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La distribuzione di un film in sala cinematografica

2.4. Distribuzione

2.4.6. La distribuzione di un film in sala cinematografica

Prima di andare a discutere i modi attraverso cui un film viene erogato al pubblico nel mercato primario e in quelli secondari, vale la pena approfondire le principali strategie di distribuzione di un film in sala e gli accordi che legano i distributori agli esercenti. Per fare ciò, è necessario partire dalla considerazione che, in accordo con quanto sostenuto

da Squire (2016), esistono fondamentalmente tre tipi di film che vengono realizzati ovun- que nel mondo:

• Le grandi produzioni hollywoodiane - i cosiddetti blockbuster - che sono indiriz- zate a un’audience quanto più vasta possibile. Si tratta di investimenti altamente speculativi, per i quali l’elevato rischio di perdite a cui sono associati in caso di fallimento viene in parte bilanciato dall’enorme potenziale di ricavi conseguibili anche per molti anni, grazie ai vari sfruttamenti del film. Come si è visto quando si è analizzata l’evoluzione del mercato cinematografico, un eventuale successo internazionale si traduce al giorno d’oggi in incassi ben più elevati rispetto a quelli ottenibili nel solo mercato locale. In relazione alla grande incertezza che contrad- distingue l’industria cinematografica, la realizzazione di questi film è da conside- rarsi come una sorta di grande scommessa;

• Film indipendenti “che viaggiano”, ossia quei titoli che riescono a trovare accordi per essere diffusi in più territori, in quanto posseggono delle caratteristiche che li rendono appetibili per i mercati esteri. Vengono scovati dai distributori interna- zionali e sono selezionati in base a giudizi soggettivi sulle potenzialità di successo del film nei mercati internazionali;

• Film indipendenti “che non viaggiano”, ossia quei titoli che non trovano spazio per essere distribuiti nei mercati internazionali. Si tratta della categoria in cui si collocano la maggior parte dei titoli al mondo e comprende film che sono realiz- zati generalmente a costi contenuti, bilanciati in proiezione dei ricavi attesi nel solo mercato in cui vengono commercializzati. Come si è visto, non sempre questi film riescono a trovare una distribuzione in sala cinematografica, dovendo in tal caso contare esclusivamente sui mercati secondari per recuperare gli investimenti.

Di conseguenza, il principale fattore delle scelte di distribuzione si lega al tipo di film che viene prodotto, così come il tipo di accordi tra le parti è influenzato in larga parte dalla natura del prodotto che viene commercializzato (Ulin, 2014). Focalizzandosi sui titoli che sono distribuiti in sala cinematografica, nella letteratura accademica vengono individuati tre schemi di distribuzione, o release pattern, ciascuno dei quali può essere interpretato secondo ulteriori varianti. Tali modelli, che nonostante siano originariamente elaborati negli Stati Uniti vengono adottati in modo analogo sostanzialmente in tutti i territori, sono

indicati come wide release, limited release ed exclusive release (Squire, 2016).

Il wide release pattern si realizza quando un film viene erogato in modo massiccio in un territorio, saturando il mercato nazionale con un numero di copie molto elevato. Negli Stati Uniti questo significa aprire in un numero di sale che oscilla 700 e 4.400 (fino anche a superare questa cifra), ma ovviamente nel suolo italiano queste cifre sono inferiori. Per dare una dimensione più realistica di questi numeri, basta pensare che nel 2014 sono state distribuite in Italia tra le 670 e le 1.137 copie per i primi cinque titoli, su un totale di 3.261 schermi totali (Fondazione Ente dello Spettacolo, 2015a). Questo schema configura il tipico modello di distribuzione delle maggiori produzioni, ed è finalizzata a massimizzare gli introiti il box office sfruttando l’interesse generato dalle campagne di marketing atti- vate contestualmente all’uscita del film in sala (Ulin, 2014). Possibili varianti si realiz- zano nel caso in cui il film venga dapprima distribuito in un numero limitato di copie, per poi ricevere una maggiore diffusione in relazione ai risultati che ottiene al botteghino, così come è frequente il caso in cui il film venga rilanciato a seguito di premiazioni (si pensi per esempio a una vittoria agli Oscar) che ne riaccendono l’interesse tra il pubblico (Vogel, 2015). Inoltre, determinante in questo senso è il periodo dell’anno in cui il film viene lanciato, poiché è ovunque vero che nei picchi stagionali i film ricevono una distri- buzione maggiormente aggressiva. Talvolta, come nel caso di occasioni speciali quali ad esempio la Coppa del Mondo di Calcio o le Olimpiadi, i distributori pianificano una stra- tegia di massima copertura con anni di anticipo (Vogel, 2015). In Italia il periodo mag- giormente coperto è senz’altro quello delle Feste Natalizie (che va dal 16 dicembre al 6 gennaio), quando la presenza degli italiani nelle sale cinematografiche è massima e di conseguenza lo sono anche gli incassi al box office (Cinetel, 2016). Come si vedrà in seguito, ciò contribuisce a delineare un fenomeno che sembra caratterizzare da molti anni il Paese, ossia la forte stagionalità dei consumi cinematografici (Corvi, 2016).

Per quanto riguarda il limited release pattern, si tratta del caso in cui il film ottiene una distribuzione in un numero limitato di sale cinematografiche (negli Stati Uniti variabili tra le 50 e le 700), al fine di coprire uno specifico segmento demografico o semplicemente per testare il mercato con una ridotta esposizione pubblicitaria sul titolo (Squire, 2016). Ancora diverso è il caso dell’exclusive release pattern, anche detto platform release, per

cui il titolo è reso disponibile alla visione in poche sale selezionale così da ottenere visi- bilità tramite le recensioni o il passaparola, ricevendo eventualmente un’ulteriore distri- buzione in un momento successivo (Squire, 2016). Secondo Ulin (2014), adottare questi schemi significa senz’altro ridurre i costi di distribuzione e, se applicati assieme a strate- gia di marketing ben congeniata, consente al film di raggiungere un grande successo (fino anche a ricevere una wide release). La scelta dipende in primo luogo dalla tipologia di film di cui si dispone, per un modello che si adatta in particolare ai titoli dal forte interesse artistico e culturale (si pensi ad esempio ai film che puntano a essere candidati alle pre- miazioni oppure a quelli che si rivolgono a una specifica nicchia di pubblico). Tuttavia, il rischio che le recensioni ricevute e le performance in sala non rispecchino le aspettative del distributore è molto elevato, il che potrebbe compromettere le possibilità di conqui- stare una distribuzione maggiore.

Figura 2.11: Il flusso dei ricavi per la distribuzione di un film in sala cinematografica

Fonte: adattamento da The Business of Media Distribution (Ulin, 2014)

L’aspetto finale da analizzare per quanto concerne le dinamiche della distribuzione all’in- terno della filiera cinematografica sono i contratti che legano gli esercenti ai distributori, attraverso i quali viene ripartito il rischio tra i due operatori e di conseguenza si determi- nano i flussi dei ricavi nell’intera filiera cinematografica (Ulin, 2014). Il quadro che viene

a delinearsi è quello in Figura 2.11, dove sono rappresentati in modo schematico i ricavi e i costi che affrontano produttori, distributori ed esercenti quando un titolo viene distri- buito in sala. La quota di ricavo degli esercenti solitamente arriva a decurtare del 60% il valore del box office, mentre dal restante 40% vengono dedotte ulteriori commissioni da parte dei distributori per determinare i ricavi netti, ossia l’ammontare che spetta al pro- duttore (Pasquale, 2012).

I contratti i tra distributori e gli esercenti, che prendono il nome di film licensing agree-

ment, sono generalmente stipulati all’incirca tre mesi prima che il film venga distribuito

in sala cinematografica, anche se per le produzioni maggiori le parti si accordano con molti mesi di anticipo (Finney, 2015). Nonostante i fattori da considerare sono molteplici, quelli più importanti nel determinare la tipologia di licensing agreement sono il potere contrattuale delle parti e la previsione degli incassi del film al box office (Young et. al, 2007). Secondo quanto indicato da Finney (2015), gli elementi che vengono negoziati in tali accordi sono:

• Commissione di distribuzione, anche detta film rental • Numero di schermi

• Totale dei posti a sedere • Numero di proiezioni

• Periodo di tempo nel quale il film viene erogato in sala

Tra questi, la commissione di distribuzione, ossia la quota di ricavi lordi che il distributore trattiene dai risultati al box office, è sicuramente l’aspetto di maggiore interesse per en- trambe le parti, nonché quello in base al quale si distinguono i vari tipi di contratto. Un secondo elemento da valutare è il cosiddetto house nut, che include tutti i costi che af- fronta l’esercizio, tra cui l’affitto e il mantenimento delle sale, il costo del lavoro e così via (Ulin, 2014). Tale ammontare può essere calcolato in funzione della qualità delle sale cinematografiche, nonché del numero di schermi e dei posti a sedere, e inoltre può com- prendere i costi per l’inserimento dei trailer prima delle proiezioni, da considerarsi come pubblicità per i prossimi film in uscita del distributore (Vogel, 2015). A partire da queste premesse, sono di seguito descritti i principali accordi tra esercenti e distributori.

Le più comuni tipologie di accordi sono quelle che prevedono che gli incassi al box office siano ripartiti tra esercente e distributore in base a una formula percentuale il cui ammon- tare viene negoziato tra le parti prima che il film sia stato proiettato, e prendono il nome di standard agreement. Tali contratti comprendono due macro-categorie, ciascuna delle quali ha numerose varianti tra le quali il distributore può scegliere: in particolare, si di- stinguono gli aggregate deal, che prevedono una quota fissa da ripartire tra le parti sul totale al box office, e gli sliding scale deal, le cui percentuali variano nel corso delle settimane e sono calcolate a partire dal totale al box office meno i costi dell’esercizio (Young et. al, 2007; Finney, 2015; Ulin, 2014; Squire, 2016).

Gli aggregate deal non tengono conto dei costi sostenuti dall’esercizio e per questa ra- gione la percentuale spettante al distributore è minore rispetto a quella che avrebbe per- cepito con un accordo differente (generalmente attorno al 50%), anche se in questo modo è possibile prevenire il rischio di sostenere delle perdite nel caso in cui il film non per- formi bene, soprattutto durante le settimane finali in cui il film è in sala. Una possibile variante di questo contratto è lo scalale aggregate percentage deal, dove la commissione di distributore è tanto maggiore quanto più elevati sono gli incassi totali del film al box office (Squire, 2016). Si tratta di una forma molto popolare negli Stati Uniti, poiché con- sente al distributore di minimizzare i rischi nel caso in cui siano state fatte delle valuta- zioni erronee sulle performance del film in sala, e inoltre è un sistema più “equo”, dal momento che nei calcoli vengono presi in considerazione non tanto i risultati della singola sala cinematografica quanto piuttosto quelli nell’intero territorio.

Gli sliding scale deal sono invece quei contratti in cui la percentuale del distributore è calcolata decurtando prima la quota house nut, caratterizzandosi per un maggiore rischio in capo al distributore, a cui fa da contraltare una quota molto più elevata (si pensi ad esempio all’accordo 90/10 deal, ormai in disuso, dove al distributore spetta una commis- sione del 90%, mentre all’esercente resta il 10% in aggiunta alle spese sostenute). Per le distribuzioni maggiori, uno sliding scale deal può prevedere per la società di distribuzione una quota del 70% (o superiore) le prime due settimane, che si riduce del 10% ogni due settimane in favore dell’esercente, a cui spetta sempre e comunque la copertura dei costi

(Vogel, 2015). Per ottemperare al rischio, è possibile che il distributore preveda nel me- desimo contratto l’aggiunta di un minimo garantito, definito in gergo floor, ossia una commissione di distribuzione che viene calcolata senza contare i costi dell’esercizio e di ammontare decrescente, da applicare quando tale valore è superiore a quello che emerge dal calcolo che considera la quota di house nut. A causa della forte concentrazione degli incassi al box office durante le prime settimane di proiezione, è da notare che questi con- tratti stanno diventando sempre più impopolari tra gli esercenti, per un fenomeno che è destinato a perdurare con l’aumento dell’offerta di titoli in sala (Squire, 2016). Come sottolinea Vogel (2015), per l’esercente si configura una situazione in cui i più grandi margini di profitto non sono ottenuti dagli incassi al botteghino quanto piuttosto dal com- parto food and beverage, dove vengono applicate percentuali di ricarico variabili tra il 70% e il 90%, e dalle altre attività che il cinema ottiene in concessione (contribuendo in media a un terzo dei ricavi totali).

Talvolta la società di distribuzione propone un’offerta che spetterà unicamente all’eser- cente decidere se accettare o rifiutare, senza che ci sia alcuna negoziazione tra le parti sulla commissione di distribuzione. Fa parte di questa categoria la lettera di offerta, che consente all’esercizio di ottenere l’esclusiva per la proiezione di un film a fronte di un contratto che contiene tutti i termini da rispettare, e generalmente viene inviata con molti mesi di anticipo (Vogel, 2015). Questo strumento permette al distributore di selezionare un numero limitato di sale cinematografiche situate in zone strategiche del territorio na- zionale, dove ci si aspetta che l’audience apprezzi maggiormente il film. È facile com- prendere che la lettera di offerta si adatta perfettamente al caso in cui il distributore decida di optare per una strategia di distribuzione limitata se non addirittura esclusiva, così da massimizzare i profitti pur con una ridotta offerta di schermi in cui proiettare il film.

Un ulteriore tipologia di contratto è il four wall, in cui la società di distribuzione paga all’esercizio una quota settimanale per l’affitto di una sala cinematografica, percependo il 100% degli incassi al box office. L’ammontare pagato all’esercizio è dovuto a prescin- dere dai risultati effettivi del film, a cui si aggiungono tutti i costi operativi di utilizzazione della sala: ecco allora che il distributore effettua degli investimenti pubblicitari nei net- work televisivi per attrarre il maggior numero di spettatori nel minor tempo possibile,

così da ottimizzare le spese (Vogel, 2015). Accade anche che questi contratti vengono stipulati dai produttori stessi, in modo tale da auto-distribuirsi i film ed evitare in tal modo il passaggio dalla distribuzione (Cones, 2013).

Infine, l’ultimo caso che si prende in considerazione è quello del cosiddetto settlement, che configura il contratto maggiormente flessibile tra quelli sopra descritti. Infatti, con questa formula il distributore e l’esercente si accordano sulle rispettive percentuali solo dopo che il film è stato proiettato, negoziando a partire dagli incassi totali al botteghino (Ulin, 2014). Data la naturale divergenza degli interessi tra le parti, questa modalità è senz’altro quella di più difficile gestione.