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Riquadro 6: L’albero della valutazione

4. IL QUADRO SUI SERVIZI SOCIALI E LO STATO DELL’ARTE DEL WELFARE SOCIO-SANITARIO ATTUALE IN ITALIA

4.3 Il piano di zona

Il termine “Piano di Zona” deriva dalla cultura urbanistica. «Il Piano di Zona innesca una ulteriore

possibilità di attuazione del Piano Regolatore con gli interventi in materia di edilizia economica e popolare che, un tempo episodici e perciò disarticolati ed incoerenti, possono essere organicamente strutturati per quartieri o almeno per unità residenziali ed essere così compiutamente urbanizzati nel contesto di un programma operativo debitamente inquadrato in una ragionata politica urbanistica del Comune, coerente con un più razionale processo di sviluppo dell’intero abitato […]. Il Piano di Zona deve contenere essenzialmente la rete viaria principale e di distribuzione, gli spazi riservati ad opere e impianti di interesse pubblico, gli standard di verde pubblico, gli spazi per le attrezzature sociali, religiose, scolastiche, commerciali» [www.uniroma3.it/facoltà/economia].

Questo riferimento consente di riflettere su come il termine “Piano di Zona” sia stato usato per restituire “concertazione” alle politiche territoriali. È facilmente intuibile quanto ciò sia necessario in tutte le politiche sia urbanistiche che sociali. Come in urbanistica, i Piani di Zona sono strumenti di riqualificazione e di ottimizzazione insediativa di un’area, così nel sociale, i piani di zona sono lo strumento per guidare più rapidamente il passaggio da una cultura assistenziale di erogazione dei servizi alla persona bisognosa, ad una politica positiva dei servizi rivolti alle persone e all’intera comunità locale.

Il Piano di Zona va visto come lo strumento finale dell’intero impianto di riforma concepito dalla L. 328/2000, dato che ne rappresenta l’elemento conclusivo della pianificazione dei servizi e degli interventi, ed al tempo stesso è il punto iniziale della loro implementazione e del loro monitoraggio, rappresentando lo strumento fondamentale attraverso il quale viene concepito un piano strategico di progettazione di interventi sociali da attivare, che alle risorse da utilizzare.

Nella complessità che oggi caratterizza la vita quotidiana, è necessario che le Comunità locali sappiano leggere e guidare globalmente il proprio sviluppo, dandosi progetti ed obiettivi innovativi, concreti ed efficienti, non è detto che il piano di zona sia lo strumento ultimo di rappresentazione di quanto espresso, ma potrebbe esserne uno. L’elaborazione del piano vorrebbe chiamare la società locale a nuovi scenari di responsabilità nel quali hanno un ruolo di primo piano i Comuni in quanto

ambiti primari di identificazione dei bisogni. Il Piano di Zona però ad oggi viene indicato come uno strumento critico, superato, obsoleto. A mio avviso, era stato visto come un’opportunità strategica, ma in realtà spesso viene visto come un adempimento formale, superato fin dal momento della sua approvazione, un documento statico o come un semplice censimento dell’esistente. Altresì il piano di zona ha degli elementi positivi che vanno aldilà della sua predisposizione a porre la persona al centro del sistema di servizi. Inoltre, il Piano di Zona è uno strumento unitario (sociale e socio- sanitario) promosso da diversi soggetti istituzionali e comunitari per:

• l’analisi quali-quantitativa dei bisogni della popolazione;

• l’individuazione delle risorse pubbliche, private e del privato sociale, disponibili e/o attivabili sul territorio;

• la definizione degli obiettivi e delle priorità attorno a cui finalizzare l’uso delle risorse;

• la realizzazione di modalità organizzative e gestionali, flessibili e creative dei servizi, tali da configurarsi come rete di risposte all’interno di un’azione programmatoria unitaria;

• l’individuazione di forme gestionali dei servizi a livello distrettuale.

Il punto di partenza dei Piani di Zona dovrebbe essere il bisogno sociale e le esigenze locali del cittadino, e non il sistema delle offerte pubbliche. Data la premessa, diventa importante l’analisi del contesto territoriale che è, da un lato, destinatario degli interventi, ma anche realtà capace, dall’altro, di esprimere le proprie risorse e potenzialità, di sviluppare risposte adeguate e stabilire priorità. Di vitale importanza, quindi, risulta essere la lettura dei bisogni comprendendo:

1. i bisogni espressi dalle persone; 2. i bisogni recepiti dai servizi;

3. i bisogni presentati agli organismi intermedi della comunità; 4. i bisogni individuati con ricerche finalizzate.

Nel capitolo dedicato ai casi del community lab sarà possibile argomentare in merito all’intersezione tra piani di zona e partecipazione e quanto quest’ultimo principio sia entrato dentro la programmazione in maniera tangenziale, modificando un’area/tavolo o abbia trasformato l’intero documento.

La lettura partecipata dei bisogni, da parte dei diversi soggetti della comunità locale, diventa fondamentale se il bisogno, anziché essere considerato una categoria rigida e non modificabile nel tempo, viene definito come scarto tra ciò che dovrebbe essere e ciò che è, tra il livello di benessere auspicato e le condizioni di vita delle singole persone, delle famiglie, dei gruppi. A mio avviso, Il piano, in tale ottica, può ipotizzare lo sviluppo di attenzioni, interventi, progetti, tesi a qualificare i “normali ambiti di vita”, le “relazioni quotidiane”, a rinforzare e alimentare le reti primarie, a sviluppare buone pratiche di auto-muto-aiuto, e in questo caso vanno definiti anche obiettivi di promozione.

Il Piano di Zona deve quindi essere costruito attorno ad un insieme di obiettivi, individuando, la domanda sociale e le risposte già presenti sul territorio, la formazione di sistemi di intervento diffusi sul territorio, non frammentati, complessi, ampi, personalizzati e flessibili, la valorizzazione ed il coinvolgimento delle risorse comunitarie [www.isfol.it]. Il Piano di Zona è visto quindi come uno strumento adatto a perseguire localmente una molteplicità di fini.

Una prima finalità che non va trascurata e dalla quale derivano in un certo senso tutte le altre, è relativa alla volontà di de-frammentare ed integrare, sia spazialmente che in termini di attori, un sistema di interventi che in Italia si è invece a lungo caratterizzato per un eccessivo sfilacciamento [www.cittasotenibili.it]. Il Piano di Zona, da questo punto di vista, è analizzabile sia come strumento per tale interazione fra attori, che come conseguenza di un processo di deframmentazione spaziale operato tramite l’individuazione degli Ambiti territoriali, sicuramente ancora definibili come unità amministrative ma in alcuni casi del community lab come unità ecologiche. Il piano di zona era stato pensato come lo strumento cardine nell’area delle politiche sociali locali. La sfida della legge 328/2000, come evidenziato nel paragrafo precedente, e quindi degli strumenti messi a disposizione per la programmazione e per la gestione a livello del sistema degli interventi, si basa appunto sulla volontà di costruire un “sistema” e non un semplice modello, in cui vengono giustapposti servizi, attori e interventi differenti [www.qualitapa.gov.it]. Il problema di natura organizzativa che sorge è quello di individuare un organo “perno”, che abbia il ruolo di facilitare il collegamento e l’integrazione fra i vari soggetti e strumenti di intervento. Si è agito in alcune Regioni, con la costituzione di “Uffici di Piano”, o l’istituzione di figure di “promotore sociale/coordinatore di ambito”.

4.3.1 L’evoluzione legislativa, in Italia, dei piani di zona, dalle leggi degli anni 70 alla legge 328 del 2000

L’impostazione con il quale la scrivente ha deciso di illustrare le principali leggi di riferimento sul Piano di Zona non ha come unico riferimento questo strumento, che troverebbe spazio solo nella più recente legislazione, ma anche l’evoluzione storica con il quale si è arrivati a delineare quest’ultimo documento legislativo. Sembra quindi doveroso iniziare questa elencazione citando le leggi 382 del 1975 e il D.P.R. 616 del 1977 nel quale il Legislatore ha operato quella che allora appariva come la più chiara e decisa delle scelte: l’individuazione di un unico soggetto istituzionale – il Comune – al quale affidare tutte le funzioni amministrative concernenti l’organizzazione e l’erogazione di tutti i servizi sociali e sanitari. Prendeva l’avvio un grande processo di rinnovamento istituzionale, teso alla realizzazione del quadro autonomistico e democratico tracciato dalla carta costituzionale quasi

trent’anni prima. Con l’inizio degli anni novanta, il disegno riformatore si completa con la legge di riforma delle autonomie locali e con una serie di altri provvedimenti che con essa si integrano nel definire un nuovo assetto istituzionale e sociale, che in parte riconosce e in parte prefigura un nuovo e allargato sistema di responsabilità pubbliche. Con l’art. 3 del D.lgs. 517 del 1993 si evince che

«spettano alle Regioni e alle Province autonome, nel rispetto dei principi stabiliti dalle leggi nazionali, le funzioni legislative ed amministrative in materia di assistenza sanitaria ed ospedaliera. Spettano in particolare alle Regioni la determinazione dei principi sull’organizzazione dei servizi e sull’attività destinata alla tutela della salute e dei criteri di finanziamento delle Unità Sanitarie Locali e delle Aziende Ospedaliere, le attività di indirizzo tecnico, promozione e supporto nei confronti delle predette Unità Sanitarie Locali ed Aziende, anche in relazione al controllo di gestione e alla valutazione della qualità delle prestazioni sanitarie». In questo caso il Piano di Zona

rappresenta lo strumento più adatto alla gestione unitaria e integrata dei servizi alla persona oltre, naturalmente, alla delega dei Comuni all’A.usl. Con tale modalità di intervento viene anche garantito il ruolo fondamentale del Comune nella rappresentanza degli interessi locali e nelle risposte ai bisogni della comunità, secondo il principio della generalità dei fini del Comune (legge 142 del 1990). La legge 265 del 1999 all’art.2 recita: «Il Comune è l’ente locale che rappresenta la

propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo» e all’art.9 «Spettano al Comune tutte le funzioni amministrative che riguardino la popolazione ed il territorio comunale precipuamente nei settori organici dei servizi sociali, dell’assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, […]. Il Comune, per l’esercizio delle sue funzioni, in ambiti territoriali adeguati, attua forme sia di decentramento che di cooperazione con altri comuni e con la Provincia». Con il DPR del 23 Luglio 1998, si evince che «la complessità di molti bisogni richiede la capacità di erogare risposte tra di loro integrate, in particolare socio-sanitarie. Se non vengono predisposte condizioni istituzionali e gestionali per coordinare gli interventi dei diversi settori impegnati nella produzione di servizi, l’integrazione professionale non può bastare per migliorare la qualità e l’efficacia delle risposte. Per questo le Regioni devono incentivare le collaborazioni istituzionali entro ambiti territoriali adeguati a partire dalla dimensione distrettuale, formulando in via preferenziale Piani unitari dei servizi sanitari e sociali, a livello regionale e sub-regionale, tendendo distinti i flussi di finanziamento dei rispettivi ambiti di attività. La elaborazione di Piani di Zona dei servizi, in particolare dei servizi ad elevata integrazione socio-sanitaria, può essere utile premessa per ottimizzare le risorse, facilitare le responsabilizzazione e le collaborazioni […] il distretto rappresenta un centro di servizi e prestazioni dove la domanda di salute è affrontata in modo unitario e globale. Il distretto è struttura operativa dell’azienda ULSS; la sua autonomia gestionale è realizzata nell’ambito di programmi approvati dall’Azienda, tenendo conto dei Piani di Zona dei servizi, definiti in comune intesa con le amministrazioni comunali» [www.salute.gov.it].

Una legge importante affinché si abbia una visione completa del concetto di integrazione è il D.lgs. 229 del 1999 che sancisce il programma delle attività territoriali contenente gli interventi distrettuali per la salute; integrazione, in quanto l’Ente locale e le A.usl devono gestire questi due strumenti di programmazione in una logica di convergenza. Con il D.lgs. 267 del 2000, per quanto concerne le funzioni, si stabilisce che «spettano al Comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la

popolazione e il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell’assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico». Descrivendo

la Legge 328 del 2000, di cui si è già parlato con ottica diversa nel capitolo precedente, non si può non sottolineare l’importanza che il Legislatore attribuisce alla pianificazione e alla programmazione, nella realizzazione del sistema integrato di interventi e di servizi sociali. Infatti, ai principi per la programmazione egli dedica l’intero articolo 3 e alla pianificazione, quale strumento per favorire il riordino del sistema integrato di interventi e servizi sociali, quasi l’intero cap. IV, tre articoli (18,19,20) su quattro. Tre sono i livelli della programmazione delineati dalla riforma:

1. livello nazionale: Piano Nazionale degli interventi e dei servizi sociali (art.18); 2. Livello regionale: Piano Regionale degli interventi e dei servizi sociali (art.18); Questi due documenti sono già stati descritti nel paragrafo precedente

3. Livello locale: Piano di Zona (art. 19).

Per quanto concerne l’ultimo punto, si rispetta la schematizzazione adottata da Luigi Casagrande (2002) riassumibile nella seguente griglia:

la legge 328 del 2000 colloca il Piano di Zona al capo IV tra «gli strumenti per favorire il riordino

del sistema integrato di interventi e servizi sociali». Le finalità strategiche sono esposte all’art.19,

comma 2: «il Piano di Zona è volto a:

favorire la formazione di sistemi locali di intervento fondati su servizi e prestazioni complementari e flessibili;

qualificare la spesa, attivando risorse, anche finanziarie, derivate dalle forme di concertazione;

definire criteri di ripartizione della spesa a carico di ciascun comune, delle aziende unitarie sanitarie locali e degli altri soggetti firmatari dell’accordo;

prevedere iniziative di formazione e di aggiornamento degli operatori».

Il piano di zona deve contenere:

«Gli obiettivi strategici e le priorità di intervento, nonché gli strumenti e i mezzi per la relativa realizzazione;

le modalità organizzative dei servizi, le risorse finanziarie, strutturali e professionali i requisiti di qualità;

le forme di rilevazione dei dati nell’ambito del sistema informativo;

le modalità per realizzare il coordinamento con gli organi periferici delle amministrazioni statali;

le modalità per le collaborazioni dei servizi territoriali con i soggetti operanti nell’ambito della solidarietà sociale;

le forme di concertazione con l’ A.usl e con i soggetti in cui all’art. 1, comma 4»

Inoltre «sono oggetto del piano gli interventi sociali e sociosanitari:

sociali relativi ai minori, ai giovani, agli anziani, alla famiglia, ai portatori di handicap, i non vedenti e gli audiolesi, a tossicodipendenti e alcooldipendenti, gli invalidi civili, …

socio-sanitari relativi alle aree: materno infantile; disabili; anziani e persone non autosufficienti con patologie cronico-degenerative; dipendenze da droga, alcool e farmaci; patologie psichiatriche; patologie per infezioni da Hiv; pazienti terminali».

«Gli ambiti territoriali del Piano di Zona sono quelli determinati, previa concertazione con gli Enti Locali interessati, dalla Regione, ai sensi dell’art.8, comma 3, lettera a della Legge n° 328/2000, di norma coincidenti con i distretti sanitari già operanti per le prestazioni sanitarie»13.

I soggetti della pianificazione vengono definiti in questo modo: «i Comuni associati negli ambiti

territoriali […] d’intesa con le Ausl provvedono a definire il Piano di Zona (Il piano di zona è a titolarità comunale). L’intesa con le Ausl, sotto il profilo della programmazione, interessa le attività sociosanitarie, di cui all’art.3-septies del d.lgs 229/99, che vede nel Programma delle Attività Territoriali (Pat) lo strumento programmatico a livello distrettuale dell’Ausl, Piano di salute distrettuale (sul quale i Comitati dei sindaci di distretto devono esprimere al direttore generale il loro parere, “attività sanitarie”, e la loro intesa, “attività sociosanitarie”) (Il Pat è a titolarità dell’A.usl, art.3-quater del d.lgs 229/99)».

All’ art.3, comma 2, lettera b, e art.19, comma 3 viene stabilito che i «soggetti della pianificazione,

fermo restando la primaria responsabilità dei Comuni nella programmazione, sono i soggetti pubblici, ma anche i soggetti privati, di cui all’art. 1, comma 4, legge 328/2000 (ONLUS, organismi della cooperazione e cooperative sociali, associazioni ed enti di promozione sociale, fondazioni, enti di patronato, organizzazioni di volontariato, enti riconosciuti delle confessioni religiose, altri soggetti privati) che partecipano con proprie risorse alla realizzazione della rete, viene riconosciuto un ruolo attivo nella progettazione e nella realizzazione degli interventi».

«La concertazione nella formulazione degli obiettivi strategici di benessere sociale e la verifica del loro raggiungimento deve vedere anche il contributo delle organizzazioni sindacali, delle associazioni sociali e di tutela degli utenti (art.2, comma 6 e art.3, comma 2, lettera b della legge 328/2000). La provincia partecipa alla definizione e all’attuazione dei piani di zona, secondo le

13

Distretto sociosanitario: articolazione territoriale dell’azienda sociosanitaria che coinvolge un bacino minimo di utenza pari a 60mila abitanti (art. 3-quarter, comma 1. d.lgs 229/1999)

modalità definite dalla regione (art.7, lettera d, legge 328/2000)».

Infine il «Piano di Zona è di norma adottato attraverso Accordo di Programma (ex. Art. 34 d.lgs 18

Agosto 2000, n.267)».

Il DPR 3 Maggio 2001, attesta che, «Il Piano di Zona è lo strumento fondamentale attraverso il

quale i Comuni, con il concorso di tutti i soggetti attivi nella progettazione, possono disegnare il sistema integrato di interventi e di servizi sociali con riferimento agli obiettivi strategici, agli strumenti realizzativi e alle risorse da attivare». L’entrata in vigore della riforma costituzionale

(riforma del titolo V), nel 2001 rafforza la posizione delle Regioni, dotandole di tutti gli strumenti organizzativi e giuridici indispensabili per un ulteriore trasferimento di competenze. In particolare, essa consente una sostanziale ridefinizione della funzione legislativa. Si capovolge la precedente impostazione secondo cui le competenze legislative generali spettano allo Stato. Questo rafforzamento della funzione legislativa regionale comporta che l’attuazione della riforma non è più legata all’esclusiva attività legislativa dello Stato, ma alla qualità dell’attività legislativa delle singole Regioni ed a conseguenti azioni amministrative locali, chiare e coerenti con i bisogni dei territori.

4.3.2 La costruzione, gestione e valutazione dei piani di zona

Le premesse a cui ci si deve necessariamente riferire, affinché si abbia un quadro completo che termina con il ciclo di fasi di costruzione del Piano di Zona, si attengono alla grande complessità di cui è composto il mondo sociale, che vanno dalla «mutevolezza degli scenari e dei bisogni,

molteplicità, varietà e conseguenti possibili tensioni tra attori, sia istituzionali che sociali, incertezza delle diverse risorse, limitata conoscenza di soluzioni di efficacia certa, progressiva moltiplicazione degli ambiti di intervento dello Stato sociale e conseguente trasformazione delle relazioni tra i centri di governo dello stesso» [Battistella, De Ambrogio 2002: 49]. Anoni [2002]

sostiene che «il Piano di Zona, nella sua costruzione, non ha bisogno solo di riflessioni teoriche,

ma anche di indicazioni operative, che nascono dell’esperienza». Battistella [ibidem] divide il

processo di elaborazione del Piano di Zona, in quattro fasi. La prima fase definita «Avvio del

processo e costituzione dei gruppi di lavoro» prevede l’attivazione delle procedure per

l’individuazione e il coinvolgimento di tutti gli attori coinvolti nella pianificazione, per la definizione dei ruoli e per l’avvio dei tavoli di lavoro. Questa fase è fondamentale in quanto segnerà fortemente tutto il percorso successivo ed è quella in cui il ruolo dell’Ente locale è più forte. Il Piano di Zona deve rappresentare un momento in cui tutti dichiarano le proprie potenzialità per il sostegno di un sistema integrato di servizi, non un momento rivendicativo in cui far valere le

proprie necessità. I passaggi fondamentali di questa fase sono tre [ivi: 57]

1. Attivazione di organismi politici e tecnici a livello di ambito distrettuale per l’elaborazione e la gestione del piano. Questi organismi corrispondono ad un coordinamento politico di ambito distrettuale che coincide di norma con la Conferenza dei Sindaci che presiedono alle diverse fasi della predisposizione e della gestione del Piano di Zona e dell’Accordo di Programma, provvedendo a precisare i ruoli e funzioni dei diversi organi, a individuare il Comune capofila e i suoi compiti, la composizione e le competenze di un organismo tecnico di supporto; inoltre a un tavolo tecnico per il Piano di Zona, con funzioni di regia operativa del processo di elaborazione del piano, di coordinamento operativo dei diversi attori in campo, di presidio della funzione di realizzazione e attuazione del piano e delle connesse attività di monitoraggio, valutazione ecc.

2. Individuazione e coinvolgimento dei soggetti che parteciperanno in forme diverse al Piano di Zona. Per fare ciò occorre comporre una mappa degli Enti Pubblici, dei soggetti non profit e privati coinvolti poi prefigurare il possibile ruolo dei diversi soggetti, predisporre momenti in cui è possibile incontrarsi in modo tale che ognuno possa dare il proprio contributo ed infine identificare il ruolo di ogni soggetto rispetto alla sottoscrizione dell’Accordo di Programma. 3. Attivazione della rete dei soggetti chiamati alla gestione integrata degli interventi e dei servizi.

Ciò comporta la definizione di un sistema di obiettivi condiviso, in cui ciascun soggetto della rete possa riconoscersi, la previsione di iniziative concrete di informazioni, sensibilizzazione, coinvolgimento appropriate al ruolo partecipativo prefigurato per i diversi interlocutori e, infine,