi è corretta, se il significato è chiaro o ambiguo. Nel certificare la felicità illocutoria si devono verificare se esistono le condizioni perché l’atto si realizzi. Ad esempio: per “comandare” bisogna averne il diritto, per “promettere” bisogna assumersi un impegno e disporre di quanto promesso. La felicità perlocutoria consente di capire se l’effetto raggiunto sul ricevente è minore o maggiore di quello previsto. Ad esempio un atto perlocutorio potrebbe intimorire anziché sollecitare, annoiare anziché persuadere. Il concetto di atto illocutorio è molto importante perché aiuta a comprendere in che “modo” usiamo il linguaggio. Quando parliamo, infatti, possiamo compiere atti molto diversi, poiché numerosi sono i modi in cui usiamo il linguaggio. Una frase, come ad esempio: “Verrò da te domani”, può avere la forza di una promessa, ma anche di una minaccia o di un avvertimento. Allo stesso tempo, potrebbe però essere una semplice affermazione. Non è facile capire che valore, o forza, dare a certe parole o

espressioni, nonché stabilire il tipo di atto illocutorio compiuto, soprattutto se le frasi sono ambigue, ma è molto importante. Nondimeno, esistono degli “indicatori di forza illocutoria”. Nel discorso orale sono ritenuti indicatori ad esempio un lessico particolare o la coniugazione dei verbi; nel testo scritto, la punteggiatura o l’ordine sequenziale delle parole. Oltre agli indicatori linguistici, occorre tener conto degli indicatori non verbali e del “contesto in cui le frasi vengono pronunciate, delle relazioni esistenti tra gli interlocutori, dei rapporti di potere, delle rispettive credenze, aspettative e volontà”. 138

L’aspetto illocutivo di un atto linguistico si inserisce pertanto nel più vasto ambito della situazione pragmatica e dei rapporti sociali ad esso connessi. Un atto illocutorio si correla direttamente alla relazione tra gli interlocutori. La teoria di Austin fu ripresa da J.R. Searle, che nel 1969 scrisse un altro classico della teoria degli atti linguistici, intitolato “Speech Acts”, “Atti linguistici”, un libro di filosofia del linguaggio. Searle parte dall’ipotesi che “parlare un linguaggio è impegnarsi in una forma di comportamento” tradotta concretamente significa che “parlare è compiere atti linguistici”. Gli atti linguistici sono organizzati da regole e lo studio di tali atti ha lo scopo di formulare queste stesse regole. Su questo punto l’autore condivide la posizione di Chomsky. Searle distingue quattro tipi di atti linguistici:

• l’atto del proferire, • l’atto proposizionale, • l’atto illocutivo, • l’atto perlocutivo.

Egli si dedicò però esclusivamente allo studio del secondo e terzo tipo. Tuttavia l’unico atto linguistico “completo” secondo Searle è l’illocuzione. Pronunciare una frase grammaticalmente corretta, ma senza un senso, non è comunicare. Allo stesso modo dire qualcosa dotata di senso, ma incomprensibile per chi ascolta, nemmeno questo è comunicare. Intorno all’allocuzione Searle costruisce un modello. L’esempio paradigmatico dell’illocuzione è la promessa, per compiere la quale devono essere soddisfatte nove condizioni necessarie e sufficienti. L’illocuzione è

l’elemento centrale dell’analisi di tutto il testo e l’atto linguistico di livello superiore rispetto agli altri tre. Nel compiere un’illocuzione infatti, “si trasmette un contenuto” e si provocano “degli effetti negli interlocutori”. “Il linguaggio ha codificato questa differenza di livello: proferendo un enunciato si compie un’illocuzione, mentre un proferimento non è necessariamente un enunciato completo e una frase può essere anche soltanto una parte di enunciato. Gli effetti di quello che si dice, poi, possono non essere affatto linguistici“.139

La principale differenza tra Austin e Searle verte intorno alla relazione fra linguaggio e azione. Austin cerca di capire tale relazione, mentre Searle ritiene essa già esista, la considera acquisita. Quest’ultimo sostiene che una teoria del linguaggio sia parte di una teoria dell’azione. Tradotto con le parole di A. Koehler, Austin si interessa del fatto che “anche parlando un linguaggio facciamo qualcosa, mentre Searle si interessa solo di ciò che facciamo parlando”. 140

La teoria degli atti linguistici è stata rivista in un’altra opera di Searle, intitolata “Mind, Language and Society, del 1998 (Mente, Linguaggio, Società) secondo la seguente prospettiva: “è la mente che dà significato a quella che da un punto di vista fisico è una semplice emissione di suoni, che compie il passaggio dalla fisica alla semantica.141

Il passaggio dalla fisica alla semantica avviene innanzi tutto attraverso l’intenzionalità. Il significato di un enunciato dipende dalle parole e dalle relazioni sintattiche, mentre il significato del parlante è correlato alla sua intenzione, ovvero l’intenzionalità del pensiero del parlante viene trasferita alle parole. La comprensione avviene quando l’interlocutore riconosce quell’intenzione. Tuttavia, parlare “non significa soltanto tradurre pensieri”, come dimostra lo sviluppo psicolinguistico del bambino. Da forme primitive si passa a forme sempre più complesse di intenzionalità che, in una relazione di reciprocità aumentano vicendevolmente comprensione ed intenzionalità. “Non c’è solo la mente da un lato e il linguaggio dall’altro, ma un processo di incremento reciproco, finché la mente risulta

139 Searle J.R., Speech Acts. An Essay in the Philophy of Language. Cambridge, Cambrige University Press, 1969, trad. it. Atti linguistici, saggio di filosofia del linguaggio, Torino, Boringhieri, 2009, introd. pgg. 8-9. 140 Ibidem, introduzione pag. 10.

141 Searle J.R., Mind, Language and Society, (s.l.), (s.n.), 1998, trad. it. Mente, linguaggio, società, Milano, Cortina, 2000, pag . 144.

linguisticamente strutturata”.142Searle riporta così al centro della riflessione i concetti di: dispositivi mentali, di competenza linguistica e della relazione tra pensiero e linguaggio.

Un ulteriore importante passaggio dell’autore è lo studio degli “atti linguistici indiretti”. Sono atti che, presi letteralmente appartengono ad una categoria, ma il cui scopo illocutorio rientra in un’altra categoria. Ad esempio la frase “Potresti fare silenzio ?” non è semplicemente una domanda, ma una precisa richiesta di compiere delle azioni (direttivi indiretti). Attraverso gli atti linguistici indiretti il parlante comunica più di quanto effettivamente dica e la comprensione di tali atti si basa sulle conoscenze linguistiche e extralinguistiche condivise dai partecipanti. La modalità più tipica dell’uso della forma indiretta è la cortesia. Altre volte l’atto linguistico indiretto è impiegato per esprimere “giudizi o minacce, senza assumersene la responsabilità”. Viceversa gli atti direttivi come ordinare, richiedere, consigliare, ammonire, implicano un’assunzione di responsabilità e l’intento di dirigere il comportamento dell’ascoltatore. L’analisi di Searle si incontra con le teorie di un altro autorevole filosofo del linguaggio, lo studioso di pragmalinguistica P. Grice. Caratteristica di Grice è il concetto di significato nei termini dell’intenzione del parlante da cui traspare la natura interattiva e dialogica del concetto stesso. Infatti, nella situazione conversazionale gli interlocutori colgono dei contenuti che vanno oltre la singola enunciazione o il suo senso letterale. Grice definisce “implicatura conversazionale” la dimensione presente in ogni scambio dialogico attraverso la quale gli interlocutori inferiscono il significato implicito dello scambio stesso, sia sulla base del significato astratto che sulla base del contesto. Lo scambio di informazioni si fonda su un “comportamento cooperativo” fra interlocutori, in cui si riconoscano intenti più o meno comini. Ogni messaggio si formula e si riceve (la cooperazione) sullo sfondo di una serie di principi definiti “massime conversazionali”. Le massime conversazionali costituiscono la premessa per deduzioni e “implicature” sulle intenzioni e il pensiero dell’interlocutore e possono essere come segue riassunte:

• dare tutta l’informazione richiesta e solo quella;

• non dire cose che si ritengono false o per cui non si hanno prove adeguate;

• essere pertinenti;

• essere perspicui, ovvero evirare l’oscurità, l’ambiguità, la prolissità, la confusione.

Si deve riconoscere che la teoria degli atti linguistici rappresenta un contributo estremamente importante e non solo allo studio del linguaggio. Ha aperto interessanti prospettive di ricerca anche nell’analisi del rapporto tra ideologia e discorso e, ancora, nella relazione tra comportamento linguistico e fattori sociali. Infine, nonostante la riflessione ancora aperta, rimane un riferimento significativo per tutte le discipline che si occupano dello studio del linguaggio come comunicazione.