• Non ci sono risultati.

L’innovazione democratica e la democrazia alimentare

DEL CIBO A LIVELLO LOCALE: LE ESPERIENZE DI LIVORNO E PISA

2. L’innovazione democratica e la democrazia alimentare

partecipativo-deliberativa

Nel quadro generale della teoria dell’"innovazione de- mocratica", in questo paragrafo introduciamo il costrut- to della "democrazia partecipativo-deliberativa" come prospettiva teorica e pratica per la democratizzazione delle governance alimentare (a livello locale), facendo riferimento alla sua dimensione più propriamente politi- ca che riguarda il processo di policy making e la costru- zione di nuovi meccanismi e strumenti di governance urbana. A tale scopo seguiamo un approccio di tipo pragmatico (Elstub e Escobar, 2017; Hassenin, 2003; 2008) che si contrappone al tradizionale approccio normativo-teorico tipico della letteratura accademica sulla democrazia partecipativa e sulla democrazia de- liberativa.

Il concetto di "innovazione democratica" è emerso e si è sviluppato intorno agli anni 2010 a partire dal lavoro di Smith (2009) ed è utilizzato come termine ombrello per descrivere tutte quelle istituzioni o processi che sono specificamente creati per incrementare la partecipa- zione, la deliberazione e influenza dei cittadini nei pro- cessi di decisione politica (Elstub e Escobar, 2017, p. 25). Tali processi e istituzioni si distinguono dai modelli tradizionali di tipo rappresentativo-aggregativo, dove la partecipazione dei cittadini al governo democratico è ristretta all’espressione del voto dei propri rappresen- tanti in elezioni libere (Trettel 2015). Il concetto di "inno- vazione democratica", infatti, si inserisce all’interno del dibattito sulla crisi del modello liberale di democrazia rappresentativa che, a partire dagli anni ’60-70, si è svi- luppato attorno alla teoria "democrazia partecipativa" e, successivamente, ma senza alcuna sequenza logica o temporale (Floridia 2013; p. 26), a partire dagli anni ’80 ha visto l’emergere della teoria della "democrazia deliberativa". Dagli anni ’90, poi con il c.d. "deliberative

turn", la teoria della democrazia deliberativa ha com- pletamente egemonizzato il dibattito e soppiantato la teoria della democrazia partecipativa anche se, intorno agli anni 2000, quest’ultima ha avuto un ritorno in auge grazie alla ricerca teorica che si è sviluppata attorno all’esperienza di Porto Alegre (Floridia, 2014; 2018). In questo capitolo non abbiamo lo spazio per un appro- fondimento sulle teorie della democrazia partecipativa e deliberativa e sulla loro distinzione normativa, per i quali rimandiamo al lavoro di Floridia (2014, 2018). Ci focalizziamo, invece, sull’approccio pragmatico della teoria dell’"innovazione democratica" finalizzato a supe- rare il dualismo normativo esistente tra la democrazia partecipativa e la democrazia deliberativa, e a riconci- liarle in un’unica forma pratica (Elstub e Escobar, 2017). In questo ambito e come evoluzione del concetto di "democrazia deliberativa capacitativa" (empowered deliberative democracy) elaborato da Fung e Wright (2001), introduciamo il costrutto della "democrazia partecipativo-deliberativa" in cui i cittadini partecipa- no a processi decisionali e assumo decisioni colletti- ve attraverso la deliberazione (della Porta, 2013; Cini e Felicetti, 2018; Bua e Escobar, 2018, Elstub, 2018). La "democrazia partecipativo-deliberativa" combina gli elementi di inclusione e potere decisionale propri della democrazia partecipativa con il metodo di scelta so- ciale basato sulla deliberazione dialogica tipico della democrazia deliberativa. In tal senso, la "democrazia partecipativo-deliberativa" si presenta come modello alternativo alla democrazia rappresentativa in relazio- ne alle tre componenti fondamentali attraverso cui si articola il modello di decisione pubblica: l’inclusione sociale, l’influenza sulle decisioni e il meccanismo di scelta sociale.

In relazione al primo aspetto, la democrazia rappresen- tativa si fonda su un "sistema di delega" in cui la par- tecipazione dei cittadini è ristretta all’espressione del voto attraverso cui, in elezioni libere, sono eletti i propri rappresentanti. Attraverso il voto, i cittadini delegano il potere decisionale in tutte le questioni pubbliche: ai rappresentati eletti che prendono le decisioni; all’ap- parato burocratico che implementa le leggi, politiche, regole, idee e funzioni, ma che a sua volta è in grado di influenzare le decisioni pubbliche e, infine, agli esperti che supportano i rappresentati e l’apparato burocratico. Delegando il proprio potere, i cittadini non hanno alcuna influenza nei processi di policy-making. In opposizione al sistema di delega della democrazia rappresentati- va, la democrazia partecipativo-deliberativa prevede l’inclusione sociale, ossia il coinvolgimento diretto del maggior numero possibile di cittadini nei processi de- cisionali e, a tale coinvolgimento, corrisponde anche la loro capacitazione.

Il secondo aspetto che differenzia la democrazia par- tecipativo-deliberativa rispetto a quella rappresentati- va, riguarda proprio il potere decisionale dei cittadini. Come evidenzia Arnstein (1969) "la partecipazione dei

cittadini è una categoria del potere dei cittadini" (Arn- stein 1969, p. 216). Nella democrazia rappresentativa il potere decisionale è completamente demandato dai cittadini ai rappresentanti politici, mentre nella parte- cipazione-deliberativa l’influenza dei cittadini sulle de- cisioni si sviluppa al suo massimo grado attraverso la capacitazione in cui i cittadini prendono le decisioni che sono poi attuate dalle istituzioni politiche. Facen- do riferimento alla scala della partecipazione proposta

dall’International Association for Public Participation (IAP2) (tab. 1) (Carson 2008; Davis e Andrew 2017; Stout, 2010), possiamo affermare che nella democra- zia partecipativo-deliberativa, la partecipazione è intesa come capacitazione (empowerment) per cui a decidere sono i cittadini. Altre forme di "partecipazione" quali la consultazione, il coinvolgimento e la cooperazione, che fanno parte della democrazia deliberativa, non rientrano nel modello di democrazia partecipativo-deliberativa.

Tabella 1. Lo spettro della partecipazione pubblica secondo IAP 2. Fonte: nostra traduzione da www.iap2.org.

Infine, la democrazia partecipativo-deliberativa si di- stingue dalla democrazia rappresentativa anche in re- lazione ai meccanismi di scelta sociale. All’interno del sistema di democrazia rappresentativa i meccanismi di scelta sociale sono principalmente tre: comando e controllo (degli esperti o della burocrazia), l’aggregazio- ne (es. il voto) e lo scambio strategico e negoziazione (Fund e Wright, 2001; Fung, 2006). Il meccanismo di scelta decisionale della democrazia partecipativo-deli- berativa, invece, è la deliberazione che Bächtiger et al. (2018; p.1) definiscono come una comunicazione reci- proca in cui il pubblico riflette e soppesa le preferenze, i valori e gli interessi che riguardano materie di interesse collettivo. La deliberazione costituisce una modalità di assunzione di decisioni in cui i soggetti, portatori di si- stemi di preferenze e credenze diversificati, confronta- no dialogicamente idee, argomenti e posizioni. Il libero e paritario confronto tra argomentazioni razionali in cui è esclusa ogni coazione all’infuori di quella dell’argo- mento migliore (Habermas 1986; Vol I, p. 83) risulta

"costitutivo" della decisione collegialmente presa, che emerge dalla trasformazione delle preferenze individua- li pre-deliberazione.

2.1. La democrazia partecipativo-

deliberativa nella pratica: le arene

partecipativo-deliberative

I processi partecipativo-deliberativi non avvengono spontaneamente, al contrario sono necessari specifici meccanismi politici attraverso cui coinvolgere i citta- dini e gli altri attori sociali al fine di pervenire ad una decisione finale (Levin et al, 2005; Lewanski, 2007). A tale scopo per Bobbio (2002), è necessario creare delle "arene deliberative", ossia degli specifici spazi pubblici artificiali all’interno deli quali poter sviluppare i percor- si decisionali, chiamati nella letteratura anglosassone mini-pubblici (Pateman,2012; Fung 2006). A partire dal

lavoro di Bobbio (2002), in questo capitolo proponia- mo lo strumento delle "arene partecipativo-deliberative" come spazio politico artificiale d’interazione dialogica a "carattere circoscritto" (Saward; 2000) creato all’in- terno delle istituzioni democratiche (rappresentative) con l’obiettivo di sviluppare un percorso decisionale di tipo partecipativo-deliberativo. Le arene partecipa- tivo-deliberative, perché possano definirsi tali, devono presentare particolari caratteristiche:

1. Essere create ad hoc per affrontare, in un arco di tempo predefinito, un problema specifico ed avere un orientamento pratico;

2. avere un "setting deliberativo" altamente strutturato; 3. essere guidate da esperti di partecipazione esterni con posizione di terzietà rispetto al contesto, ai par- tecipanti e all’oggetto della discussione;

4. essere inclusive e capacitative (partecipative); 5. decidere attraverso la deliberazione (deliberative). Le arene partecipativo-deliberative non sono degli spa- zi pubblici permanenti e istituzionalizzati nel sistema democratico rappresentativo come strumenti ordinari di supporto alle decisioni pubbliche, ma sono istitui- te puntualmente per affrontare questioni specifiche ed hanno una durata programmata, evitando così che la discussione si svolga in una dinamica incontrolla- ta, senza un inizio ed una fine definita, perdendosi in mille direzioni diverse che rischiano di portare lontano dall’oggetto della discussione e di non pervenire ad una decisione finale.

In secondo luogo, le arene partecipativo-deliberative non si sviluppano spontaneamente attraverso la libera ed incondizionata interazione tra i partecipanti, ma si svolgono all’interno di un preciso "setting deliberativo" con cui si intende l’insieme ampio e strutturato di re- gole, metodologie e tempi all’interno dei quali si svolge il processo decisionale (Elster, 1998). Tale cornice di regole, non deve essere intesa come una gabbia che limita la libertà di espressione dei partecipanti ma, al contrario, deve essere considerata una tutela affinché il processo decisionale non venga manipolato in itine- re per favorire l’emergere di determinati orientamenti (Bobbio e Pomatto, 2007).

Poiché i processi partecipativo-deliberativi non si au- to-generano, c’è bisogno di esperti che li organizzino e li guidino. Come sostengono Levine et al. esiste il rischio che la deliberazione sia troppo influenzata e indirizza- ta dagli organizzatori specializzati, ma il pericolo più grande è l’assenza di un’organizzazione competente che gestisca tali processi (2005; p. 3).

L’aspetto cruciale del ricorso ad esperti esterni riguarda la loro posizione di terzietà e imparzialità rispetto al committente, agli specifici interessi rappresentati dai partecipanti (Bobbio e Pomatto, 2007) e all’oggetto della discussione. In relazione a quest’ultimo aspetto,

tuttavia, non esiste una visione condivisa. Secondo Pecoriello e Rispoli (2006; p. 118), infatti, l’estraneità/ indifferenza comporterebbe un congelamento degli esperti in fredde dinamiche tecnocratiche. Lo stesso vale anche in relazione all’estraneità/competenza, per cui esperti della partecipazione dovrebbero preferibil- mente avere un certo livello di conoscenza dei conte- nuti del processo partecipativo.

Le arene partecipativo-deliberative devono essere inclu- sive e partecipative. Al contrario della retorica comune secondo cui il potere politico non offre opportunità di partecipazione alla società civile desiderosa di parteci- pare alla vita pubblica, occorre sottolineare come nelle nostre società, caratterizzate dal declino della sfera pubblica, ossia la riduzione della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica (Pellizzoni e Osti, 1999), le persone disposte a partecipare sono una frazione minu- scola della popolazione (Bobbio 2006). L’inclusività non può essere ricondotta semplicemente a creare spazi politici aperti affinché tutti i soggetti sociali possano prendere parte ai processi decisionali, ma deve riguar- dare anche il processo di coinvolgimento dei cittadini e quindi un ruolo proattivo degli organizzatori nel coin- volgimento degli stessi. La seconda dimensione della partecipazione riguarda il grado di empowerment, ossia il potere di influenza dei partecipanti sulle decisioni e le arene partecipativo-deliberative, si possono definire tali solo nel caso della capacitazione dei partecipanti, dove le decisioni assunte sono implementate dalle istituzioni rappresentative.

Le arene deliberative decidono attraverso la delibera- zione. Le dimensioni della deliberazione sono due: il dialogo come metodo decisionale e il consenso sulla decisione assunta. Secondo Curato et al. (2017) il fat- to che la democrazia deliberativa e quella aggregativa contrastino in teoria non significa che siano antitetici anche nella pratica. Se attraverso il solo dialogo non è possibile pervenire ad una decisione finale perché le parti non riescono a trovare un accordo, è possibile co- munque adottare lo strumento del voto. La questione del consenso è un secondo aspetto critico della deli- berazione dialogica, visto che nella teoria il processo decisionale deve produrre una decisione finale consen- suale. Nella realtà la deliberazione, spesso, non genera il consenso pieno anzi, per Dryzek (2000; p. 170) "in un mondo pluralista il consenso è inottenibile, non ne- cessario e non desiderabile", ciò che interessa è "un accordo in cui i partecipanti convengono sul corso di un’azione, ma da diversi punti di vista".

3. La metodologia della ricerca

Outline

Documenti correlati