Capitolo 6. Caratteristiche e motivazioni della mancata partecipazione culturale
6.1. La “problematizzazione” della non partecipazione: una premessa
Affrontare un fenomeno complesso come l'Audience Development chiama in causa, secondo quanto illustrato nelle pagine precedenti, il tema più ampio della partecipazione culturale (cfr. Capp. 1 e 2). La riflessione sulla necessità di assumere un approccio orientato ai pubblici, sebbene abbia attraversato diverse fasi nel corso del tempo (cfr. Cap. 3), continua a essere accompagnata dalla questione, mai pienamente risolta, della disparità di accesso alla cultura – in particolare alla cultura “legittima” – che risulta essere ancora oggi un ambito elitario, frequentato prevalentemente da persone benestanti e con un elevato titolo di studio (Jancovich e Bianchini, 2013). Una ricerca comparativa condotta a livello europeo da Falk e Katz-Gerro (2016) con l'intento di mettere in luce le principali caratteristiche capaci di influenzare i livelli di partecipazione culturale ha posto in evidenza che in tutti i Paesi europei (anche in quelli considerati più virtuosi come la Scandinavia o il Regno Unito) il titolo di studio, il reddito e la professione svolta rappresentano le variabili più importanti nel definire la probabilità e l'intensità della frequentazione di musei, gallerie d'arte, monumenti storici e siti archeologici. In questo schema di correlazioni, il livello di istruzione svolge un ruolo più significativo rispetto al reddito, richiamando la tesi di Bourdieu (1979; trad. it. 1983) che mostra «il rapporto strettissimo che lega le pratiche culturali […] al capitale scolastico (misurato in base ai titoli di studio ottenuti) e, in via subordinata, all'origine sociale» (p. 5).
In uno scenario fortemente polarizzato che divideva «il pubblico in due 'caste' 'antagoniste', 'quelli che capiscono [la cultura legittima] e quelli che non la
capiscono' […] [in quanto] 'destinata ad una minoranza particolarmente dotata'» (Ortega y Gasset, 1976; citato in Bourdieu, 1979; trad. it. 1983; p. 27), la mancata partecipazione di una porzione rilevante della popolazione è stata a lungo interpretata come un “deficit” della domanda (Miles, 2007), sovente definita come appartenente ad aree geografiche e gruppi sociali “difficili da raggiungere”, lasciando fuori dal discorso qualsiasi responsabilità legata al lato dell'offerta o alle politiche messe in campo per cercare di colmare tale distanza. Tuttavia, sono numerosi gli studi che mettono in evidenza il fatto che i diversi comportamenti e atteggiamenti nei confronti delle pratiche culturali dipendano in misura prevalente da proprietà intrinseche e relazionali legate ai processi di costruzione della propria identità sociale e culturale, all'appartenenza a gruppi e comunità basati sulla condivisione di gusti e interessi, alla percezione dei propri bisogni e al sistema delle preferenze personali (Stevenson, 2016), piuttosto che da ostacoli di tipo economico, fisico o sociale (Jancovich e Bianchini, 2013), sottolineando il fatto che la partecipazione culturale non debba essere interpretata come un fenomeno monolitico in quanto differenti tipi di persone frequentano diversi tipi di attività culturali spinti da specifiche motivazioni e aspettative (Ostrower, 2005).
Spostando il punto di osservazione, Taylor (2016) si domanda se non sia più corretto parlare di stili alternativi di partecipazione anziché di non partecipazione. Premesso che le persone che sono solite prendere parte, con una certa regolarità, ad attività culturali di tipo tradizionale (come andare a teatro o visitare un museo) rappresentano una minoranza rispetto al totale della popolazione, Taylor (ibidem) suggerisce che se si prendono in considerazione altre pratiche più informali e legate alla sfera del quotidiano (come praticare un hobby o svolgere un'attività amatoriale), il gruppo di coloro che risultano essere culturalmente inattivi si restringe notevolmente. Appare evidente, allora, che la mancata partecipazione alla cultura canonizzata non possa essere assunta come sinonimo di inattivismo culturale tout-court, stigmatizzando e colpevolizzando quanti risultano essere esclusi da tale circuito, soprattutto in un contesto in cui i confini della partecipazione culturale si sono dilatati e il significato dell'espressione “attività culturale” è sottoposto a una continua revisione da parte degli stessi partecipanti (LaPlaca Cohen, 2017). I significativi cambiamenti avvenuti nel panorama sociale, politico, digitale e mediale hanno radicalmente modificato il modo in cui gli individui definiscono la cultura e si relazionano con essa, plasmando nuove forme di coinvolgimento e ampliando i repertori della partecipazione. Non a caso, LaPlaca Cohen (ibidem) utilizza attualmente un insieme più esteso di variabili nei suoi studi sulla partecipazione culturale, prendendo in considerazione trentatré attività rispetto alle quattordici usate nelle precedenti rilevazioni, tra le quali rientrano: le
degustazioni enogastronomiche, gli spettacoli comici, la street art e la danza contemporanea, solo per citarne alcune57.
L'implicazione fondamentale di questi risultati è che si rende necessario prestare maggiore attenzione alla diversità della partecipazione culturale, ossia alle molteplici attività che le persone frequentano e alle diverse motivazioni, aspettative ed esperienze che accompagnano ciascuna attività. Pensare in termini troppo ampi e generali, avverte Ostrower (2005), può oscurare anziché chiarire ciò che è opportuno fare per avvicinare nuovi pubblici e costruire relazioni durature. Arroccate sulle loro torri d'avorio, le organizzazioni culturali hanno a lungo omesso di ascoltare i bisogni e le ragioni di quanti si sono sentiti progressivamente respinti da un sistema che pur dichiarando di voler essere inclusivo ha di fatto contribuito ad alimentare il modello del “deficit” dei non partecipanti (Stevenson, 2006), nella convinzione che l'anello debole della catena non fosse l'offerta ma la domanda, che andava educata in quanto incapace di apprezzare e comprendere la cultura legittima e di conformarsi alle norme convenzionali che regolano il rapporto con essa. Attraverso l'istituzione di quella che Evans (2001) ha definito un'inutile gerarchia tra «professional arts, arts in education and community arts» (citato in Jancovich e Bianchini, 2013; p. 63), la capacità della cultura di interagire con pubblici più vasti è stata fortemente limitata, sottovalutando le capacità intellettuali e interpretative delle persone e allontanandole dalle fasi di codifica e decodifica dello sforzo creativo (Walmsley, 2019). Oggi i dati mostrano che le principali motivazioni per le quali si è indotti a essere coinvolti in una attività sono l'interesse e il percepire quell'attività come personalmente rilevante (LaPlaca Cohen, 2017), due aspetti che molte istituzioni culturali sembrano ancora trascurare.
In un'ottica di Audience Development, diviene quindi vitale ribaltare il punto di vista, porsi in una posizione di ascolto e approfondire le ragioni della mancata partecipazione. In particolare, diviene necessario andare oltre l'insieme ristretto e consolidato di forme d'arte, generi e oggetti culturali sui quali si è storicamente
57 In particolare, le attività incluse nell'ultima edizione del sondaggio risultano essere: «1. Art or design museum; 2. Children’s museum; 3. Art gallery/fair; 4. Botanical garden; 5. Zoo or aquarium; 6. Science or technology museum; 7. Natural history museum; 8. Public park; 9. Architectural tour; 10. Public/street art; 11. Film festival; 12. Music festival; 13. Performing arts festival (dance, theater, etc.); 14. Community festival/street fair; 15. Craft or design fair; 16. Books/literature; 17. Food and drink experience (food festival, beer or wine tasting); 18. Play (non-musical); 19. Musical; 20. Variety or comedy show; 21. Popular music (rock, country, hip- hop); 22. Classical music; 23. Jazz music; 24. Opera; 25. World music (Latin, Caribbean); 26. Contemporary dance (jazz, hip-hop, modern); 27. Ballet; 28. Regional dance (e.g. salsa, Irish stepdance, Indian classical); 29 Historic attraction/museum (historic home, landmark, history museum, religious site); 30. Television program (streaming or broadcast, non-news); 31. Movies/film (documentary, independent, blockbuster); 32. Library; 33. Cultural center» (LaPlaca Cohen, 2017; pag. 4).
concentrata l'attenzione pragmatica delle indagini su larga scala (Friedman et al., 2015). Un simile approccio, infatti, non solo contribuisce a rafforzare il sistema di distinzione da cui trae origine, ma codificando la cultura in una gamma limitata di pratiche convenzionali, ufficialmente autorizzate o legittime, ribadisce l'idea che le modalità quotidiane di partecipazione (insieme a coloro che le praticano) non siano, per estensione, in alcun modo culturali (Miles e Sullivan, 2012). Per superare questa visione, Friedman et al. (2015) invitano a interpretare la formazione del capitale culturale delle persone in modo relazionale, in base alla loro posizione in una più ampia rete di oggetti e pratiche culturali. I pubblici smettono di essere soggetti passivi e diventano interlocutori socialmente situati, che partecipano in maniera attiva ai processi di interpretazione, rielaborazione e creazione di significati (Fiske, 1992).
6.2. Struttura dell'indagine Istat “I cittadini e il tempo libero” e nota