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IL CONTRASTO ALL’ELUSIONE MEDIANTE IL RIMEDIO CIVILISTICO DELLA NULLITA’

1. La fattispecie negoziale del dividend washing Cenni sul

dividend stripping.

L’interesse per il fenomeno elusivo nell’indagine qui condotta si è sviluppato a seguito di tre recenti interventi della Sezione tributaria della Corte di Cassazione in tema di operazioni di dividend washing e dividend

stripping che hanno ridisegnato i connotati del problema dell’elusione

illegittima tanto sul piano sostanziale quanto dal punto di vista dei poteri attribuiti al giudice tributario.

In verità le tematiche connesse all’elusione perpetrata a mezzo delle prefate prassi negoziali non suscitavano più eccessivo interesse in dottrina: l’improvviso ritorno alla ribalta dell’argomento è oggi dovuto al fatto che la Corte si è occupata in modo alquanto peculiare di casi risalenti nel tempo ad un periodo in cui nell’ordinamento non figuravano norme antielusive

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TINELLI, L’accertamento sintetico del reddito complessivo nel sistema dell’Irpef, Padova, 1993, p. 7 e ss.

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Sulla diversa funzione svolta dall’art. 20, D. P. R. registro, norma di qualificazione del contratto ai fini della specifica imposta, e l’art. 37 - bis, D. P. R. 600/’73, norma antielusiva ampia, v. MELIS, op. cit., p. 299.

specifiche (introdotte ad hoc nel ’92 e riguardanti compravendita di titoli azionari o cessione di usufrutto sugli stessi), né la clausola antielusiva di ampia portata introdotta nel ’97; periodo ancora caratterizzato da un regime fiscale differenziato dei soggetti interessati346. Queste ultime sentenze si pongono, fra l’altro, in distonia con il precedente e consolidato indirizzo giurisprudenziale della Corte, e pertanto la Sez. Tributaria ha richiesto con apposita ordinanza una pronunzia a Sezioni Unite idonea a dirimere il contrasto apertosi.

Le pronunce attengono ad ipotesi elusive non di norme imperative, ma agevolative, tanto da portare un acuto osservatore a parlare di “abuso di

norme di favore, o di captazione abusiva di norme in bonam partem”347; in particolare, si tratta dell’art. 14348 Tuir (numerazione previgente, ante riforma ad opera degli artt. 6 - bis e 7 - bis D. L. 9 settembre 1992, n. 372, conv. nella legge del 5 novembre 1992, n. 429).

La citata riforma della disposizione in parola con queste ipotesi specifiche antielusive lasciava spazio alla tesi per cui il metodo di contrasto agli abusi seguito dal legislatore tributario si sostanziasse, nell’ordinamento italiano nell’adozione di disposizioni ad hoc (tesi già esposta supra e più volte avvalorata in seguito) al di fuori delle quali restava libera l’autonomia negoziale delle parti: era pacifica l’assenza, nell’ordinamento tributario, di clausole generali antielusive349 (le quali avrebbero potuto entrare in contrasto con principi fondamentali, quali quello di riserva di legge o di certezza del diritto).

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In base a queste ed altre considerazioni, parte della dottrina ritiene che gli effetti della pronunzie saranno contenuti; la riforma IRES ha prodotto una nuova ipotesi di dividend washing che sfrutta non più il credito d’imposta ma la deduzione di minusvalenze da negoziazione; in questo caso tuttavia, è stata predisposta una norma antielusiva, e pertanto al ricorso alle categorie civilistiche in base alla pronunzie in esame sembra doversi escludere, salvo per gli eventuali spazi di manovra che la norma fiscale lasci scoperti. V. amplius STEVANATO, Il dividend washing, tra scelte del sistema e rischi di elusione, in Dial. dir. trib., 2005, 1534.

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Così MOSCHETTI, “Abusiva captazione” di norme fiscali di favore ed ”anticorpi civilistici” in uno ”Stato sociale di diritto”, in Elusione fiscale. La nullità civilistica come strumento generale antielusivo. Atti del Convegno A.N.T.I., Padova, 15 settembre 2006, in Il Fisco, 2006, 14955.

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Norma peraltro espunta dal testo di legge ad opera dell’art. 1, co. 349, l. 311/’04.

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Sembra opportuno a questo punto e prima di esporre le posizioni della S. C., fornire alcuni cenni sulla pratica negoziale del dividend washing la quale, contestualizzata nel quadro normativo - oggi superato - che la rendeva vantaggiosa, era volta al conseguimento di un risparmio d’imposta ed era molto in voga in periodi antecedenti all’introduzione di norme puntuali di contrasto.

Con l’operazione di dividend washing si assiste ad una vendita ed una rivendita effettuate fra un fondo comune d’investimento ed una società di capitali: mediante quest’operazione il fondo trasforma un dividendo, che è in via di pagamento su un titolo in suo possesso, in una plusvalenza, mentre la società incassa il dividendo, scomputa la ritenuta d’acconto e il credito d’imposta ed imputa al conto economico una minusvalenza da negoziazione.

Il dividend washing si caratterizza per la brevità d’intervallo fra le due compravendite, per la riscossione del dividendo da parte della società contribuente subito dopo il primo contratto e subito prima del secondo, e, infine per la contestualità dell’incarico al medesimo intermediario per l’acquisto e successiva rivendita in assenza di apprezzabili ragioni extrafiscali per l’operazione. Le parti dei contratti sono da un lato il fondo comune d’investimento, o Sicav, e una società per azioni dall’altro. I primi soggetti sono sottoposti a tassazione di tipo patrimoniale, ovverosia non sui redditi generati dalla gestione del fondo, ma sulla consistenza del patrimonio del fondo (art. 9, l. 23 marzo 1983, n. 77); a causa di tale sistema, gli utili percepiti dal fondo sub forma di dividendo sono esclusi dal beneficio del credito d’imposta: la prassi del d. washing fa leva sulla diversità del sistema di tassazione del fondo rispetto a quello ordinario. Al fine di permettere al fondo il recupero della perdita del credito d’imposta, dopo la delibera assembleare circa la misura del dividendo, il fondo cede i titoli posseduti ad una società per azioni la quale incassa la cedola e

scomputa il credito d’imposta; poco dopo il fondo riacquista i medesimi titoli a prezzo inferiore, tenuto conto del dividendo incassato350.

Nel caso qui considerato (aderente allo schema astratto di cui sopra) una società di capitali aveva acquistato351, tramite commissionaria, azioni da un fondo comune d’investimento, in seguito alla delibera di distribuzione dei dividendi relativi; riscosso il dividendo il giorno successivo, l’acquirente aveva retrovenduto tramite il medesimo commissionario gli stessi titoli, a prezzo minore. Successivamente, l’Ufficio distrettuale delle imposte dirette di Milano rettificava il reddito della società riprendendo a tassazione la minusvalenza relativa alla compravendita di azioni da fondo da investimento. La società impugnava l’avviso di accertamento innanzi alla C. T. P. di Milano affermando che la norma all’epoca vigente, l’art. 10, l. n. 408/’90 non contemplava tra le fattispecie elusive la cessione di valori mobiliari. La Commissione respingeva la censura, considerando il costo dell’operazione non deducibile (data la palese incompatibilità dell’operazione con l’attività d’impresa), con conseguente non riconducibilità del credito d’imposta; riteneva ancora il giudice che il dividendo scaturito dall’operazione andava stornato dal conto ricavi. Il ricorrente appellava la decisione e la C. T. R. accoglieva questa volta le sue doglianze, osservando che l’interpretazione dell’Ufficio poteva condividersi solo alla luce della modifica introdotta dalla l. 5 novembre 1992, n. 429, che limitava l’utilizzo del credito d’imposta (d. washing) nel caso di acquisto di titoli da un fondo d’investimento mobiliare dopo la percezione del dividendo. L’acquisto era dunque avvenuto quando il titolo era ancora gravido del dividendo non ancora staccato, e la successiva retrovendita era stata effettuata ad un prezzo inferiore quando il titolo risultava privo del

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La complessa operazione negoziale genera benefici per la società per azioni che fruisce di un credito d’imposta riducendo l’IRPEG, riceve un dividendo escluso da ILOR e deduce una minusvalenza su cessione dei titoli, che abbatte l’imponibile tanto a fini IRPEG quanto a fini ILOR. Il fondo comune, dal canto suo, lucra sotto forma finanziaria il credito d’imposta goduto dalla società per azioni commisurando il prezzo delle due compravendite.

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Prima dell’introduzione del comma 6 - bis , art. 14, Tuir, che ha fatto venir meno la convenienza del contratto di d. washing inibendo l’utilizzo del credito d’imposta in questo genere di operazioni escludendolo per i dividendi percepiti dagli acquirenti di azioni o quote di partecipazione in società ed enti commerciali, se cedute da fondi mobiliari o da

dividendo: da ciò la minusvalenza relativamente compensata dal dividendo riscosso e dotato di credito d’imposta. Per la C. T. R. dunque, la tesi dell’Ufficio, per cui l’operazione era tesa esclusivamente ad un risparmio fiscale, era infondata in quanto non risultava dimostrata né un’interposizione fittizia o simulazione (art. 37, D. P. R. n. 600/’73) né una sostituzione di reddito (art. 6, D. P. R. n. 917/’86).

Con l’introduzione nell’art. 14 Tuir del co. 6 - bis ad opera del D. L. 372 del 1992, convertito in l. n. 429/’92 è stato positivizzato il divieto della fruizione del credito d’imposta per una società che acquisti azioni da un fondo comune d’investimento: tale norma non risultava però applicabile al caso di cui ci occupiamo in quanto avvenuto prima dell’entrata in vigore della stessa. L’Amministrazione infatti aveva insistito sul collegamento negoziale delle due compravendite per basare la sua tesi su disposizioni di legge capaci di combattere la prassi elusiva, in particolare quelle relative all’interposizione di persona (art. 37, co. 3352, D. P. R. n. 600/’73) e alla sostituzione dei redditi (art. 6, co. 2, Tuir), la cui applicabilità al dividend

washing non era stata peraltro mai pacifica.

La prima norma prevede l’imputazione al possessore effettivo di un reddito che sembri appartenere ad altro soggetto titolare (quando sia dimostrato anche in base a presunzioni gravi precise e concordanti chi sia l’effettivo possessore per interposta persona), ma è stata ritenuta applicabile solo alle ipotesi di interposizione fittizia, simulata, nel possesso del reddito, non potendo viceversa trovare spazio nella fattispecie al nostro studio in cui il trasferimento della fonte produttiva di reddito è effettiva. L’interposizione fittizia di persona353, connotata dall’accordo simulatorio fra tre soggetti

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Comma 3: “In sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona” (comma aggiunto dall’art. 30, co. 1, D. L. n. 69 del 2 marzo 1989); secondo periodo: “Le persone interposte che provino di aver pagato imposte in relazione a redditi successivamente imputati, a norma del co. 3, ad altro contribuente, possono chiederne il rimborso. L’Amministrazione procede al rimborso dopo che l’accertamento, nei confronti del soggetto interponente, è diventato definitivo ed in misura non superiore all’imposta effettivamente percepita a seguito di tale accertamento” (inserito dall’art. 7, co. 3, d. lgs. N. 358 dell’8 ottobre 1997).

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Diversa è la fattispecie dell’interposizione reale che ricorre allorquando un accordo tra interponente ed interposto ha ad oggetto l’obbligo per il secondo di ritrasferire al primo i

(contraente, interponente ed interposto) si realizza quando in virtù del detto accordo, si attribuisce la qualità di parte contrattuale ad un soggetto che in realtà è estraneo e presta solamente il suo nome; grazie all’accordo, gli effetti del contratto si producono a favore dell’interponente. L’art. 37, co. 3, è dettato al fine precipuo di eliminare il contrasto fra titolarità effettiva e titolarità apparente del possesso del reddito, permettendo all’Ufficio d’imputare all’interponente quei redditi di cui sia effettivamente titolare. Anche il richiamato art. 6, co. 2, Tuir, non è stato ritenuto applicabile alla prassi del d. w. . Esso prevede che i proventi conseguiti, anche per effetto di cessione dei relativi crediti, in sostituzione di voci di per sé costituenti reddito, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti: data la commercialità della forma societaria, tutti i ricavi ed i proventi sono nel caso de quo indistintamente considerati quali componenti del reddito d’impresa, e quindi la norma non trova applicazione354.

Questa la posizione maggioritaria355 espressa da dottrina e giurisprudenza in merito al dividen washing prima del révirement della S. C. .

La Cassazione, giunta finalmente nel 2005 a pronunciarsi sui contratti conclusi nel ’92, ha espresso una serie di considerazioni nella sentenza del diritti che abbia acquistato in proprio (effettivamente e non fittiziamente) in virtù di un contratto stipulato con un terzo. La fattispecie non presenta pertanto la descritta divergenza fra titolarità apparente e titolarità effettiva, propria dell’interposizione fittizia di persona, e coerentemente è esclusa dall’ambito applicativo dell’art. 37, co. 3. Così GALLO, Trusts, interposizione ed elusione fiscale, in Rass. trib., 1996, 1043, e LUPI, Usufrutto su azioni: una norma antielusione non si può inventare, ibidem, 1995, 1528 e ss. . Vedi anche CARINCI, op. cit., p. 106, per il quale ancorché la norma sia diretta a rimuovere l’apparenza dell’imputazione di un reddito fra soggetti privati, il suo ambito “non va però limitato alla sola interposizione fittizia (in senso stretto), ma va esteso anche ai casi di simulazione assoluta aventi ad oggetto un bene fruttifero […] La simulazione assoluta concreta una forma di interposizione, riconducibile all’art. 37, co. 3, nei casi in cui il contratto costituisca non tanto la fonte ma, piuttosto lo strumento di determinazione (ed individuazione) della titolarità della fonte”.

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In questo senso è Cass. 7 marzo 2002, n. 3345. In dottrina cfr. STEVANATO, Dividend washing e usufrutto di azioni: riflessioni “a caldo” su sostituzione dei redditi, simulazione ed esclusione tributaria, in Rass. trib., 1999, 1496 e ss.

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Altra giurisprudenza di merito si è infatti espressa diversamente, e nel senso che “Le operazioni di dividend washing, cioè quelle compravendite di titoli azionari aventi ad oggetto il trasferimento di titoli azionari cum dividendo e del relativo credito d’imposta da un contribuente ad un altro, configurano sia la fattispecie della simulazione per interposizione personale sia il negozio con causa illecita. Sul piano più specifico della normativa tributaria, sono riconducibili al dettato dell’art. 37, co. 3, D. P. R. 29 settembre 1973, n. 600 e dell’art. 6, co. 2 del Tuir. Sono pertanto operazioni censurabili anche qualora

21 ottobre 2005, n. 20398. In primo luogo ha detto che “le operazioni di acquisto e di successiva rivendita delle azioni erano state concluse in stretta successione temporale (il 15 e il 16 luglio 1992, prima dell’entrata in vigore della normativa antielusiva) a cavallo della riscossione del dividendo”, ed ha operato un richiamo alla giurisprudenza comunitaria in tema di abuso di diritto, affermando che i due contratti, fra loro collegati (vendita e successivo riacquisto), non producono per le parti alcun vantaggio economico diverso dal risparmio fiscale, e pertanto sono nulli, per mancanza di causa, ex art. 1418, co. 2, cod. civ. .

Ad analoghe conclusioni è giunta la Corte nella sent. del 14 novembre 2005, n. 22932, mentre nella sent. del 26 ottobre 2005, n. 20816, nel caso di cessione di usufrutto di azioni da una società del Lussemburgo ad una società residente con l’unico scopo di permettere a quest’ultima l’utilizzo del credito d’imposta, La S. C. ha statuito che la circostanza che mancasse allora una specifica norma antielusiva non importava che l’Amministrazione dovesse sopportare operazioni fraudolente da parte dei privati, dovendovi far fronte con “strumenti comuni di accertamento”; fra questi ha annoverato il carattere simulatorio della convenzione, ma anche la sua illiceità alla stregua del canone dell’art. 1344, cod. civ., dato che “le norme tributarie appaiono norme imperative poste a tutela dell’interesse generale del concorso paritario alle spese pubbliche”.

Le sentenze muovono dall’assunto comune che al di là della normativa antielusiva, l’Amministrazione può sindacare la validità dell’operazione contrattuale - base per l’applicazione della normativa tributaria (nello specifico agevolativa). E pertanto, le operazioni spregiudicate sembrano dover sottostare al preventivo vaglio della validità civilistica delle convenzioni che le sorreggono, oltre a superare, poi, lo scoglio delle norme antielusive.

Prima di analizzare i numerosi e problematici punti della sent. 20398, è il caso di accennare all’altra prassi negoziale di cui si è occupata la Corte e di evidenziarne le differenze col dividend washing.

poste in essere – come nel caso di specie - prima dell’entrata in vigore della l. 5 novembre

Con il dividend stripping356 si attua un travaso di utili: si passano ad una

società con perdite fiscali pregresse partecipazioni azionarie redditizie in quanto gravide di dividendo. Lo schema può riassumersi così: la società A, con perdite fiscali, acquista dai soci di B l’intero pacchetto azionario di questa, pagando un prezzo x; la società B, effettuata la ritenuta alla fonte e paga alla società A il dividendo netto y; la società A rivende poi, a sua volta, le partecipazioni ai soci di B per un importo z = (x – y). Risultato pratico è che i soci di B, avendo ceduto il pacchetto, realizzano una plusvalenza (allora) esente da imposta, al posto di un dividendo soggetto ad imposizione; la società A ha incassato un dividendo netto, che tuttavia non è imponibile, eguagliando la differenza negativa fra il prezzo di acquisto ed il prezzo di rivendita delle azioni y = (x – z); in compenso, essa ha diritto di ottenere il rimborso dell’imposta pagata alla fonte sul dividendo357.

Nel caso di cui alla sentenza n. 22932, invece, una società italiana concludeva con una società non residente contratto di usufrutto su azioni di una società italiana controllata da quest’ultima, con la garanzia di ricevere, nel periodo di durata del diritto, dividendi per un importo di poco superiore al corrispettivo versato in contanti; in questo caso, il vantaggio economico risiedeva nello scomputo del credito fiscale dall’IRPEG dovuta dalla società 1992 n. 429”. Così Comm. Trib. Prov. Parma, 20 luglio 1998, n. 264.

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Questa tipologia negoziale è stata peraltro al centro di un’operazione di riqualificazione da parte della giurisprudenza di merito (Trib. Pen. Pordenone, 12 luglio 1997, n. 125) in una pronunzia anteriore a quella della Cassazione di cui si parla nel testo. In particolare, dopo aver constatato l’incensurabilità del negozio dal punto di vista elusivo per assenza di specifica norma a riguardo (norma poi inserita nell’art. 14, Tuir, dall’art. 7 - bis, co. 1, D L. 9 settembre 1992, n. 398, che nega il riconoscimento del credito d’imposta sui dividendi percepiti dall’usufruttuario in caso di concedente non residente privo di stabile organizzazione nel territorio dello Stato), ha proceduto alla verifica dell’effettiva rispondenza al modello tipico dell’usufrutto di azioni della fattispecie concreta, in quanto solo dalla presenza di un vero e proprio usufrutto scattava il diritto al credito d’imposta. All’esito di tale verifica, il giudice riteneva che la mancanza di un diretto ed autonomo rapporto dell’usufruttuario con il bene “azione” non permetteva l’integrazione della fattispecie “usufrutto” per assenza dei caratteri di realità che le sono connaturati, e pertanto qualificava giuridicamente l’operazione in termini obbligatori come mutuo, la cui restituzione era garantita dalla cessione di un importo di dividendi futuri. V. amplius i rilievi critici di NUZZO, Simulazione, interposizione e “realità“ nell’usufrutto su titoli azionari privi del diritto di voto, in Rass. trib., 1997, 1361 e ss. .

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Questo schema viene analizzato in Inghilterra già a partire dal caso Griffiths v. Harrison (watford) (1963) A. C. 1, e nonostante la decisione sia a favore del contribuente, vi è tuttavia una prima apertura nel senso del superamento dei principi della Duke of Westminster e di un’affermazione della sostanza sulla forma che tuttavia resterà circoscritta

italiana, mentre l’imponibile costituito dai dividendi e dal credito d’imposta veniva compensato dalla deduzione pro quota del costo pluriennale – o dalla quota di ammortamento del bene immateriale- sostenuto per l’acquisto dell’usufrutto.

Le operazioni, sostanzialmente finanziarie, erano volte a consentire alla società italiana l’uso a titolo originario di un credito d’imposta non permesso al fondo d’investimento o alla società non residente.

A seguito dell’attività di accertamento promossa dall’Amministrazione finanziaria, tanto la Commissioni tributarie quanto la S. C. si erano pronunziate a favore dei contribuenti, suscitando la reazione del legislatore tributario, che nel 1992 aveva ritenuto di intervenire con normativa antielusiva mirata.

Entrambe le prassi negoziali descritte, a prima vista simili, presentano tuttavia notevoli differenze dal punto di vista propriamente civilistico: il d.

washing è infatti un’operazione negoziale, atipica e complessa, consistente

in un collegamento di negozi tipici, quali la vendita di titoli e l’immediata retrovendita degli stessi fra due soggetti sottoposti a regimi fiscali differenti (il fondo d’investimento a regime forfetario, mentre la società a regime analitico) per sfruttare il beneficio fiscale del credito d’imposta che al fondo non compete in quanto a regime forfetario, e quindi agevolato; il d.

stripping è viceversa, nella fattispecie di cui alla sentenza, un vero e proprio

negozio tipico (usufrutto di azioni) disciplinato dal cod. civ. all’art. 2352, e fra l’altro ripara ad una lacuna legislativa grave in quanto il soggetto non residente, non rivestendo la qualità di contribuente italiano, si vedeva ingiustamente negato il credito d’imposta che strutturalmente gli sarebbe spettato, poiché la controllata italiana gli corrispondeva un dividendo non pieno ma sottoposto a IRPEG.

Nonostante le profonde diversità, e la maggiore giustificabilità del dividend

la prima aveva ricevuto un sostanziale avallo dalla giurisprudenza di

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