IL CONTRASTO ALL’ELUSIONE MEDIANTE IL RIMEDIO CIVILISTICO DELLA NULLITA’
8. Rilievi conclus
I molteplici percorsi d’indagine affrontati ci portano ad alcune riflessioni conclusive.
In primo luogo a considerazioni in merito all’elemento causale. Se il contratto consiste nel trasferimento della proprietà dei titoli verso il prezzo, non sembra che l’interprete abbia ulteriore spazio di manovra circa l’indagine dei vantaggi economici effettivamente perseguiti dai contraenti, per concludere in base a valutazione necessariamente empirica, che se tali vantaggi non sono sufficienti, manca la “causa concreta” e il contratto è nullo. In altri termini, è pericolosa la ricerca della “serietà economica” sottesa ad un contratto, poiché tale indagine è suscettibile di allargarsi eccessivamente e di travolgere una molteplicità di negozi che sottoposti a tale sindacato potrebbero apparire quanto meno “deboli”413.
Sembrava più opportuno forse che il giudice impostasse la pronunzia in termini di un eventuale contrasto alle norme imperative in frode alla legge ex 1344 (accogliendo peraltro una tesi che qui non è condivisa), o di una illiceità dei motivi rilevante poiché comune (art. 1345), ma egli è arrivato ad una dichiarazione di nullità che non è facilmente giustificabile.
Né, per contro, ha spiegato perché la ragione meramente fiscale risulti inidonea a sorreggere casualmente il contratto. Le parti volevano lo scambio dei titoli verso corrispettivo, in modo che il nuovo soggetto titolare fruisse
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Si pensi ai contratti futili, o conclusi per emulazione. D’altro canto la deviazione, lo stornamento della causa di un tipo contrattuale per raggiungere scopi ulteriori e diversi non è una novità nell’ordinamento, come ha rilevato STEVANATO, ult. cit., p. 322, portando l’esempio dei contratti pronti contro termine, in cui la vendita dei titoli è causalmente
di un credito d’imposta: conseguito questo primo effetto, le stesse parti hanno proceduto a retrovendersi i titoli, per cui delle azioni tornava ad essere titolare il proprietario originario; i due contratti (o l’intera operazione, a seconda dell’opzione interpretativa accolta) non sembrano affatto in difetto di causa, ma sono sorretti da una ragione pratica, fiscale.
Ma le preoccupazioni più eminenti attengono due profili più generali. Il primo involge i rapporti tra le regole civilistiche e la normativa fiscale, ed è al centro della nostra indagine. Si è constato al riguardo che le normative antielusive dettate dal legislatore tributario sarebbero eccessivamente forzate, anzi pretermesse, ove avesse adito al loro posto la disciplina dettata dal codice civile in tema di nullità. Tale disciplina, adatta ai rapporti interprivatistici, non si adatta al metodo selettivo scelto per reprimere condotte elusive di volta in volta dettagliatamente tipizzate. La S. C., parlando di assenza di valide ragioni economiche, sembra prendere spunto dall’art. 37 - bis414, D. P. R. accertamento, ma non considera minimamente che la norma postula, come elemento parimenti necessario, l’aggiramento di obblighi o divieti tale da conseguire indebiti vantaggi: paradossalmente, le norme di diritto civile reprimono in maniera molto più grave delle norme dettate ad hoc non solo l’abuso di norme agevolative, ma anche il risparmio d’imposta eventualmente lecito agli occhi del legislatore dei tributi, e ciò per il sol fatto che manca ulteriore funzione economica del negozio.
Il chiaro intento reattivo dell’organo giudicante, posto di fronte ad operazioni negoziali eccessivamente disinvolte, ha dato adito ad una risposta sproporzionata e distruttiva, che colpisce l’attività negoziale privata sottesa alla pretesa tributaria, attività normalmente “presupposta” e quindi ritenuta valida dal legislatore tributario.
La lettura delle sentenze della Corte porta ad evidenziare alcuni trend; un primo di essi vede l’applicabilità dell’art. 1344 cod. civ., in sovrapposizione collegata ad un secondo contratto uguale e contrario, nell’alveo di un’operazione di finanziamento (anche qui la vendita non si stabilizza, ma è strumentale).
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La norma, già citata, si caratterizza per l’ampia formulazione del fatto elusivo (che può consistere in atti, fatti e negozi, isolati o in collegamento fra loro) che deve essere causalmente debole ed aggirare obblighi o divieti positivamente posti: il ricorso di tutti i
all’art. 37 - bis, D. P. R. 600, che, come visto, reca una normativa antielusiva ampia, ma pur sempre circoscritta e non generale; sul piano del diritto comunitario, si cerca di estendere i principi antielusivi generali dettati per il comparto “armonizzato” ad ipotesi diverse; sul piano del diritto processuale, poi, sembra che il giudice voglia travalicare l’invalicabile limite della motivazione dell’accertamento, ponendosi come interprete integrativo della volontà dell’Amministrazione.
Non può celarsi allora una certa preoccupazione per l’emergere di queste linee di tendenza, preoccupazioni che cercano risposta nell’invocata pronunzia a Sezioni Unite, tenendo pur sempre fermo l’invito al legislatore acchè intervenga presto, con una norma ad hoc, o più generale, la quale disciplini le pratiche negoziali sospette e faccia luce in termini di certezza del diritto, evitando ulteriori interventi suppletivi del giudice.
CONCLUSIONI
Quadro di riepilogo ed ulteriori riflessioni sul tema d’indagine
Nel presente lavoro si sono svolte una serie di riflessioni riguardanti la nullità come sanzione di norma tributaria nell’evoluzione dei rapporti fra diritto tributario e diritto civile.
Il capitolo di introduzione ha affrontato in modo ampio i rapporti fra le due materie415, ripercorrendo le posizioni della dottrina italiana e della dottrina francese riguardanti il problema dell’autonomia della diritto tributario presupposti importa l’inopponibilità del “comportamento” all’Amministrazione, e cioè la sua irrilevanza fiscale.
rispetto al diritto civile. Si è tentato così di mettere in luce lo sviluppo evolutivo che ha portato al cambiamento dei rapporti fra le discipline, ispirato dapprima alla dinamica da diritto eccezionale - diritto comune, e quindi rimodulato in termini di autonomia delle due branche del diritto, ciascuna retta da regole e principi propri. In questo senso, si è precisato che laddove il diritto tributario chiami in causa istituti propri del diritto civile (per quel che attiene il presente ci si riferisce principalmente alla legge di registro) non avviene un rinvio acritico a categorie già disciplinate in quell’ambito dell’ordinamento, ma si pone in essere un collegamento che tiene presenti i fini propri dell’imposta. Il legislatore tributario può quindi arrivare ad operare processi di riqualificazione a fini fiscali degli istituti civilistici richiamati. Posto questo aspetto dell’autonomia, si è sottolineato che il profilo di maggior interesse, e quindi maggiormente valorizzato, deve essere quello rimediale, in quanto da questa possibilità discende l’opzione per il legislatore di reprimere le violazioni tributarie con mezzi propri e non di derivazione civilistica.
Nella parte prima il percorso di ricerca ha affrontato la questione della nullità da norme tributarie dal punto di vista storico, questione che si è snodata nell’analisi di una serie di tentativi, esperiti a livello parlamentare, di introdurre nell’ordinamento la sanzione della nullità di un atto civile per inadempimento fiscale. In questo senso l’attenzione è ricaduta sull’imposta di registro, imposta che più di ogni altra rivela gli stretti rapporti col diritto civile. Enunciata una doverosa premessa riguardante il contesto dottrinario416 filo francese in cui si sono sviluppati le discussioni parlamentari, ci si è dapprima soffermati sui dibattiti riguardanti la prima legge italiana di registro, con cenni alle problematiche più rilevanti, e segnatamente a quella riguardante gli effetti della registrazione, contenuti nell’articolo 2 del progetto di legge. Tale norma, affermando che l’atto riceve dalla registrazione legale esistenza e data certa, sembrava in un certo
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Senza trascurare peraltro cenni al processo di autonomia del diritto tributario nei confronti del diritto finanziario, della scienza delle finanze e del diritto amministrativo.
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In cui i rapporti fra le due materie sono argomentati in termini di diritto eccezionale rispetto al diritto comune, e i rimandi alle norme dei codici si traducono in rinvii acritici.
modo sovrapporsi agli articoli dei codici civili (all’epoca ne vigevano sette) che già regolavano la materia, e si traduceva in un’intollerabile intrusione del legislatore d’imposta nel campo del diritto comune, tanto che l’articolo veniva stralciato dal testo di legge definitivo.
Si è passati dunque ad affrontare specificamente i profili sanzionatori ipotizzati a fronte della mancata registrazione in due progetti di legge successivi, il primo riguardante la riforma della legge sull’imposta di registro, il secondo propriamente la nullità degli atti giuridici non registrati. Nel progetto di legge del 1868 veniva introdotta, all’articolo 11, la possibilità che l’atto non registrato e quindi come tale temporaneamente inefficace a livello probatorio, potesse divenire permanentemente inefficace in quanto non ulteriormente registrabile a seguito dello spirare di un doppio termine perentorio. Anche quest’evenienza, si è visto, è stata accantonata dalla Camera che ha ritenuto eccessiva una sanzione di inefficacia permanente, preferendo ad essi la possibilità per le parti di ricorrere alla tardiva registrazione con un semplice inasprimento delle sanzioni.
Per ciò che riguarda la proposta formulata da Minghetti nel 1873 sulla nullità degli atti per mancata registrazione, si è ricostruita la dinamica dei rapporti con la proposta avanzata cinque anni prima evidenziando il carattere di sistematicità del secondo progetto e la coerenza che esprime nella repressione dell’evasione fiscale. Un elemento costruttivo importante è stato individuato nel supporto della dottrina che si è espressa a favore della sanzione con l’opera di Filippo Serafini. Tale contributo è intessuto del problema del formalismo e propone un parallelo col diritto civile: si distinguono le forme legali dalle formalità fiscali, per arrivare a fondare, a fianco della consueta nullità del contratto per mancanza delle prime, l’autonoma sanzione della nullità del documento derivante dall’inosservanza di queste ultime. L’analisi delle dinamiche parlamentari, e il naufragio del progetto di legge con conseguenti dimissioni del Ministero, hanno avuto ampia trattazione nell’intervento conclusivo di quella vicenda e non vengono perciò ripresi ulteriormente in questa sede.
In chiusura della Parte I, si è dato atto della dottrina della metafiscalità del bollo, con riflessi in merito alla cambiale non bollata, formulata da D’Amati: la tesi è pertinente in quanto ricostruisce l’inadempimento fiscale in chiave di nullità degli atti non bollati. Ma, anche in questo caso, la dottrina maggioritaria ha ricondotto il dibattito nei termini dell’irregolarità fiscale, sanabile col successivo pagamento dell’imposta e delle eventuali sanzioni.
Al termine della disamina di questi argomenti storici indagati nella prima parte, è emersa la conclusione, già anticipata dal trend di fondo, che, nonostante la profusione di molti sforzi in questo senso, tanto del Parlamento in sede di stesura dei testi di legge quanto della dottrina in sede di approfondimento teorico, la possibilità che la violazione di una norma fiscale possa dar luogo a sanzione di nullità del relativo atto è stata decisamente esclusa.
Il contratto non in regola con le imposte di registro, o di bollo, non risulta dunque affetto da nullità, con le conseguenze che da questo regime derivano ex art. 1418 e ss, cod. civ., ma è meramente irregolare a fini fiscali, e la conseguenza di questa condizione, nelle indagate discipline del registro e del bollo, si riduce ad una serie di ipotesi di inefficacia temporanea dell’atto, fin quando non intervenga in qualunque tempo l’adempimento dell’imposta, con le eventuali sanzioni medio tempore maturate, il quale ha effetti sananti e fa cessare i divieti temporanei di cui sopra.
Nella Parte II, proseguendo e completando l’analisi storica precedentemente intrapresa per un’esigenza di continuità del presente lavoro, si sono ricercati ulteriori tentativi di introduzione del principio di nullità per irregolarità fiscale nel nostro ordinamento, e il risultato della ricerca è stato esiguo nel numero: un ulteriore tentativo parlamentare, portato avanti da Filippo Meda nel 1918, e fallito, e poi una sola ipotesi positiva introdotta nella disciplina del registro col r. d. l. del 27 settembre 1941, n. 1015417, convertito nella legge 29 dicembre 1941, n. 1470.
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Il r. d. l. veniva accompagnato dalla circ. min. fin. 29 settembre 1941, n. 104087 contenente una serie di istruzioni che verranno richiamate in calce agli articoli di riferimento.
L’estrema povertà del dato, bilanciata in parte dall’analisi del vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale sviluppatosi attorno alla normativa del 1941 (pur nella brevità della sua vigenza) ha evidenziato lo scarso interesse del legislatore tributario nel reprimere violazioni fiscali con la nullità dell’atto, dovuto probabilmente alla circostanza che l’introduzione di una sanzione generale e demolitiva come quella in parola avrebbe procurato problemi più gravi rispetto alla repressione di una condotta fiscalmente irregolare, fine proprio della legge d’imposta. Si è messa poi in luce la particolare e non secondaria circostanza per cui furono esigenze belliche contingenti a portare alla formulazione del 1918 e del 1941, sottolineando come soprattutto per la seconda vicenda, l’intento del legislatore fosse quello di rispondere ad un’emergenza straordinaria con norme eccezionali, puntualmente abrogate al venir meno di quelle esigenze che ne avevano provocato l’emanazione.
Concluso l’approfondimento storico, e proseguendo la ricerca con riferimento alla normativa degli ultimi anni, si è riscontrata la formulazione positiva del divieto di comminare la nullità ad un contratto a fronte di violazioni meramente fiscali, contenuta in una norma positiva a “carattere rinforzato”, l’art. 10, co. 3, Statuto dei diritti del contribuente. La norma ha assunto centrale rilievo come canone giuda a cui rapportare le poche ipotesi normative in contrasto, l’analisi delle quali si è affrontata proprio in quanto esse hanno avuto, o hanno, contemporanea vigenza con la norma statutaria. In primo luogo si è accennato al dibattito inerente la disposizioni di cui alla legge 165/’90, oramai non più vigenti, che prevedevano la nullità degli atti pubblici tra vivi e delle scritture private, anche autenticate, nel caso di mancanza della dichiarazione della parte o del suo rappresentante, attestante che il reddito era stato incluso nell’ultima dichiarazione dei redditi, ovvero contenente il motivo per cui il reddito non vi era stato incluso. I problemi interpretativi sorti fra questa normativa, che evidentemente reprimeva una violazione fiscale con la nullità dell’atto, e l’art. 10, sopravveniente, sono stati solo accennati, in quanto le disposizioni sanzionatorie sono state