Riquadro 5: mappa concettuale del processo partecipativo Education Equals Economics
3.2 L’oggettività relativa: i valori nella pratica valutativa
Nel presentare gli elementi che distinguono la valutazione da altri tipi di analisi, Nicoletta Stame ne sottolinea brevemente anche la dimensione etico-normativa [Stame 1998]. In effetti, al di là di ogni valenza implicita nell’etimologia del verbo “valutare”, il riferimento ai valori è senza dubbio una degli elementi costitutivi della valutazione, e questo per numerose ragioni. Per illustrare quest’aspetto fondamentale della valutazione in modo semplice, conviene distinguere le fonti dei valori nella valutazione in fonti interne ed esterne alla sua logica [Saporiti 2001]. Cominciamo dalle fonti esterne. Innanzitutto la valutazione è di per sé un valore. Non solo e non tanto perché è essa stessa conoscenza, bensì perché nasce da un apprezzamento positivo del suo ruolo e delle sue funzioni sociali. A ben vedere, all’origine dell’idea della valutazione c’è la convinzione che tra conoscenza e azione umana sussista un nesso ben preciso, di tipo quasi logico, la convinzione, in altre parole, che per agire razionalmente in vista di uno scopo sia necessario conoscere. Nel caso specifico, tale convinzione si traduce nel riconoscimento di un’esigenza conoscitiva da parte della comunità, finalizzata ad un uso razionale delle risorse già investite in attività di carattere sociale per il benessere della popolazione. In breve, l’impresa della valutazione, consiste nel porre i metodi e le tecniche della scienza sociale a servizio dell’uso razionale delle risorse e del miglioramento delle politiche di benessere sociale [Simon, Yuchtmman 1983]. Questa definizione esprime un valore di fondo della società: la conoscenza non soltanto come valore in sé, ma anche come strumento di un agire razionale, ovviamente non ristretto alla valutazione. Un secondo e più specifico motivo che rende conto della presenza della dimensione etica nella ricerca valutativa e più in generale nella valutazione riguarda le funzioni stesse della valutazione. È intuibile che fare valutazione non è una questione che riguarda esclusivamente la volontà, gli interessi del ricercatore e basta. Al contrario, dato il suo oggetto più “canonico”, le politiche pubbliche e non, essa richiede necessariamente l’iniziativa e la partecipazione attiva di un “committente”- lo Stato, soggetti privati, ecc.,- il quale promuove, predispone, finanzia, ne sceglie i destinatari, controlla e spesso conduce direttamente l’intervento.
In questo processo si possono individuare due possibili tipi di funzioni della valutazione. Una funzione che possiamo definire “manifesta”, nel senso che è dichiarata ed è nota a tutti gli attori che prendono parte al processo di valutazione e che consiste, appunto, nel determinare in un qualche
modo il merito dell’azione intrapresa dal committente. La seconda, invece è funzione, per così dire, latente in una duplice valenza: nel senso che, pur intenzionale, non è dichiarata, e/o nel senso che viene percepita in modo diverso da quella manifesta, soprattutto da parte dei destinatari dell’intervento. Le forme che può assumere questa funzione latente sono sostanzialmente due, e in buona parte contrapposte: quella del controllo sociale e quella di un contributo alla crescita della coscienza sociale in generale e della partecipazione al processo di democratizzazione della società. Però uno dei rischi che corre il ricorso sistematico e rigoroso alla pratica della valutazione dell’azione è quello di essere concepita e/o intesa come una forma di controllo sui comportamenti e sulle attività dei cittadini [Saporiti 2001]. Che la valutazione assuma una funzione di controllo sociale è più probabile accada nel caso di quella che a volte viene chiamata management-oriented evaluation, ovvero una valutazione fortemente orientata da esigenze gestionali e amministrative e che tende a porre in secondo piano la considerazione degli scopi delle attività oggetto di indagine valutativa. Questa forma di valutazione, per lo più centrata sulla misurazione dell’efficienza dei processi lavorativi e della produttività, e in genere sotto il diretto controllo di una autorità centrale, è tipica di vasti settori della Pubblica Amministrazione, che se ne serve per razionalizzare la spesa pubblica, ma anche di tutte quelle istituzioni e organizzazioni nazionali e internazionali che finanziano programmi e progetti di intervento sociale (ONU, Banca Mondiale, OCSE, CEE, fondazioni, ecc.) e, quindi, che sono soprattutto interessate al calcolo economico dei programmi finanziati [Tarozzi 1992]. Tuttavia, una concezione per così dire “repressiva” della valutazione può anche scaturire dalla percezione che ne hanno i soggetti cui è diretta l’azione da valutare. Si prendano ad esempio tutti quegli interventi annunciati, e magari non attuati, per ridurre le così dette “stragi del sabato sera”; oppure quelli pensati a contrastare certi tipi di prostituzione. In entrambi i casi, i destinatari diretti di tali interventi: giovani, ragazze e ragazzi, ma anche coloro che indirettamente ne verrebbero coinvolti: ad esempio, i gestori delle discoteche e, per quanto assurdo sia, i “clienti” delle prostitute possono essere richiesti comportamenti e modi di essere che agli stessi appaiono come una limitazione del proprio stile di vita, come una limitazione della sfera delle libertà individuali. Senza esprimere alcun giudizio di carattere etico sui fenomeni appena citati, è possibile affermare che non c’è nulla di cui stupirsi se si pensa che le politiche sociali sono nate come forma di controllo per le classi subordinate, come opportunità e necessità di includere nella società civile una parte emarginata e potenzialmente pericolosa della popolazione. E tuttavia, questa valenza negativa della presenza dell’etica della valutazione è solo l’estremità di un continum che all’altro capo ne esclude del tutto la funzione di “controllo” come ragione d’essere. E quindi la valutazione può assumere una valenza estremamente positiva, sia dal punto di vista sociale, sia da quello dei singoli individui o dei gruppi che ne sono coinvolti. C. H. Weiss nel suo scritto “Policy
una sorta di apprendimento sociale che procede secondo un processo, per così dire, “evolutivo” per tentativi ed errori, un processo in cui l’insorgenza o il riconoscimento dell’esistenza di un problema sociale genera possibili soluzioni che alla prova dei fatti possono risultare risolutive, e allora entrano a far parte della cultura della comunità, oppure fallimentari, venendo in tal caso a costruire quella imprescindibile esperienza per l’elaborazione di altri e diversi percorsi di azione. Ancora Weiss sottolinea che «Quando, (attraverso la valutazione) emergono nuovi concetti e nuove testimonianze empiriche, il loro effetto graduale e cumulativo può essere, da un lato, quello di cambiare le convenzioni cui si conformano i decisori politici, dall’altro quello di ristrutturare gli scopi e le priorità del mondo della politica concreta» [Weiss 1998: 544]. Come processo di apprendimento sociale generalizzato e come forma di conoscenza in linea di principio trasparente e condivisa, la valutazione viene così a svolgere anche un ruolo attivo nel processo di democratizzazione sociale. In un certo senso, la valutazione è anche tale da poter invertire la direzione di controllo sociale, o quanto meno da completarne il processo circolare: non più soltanto dall’alto verso il basso, dai policy makers ai destinatari, ma anche dal basso verso l’alto, dagli utenti, dai cittadini ai governanti. E tanto più questo è vero, quanto più la pratica della valutazione ha scoperto, da un lato il valore quasi determinante della “partecipazione attiva” dei potenziali beneficiari dei programmi d’intervento sociale per la riuscita delle politiche sociali e non, dall’altro, il valore altrettanto determinante della loro partecipazione per poter produrre della “buona” valutazione. Se questo raccordo esterno, come l’abbiamo precedentemente classificato, tra valutazione e valori può non sembrare del tutto immediato, c’è un modo più diretto e sostanziale che dipende dal fatto che ogni questione di valutazione nasce da una o più questioni di politica. Ogni intervento pensato, programmato e attuato per incidere sulla realtà sociale, sulle condizioni di vita di singoli individui e/o di interi gruppi sociali, è sempre l’espressione delle priorità legislative ed esecutive della politica, e per ciò stesso sempre “carica” di valori [Saporiti 2001]. Se davvero la politica è il governo della cosa pubblica, anche le scelte comunemente affrontate, non possono non riflettere scelte di valore che rimandano a particolari concezioni del mondo, della società e dei rapporti che governano le relazioni tra governanti e governati, nonché quelle tra singoli individui e tra gruppi sociali. Come modalità di azione pubblica, le politiche sociali traggono, quindi, linfa vitale da concezioni particolari del bene e del male, di ciò che è giusto o ingiusto fare; dalle idee sulla uguaglianza e sulla giustizia, sui diritti degli individui e dei gruppi sociali, sulle cause della povertà, ecc. Assumendo che la politica opera in un contesto di risorse sempre più limitate e che, quindi, deve necessariamente fare delle scelte dal punto di vista etico, ogni intervento sociale solleva problemi e questioni almeno sotto quattro aspetti:
• in primo luogo è la scelta stessa di un certo intervento piuttosto che un altro che genera questioni e conflitti di valore;
• in secondo luogo, questioni analoghe sorgono riguardo ai diversi modi in cui si può intervenire nell’ambito di un’azione programmata per raggiungere un determinato fine. Se il programma esprime una determinata strategia sociale, l’intervento ne rappresenta, per così dire, la tattica;
• in terzo luogo, anche le modalità concrete di intervento, vale a dire gli strumenti impiegati per raggiungere gli obiettivi di un programma, possono generare forti conflitti di valore;
• infine, è la stessa determinazione “oggettiva” degli esiti di un programma o di un intervento sociale ad essere “toccata” dai valori che fanno parte del bagaglio umano di ciascuno di noi, valutatori inclusi.
A titolo esemplificativo, è del tutto plausibile ipotizzare che molto probabilmente, chi ha un orientamento proibizionista nei confronti della tossicodipendenza, se lo porti con sé quando è chiamato a valutare la chiusura di una nota discoteca del riminese; allo stesso modo chi ha una concezione fortemente individualista della responsabilità di ciascuna persona e della condotta di vita, sarà certamente più attento nel valutare i risultati di un programma diverso. Certo che non tutte le politiche generano necessariamente conflitti di valore. Nessuno, ad esempio, si opporrebbe ad un programma teso a ridurre la tossicodipendenza; è sul “come” che si generano varie ipotesi con il carico di valori che ognuna delle ipotesi si porta dietro.
Ciò che in sintesi si vuole esprimere è che non c’è politica sociale senza che vi sia una dimensione etica, e quindi che non c’è valutazione senza che entrino in gioco considerazioni d’ordine etico. Di più, è la stessa decisione di politica di fare/non fare valutazione che esprime un valore: il primato dell’agire politico rispetto all’agire razionale-scientifico.
Nonostante i fautori dell’approccio ingegneristico [Megginson, Mosley 1994] alla valutazione, non si può negare che chi fa valutazione sia coinvolto anche in scelte di valore, al di là della discussione sul carattere più o meno oggettivo delle scienze sociali in generale. Le fonti interne della dimensione etica della valutazione sono presenti in un duplice senso: nella formazione del giudizio di merito e in alcuni dei suoi più importanti momenti operativi. In senso propriamente tecnico e generale, valutare significa determinare gli esiti di un certo corso d’azione per vedere fino a che punto sono conformi alle aspettative connesse al corso d’azione. Inoltre, si può affermare che il metodo sotteso a questo processo è quello sperimentale. È ora opportuno aggiungere che l’analisi sperimentale si basa, in ultima analisi, sul metodo comparativo, sulla capacità cioè, di giudicare l’esito delle azioni umane rispetto a standard di giudizio prefissati, oppure sulla capacità di formulare giudizi confrontando situazioni o eventi che si differenziano per qualche elemento o qualche caratteristica. Tutto sommato l’approccio sperimentalista di Sabel è adottabile anche nel processo valutativo.
Quello che si vuol evidenziare è che la valutazione non può essere un mero strumento scientifico, neutro ed “oggettivo”, per supportare le scelte razionali dei policy makers e degli amministratori. É
in realtà una verità tra le verità che essa può spingersi ad una oggettività relativa che solo l’argomentazione può ottemperare. Questa è la posizione di molti autori: Wittgenstein, Popper, Montagne, Boas, Margaret Mead. Fino a M. Scriven, per il quale la ricerca valutativa è una disciplina in cui i valori entrano in gioco in molti e differenti modi, sino al punto da poterla considerare come la “scienza del valutare”. Per Scriven: «Il bene è il bene e il male è il male, e il compito del valutatore è stabilire ciò che è bene e ciò che è male» [Scriven 1980: 19]. Se è vero che valutare significa in ultima analisi esprimere giudizi di valore, allora qualcuno potrebbe obiettare che la ricerca valutativa, così intesa, trascende il compito delle discipline positive, seppure interessate e applicate al sociale [Scriven 1980]. Così scrive ancora M. Scriven «La ricerca valutativa deve produrre conclusioni esattamente quel tipo di affermazioni che per anni gli scienziati sociali hanno considerato illegittime: un giudizio di valore, di merito, un giudizio su ciò che è desiderabile. È questo il grande significato scientifico e filosofico della ricerca valutativa» [Scriven 1991:4]. Con questo non si intende certo affermare che i classici canoni del controllo e dell’evidenza empirica non rientrino nel programma costitutivo della valutazione, e che questa debba abbandonare i criteri del metodo scientifico, al contrario, però il grande merito di una posizione del genere sta nel fatto di ridurre le pretese del modello tecnico-razionale della ricerca valutativa, pur non negandone i fondamenti di validità. È l’argomentazione, la descrizione dei risultati, dei passaggi e delle posizioni degli individui che si apprestano a valutare che danno il senso dell’oggettività relativa. Scrive sempre Scriven: «Il valore di un programma, il merito di un insegnante o la qualità di un prodotto non sono altro che costrutti teorici la cui natura può manifestarsi in un numero indefinito di implicazioni fattuali, tutte interconnesse nella rete dei nostri concetti, dei nostri bisogni e del nostro ambiente, e che, come ogni altro costrutto umano, sono utilizzate sia nella sfera delle attività intellettuali, sia nel mondo della pratica. Non è possibile accettare il ruolo dei costrutti empirici nella scienza e poi proporre una qualsiasi argomentazione contro il ruolo dei costrutti di valore» [Scriven 1991: 41].
Nel discutere le questioni epistemologiche sul ruolo della sperimentazione nelle scienze sociali applicate e, quindi, indirettamente pure nella valutazione, Campbell riprende la classica distinzione tra fatti e valori affermando che: «Noi tutti siamo dei valutatori così pervasivi che nessuno dei fatti di questo mondo può essere asserito senza esprimere anche una connotazione valutativa, ma ciò non toglie nulla alla distinzione tra fatti e valori». Il concetto della oggettività relativa aiuta a comprendere che una politica, un programma o un progetto, oltre a determinare un giudizio di valore, deve essere sempre descritto al fine di apporre una metavalutazione; descrivendo infatti si permette a chi legge il report di valutazione di conoscerne i criteri.