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LA RESPONSABILITÀ PENALE DEL MEDICO COMPETENTE

LE INTERCONNESSIONI FRA LE PARTI IN CAUSA

LA RESPONSABILITÀ PENALE DEL MEDICO COMPETENTE

La responsabilità penale del medico-chirurgo può, notoriamente, essere fondata nella quadripartizione dell’errore: di diagnosi, di prognosi, di scelta terapeutica, di esecuzione della terapia.

Se la colpa o la responsabilità presuppongono un errore, non tutti gli errori sono sintomatici di colpa e produttivi di responsabilità. Il fondamento normativo di questi principi poggia sui peculiari articoli del codice penale:

art. 40 (rapporto di causalità): “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se l’evento dannoso o pericoloso da cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione o omissione”

art. 43 c.p.: “………. si definisce colposo, o contro l’intenzione il delitto quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente ed è conseguenza della sua negligenza imprudenza o imperizia ovvero di inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.

Pertanto si ha condotta colposa quando è mancata la diligenza e l’attenzione che consentono di evitare distrazioni e mancanze (negligenza); quando si è agito con avventatezza, pur prevedendo o dovendo prevedere l’evento dannoso (imprudenza);

quando si è agito con inabilità nella professione o nell’arte ovvero con preparazione insufficiente relativamente al caso concreto (imperizia).

Si tratta della tradizionale impostazione che considera la colpa e il dolo come forme dell’elemento soggettivo del reato, cioè come l’atteggiarsi della volontà del soggetto rispetto all’evento, voluto nel dolo, non voluto nella colpa.

Secondo B. Dieidda questa “è un’impostazione entrata prepotentemente in crisi non solo per l’evoluzione della dottrina, ma anche per le pratiche applicazioni giurisprudenziali.

Anche per la giurisprudenza ormai la colpa non è più solo una forma della colpevolezza e un atteggiarsi della volontà, ma un elemento tipico del reato.

Nella peculiare circostanza dei reati colposi connessi allo svolgimento delle attività produttive diventa cioè rilevante non solo il verificarsi di un evento non voluto, ma anche e soprattutto il fatto che esso sia stato provocato attraverso una condotta in contrasto con una norma di cautela o di precauzione”. Quindi, attraverso, una condotta omissiva:

l’insorgenza cioè di una malattia professionale rappresenta il prodotto di una violazione di una norma di tutela della salute del lavoratore e, quindi, cautelare che, se rispettata, avrebbe impedito proprio il verificarsi di quell’evento ed il cagionare il conseguente danno alla integrità psicofisica del lavoratore.

Ritornando all’analisi dell’art. 40 c.p., come è facile intuire, la causalità commissiva e la causalità omissiva se da un punto di vista giuridico sono in esso equiparate non lo sono

affatto da un punto di vista naturalistico.

Nella condotta commissiva, l’evento consegue ad una concreta modificazione del mondo esterno.

Nella condotta omissiva, l’evento consegue allo sviluppo naturale della patologia, non affrontata con la dovuta perizia dal medico che avrebbe dovuto, nei limiti delle conoscenze acquisite, porvi rimedio: tale circostanza ha, sotto il profilo giuridico, lo stesso effetto causale della condotta positiva. Tuttavia questo ragionamento induce una domanda: se la patologia, la malattia professionale, fosse stata correttamente diagnosticata e/o trattata anche attraverso la messa in atto di cautele organizzative nel ciclo lavorativo, il lavoratore avrebbe ugualmente contratto la patologia in esame? Il problema da superare nella causalità omissiva risiede in questo quesito.

Pertanto, affinchè la responsabilità del medico possa essere configurata occorre che la colpa sia congiunta al cosiddetto nesso causale: occorre cioè che l’errore abbia cagionato l’evento ponendosi come condizione essenziale per il suo verificarsi.

L’analisi delle più recenti decisioni giurisprudenziali ci pone di fronte alle difficoltà di ricostruire ex post la genesi e l’evoluzione delle malattie professionali, difficoltà che sono enormi non solo perché l’indagine causale sull’insorgenza delle malattie o l’individuazione dei comportamenti cautelari doverosi sono intrinsecamente irte di insidie, ma anche perché la pronunzia del giudice coinvolge inevitabilmente i beni più delicati della persona:

la salute, la vita, l’incolumità personale e la dignità e sicurezza del lavoro. Ed è allora inevitabile che il giudice, come lo scienziato o il medico legale, sentano tutta la drammaticità della affannosa ricerca di un’inafferrabile certezza ovvero “dell’elevato grado di probabilità prossimo alla certezza”.

La Cass. Pen. Sez. 4 con la Sentenza n. 5716 del 25/09/2001 Ud. (dep. 13/02/2002) Rv.

220953, in tema di nesso di causalità, cita testualmente che” non è sufficiente che il giudice accerti che, senza la condotta dell'uomo, l'evento non si sarebbe verificato soltanto con "apprezzabile probabilità", in quanto il rapporto causale richiede, invece, un più alto grado di probabilità o di credibilità razionale, vicino alla certezza”. (In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto non provato il nesso di causalità tra la mancata osservanza della normativa in materia di igiene del lavoro relativa all'esposizione a polveri di amianto e l'insorgenza di mesotelioma pleurico che aveva condotto al decesso del lavoratore)

La malattia è un processo patologico che matura nel tempo ed è il risultato di una graduale, progressiva, lenta azione morbigena: si manifesta in un preciso momento, quello della diagnosi clinica o poco prima, quando, cioè, ne appaiono evidenti i sintomi, ma a distanza di tempo (talvolta anni se non addirittura decenni) dal momento in cui il soggetto è stato esposto a fattori di rischio.

La causa deve ricollegarsi ad un’esposizione ripetuta nel tempo, anche se non necessariamente giornaliera, a fattori di rischio connessi all’espletamento dell’attività lavorativa e dai quali si possa far ragionevolmente risalire la causa dell’insorgenza della malattia.

Nell’ambito della analisi di una malattia professionale (Piero FUCCI – Patrizio ROSSI “La medicina legale degli infortuni e delle malattie professionali”- Giuffrè ) è opportuno tenere conto di alcuni aspetti tecnici :

1. inizio dell’esposizione: si individua nel momento storico in cui il soggetto è stato esposto al fattore di rischio; coincider con la data in cui è stato assunto o comunque ha iniziato quelle determinate attività lavorative nel corso delle quali era esposto al fattore di rischio

2. tempo di induzione: è il periodo trascorso tra l’inizio dell’esposizione all’agente pericoloso e l’inizio della malattia

3. latenza: è il tempo intercorso tra l’inizio dello sviluppo della malattia e la sua manifestazione patologica

4. evidenza della malattia: viene fatta coincidere con il momento dell’effettiva diagnosi.

Proprio la diluizione nel tempo del processo morbigeno introduce, quale elemento di incertezza ricostruttiva, la pluricausalità della sua genesi.

Sono molteplici i fattori che la possono determinare e non tutti controllabili o conoscibili: si pensi alla rilevanza della predisposizione personale, la cosiddetta suscettibilità individuale, allo stile di vita, ad eventuali fattori di rischio presenti nell’ambiente di vita extralavorativa ecc. Le osservazioni empiriche del passato circa il possibile ruolo di fattori predisponenti ereditari di tutte le malattie, che hanno portato alle teorie costituzionalistiche formulate dai grandi clinici dell’inizio del secolo scorso, sono oggi aiutate dalla lettura, sempre più sorprendente, del ‘libro’ scritto nel nostro genoma, del quale ormai si conoscono,con un crescendo incessante, geni che governano non solo malattie ma anche le più varie predisposizioni morbose quali, ad esempio, gli oncogeni che favoriscono l’insorgenza di tumori a seguito dell’esposizione all’azione di determinati agenti; ovvero variazioni geniche spiegano la diversa reattività ai farmaci e, quindi, a sostanze chimiche di varia natura.

Accanto a queste predisposizioni genetiche si collocano, ovviamente, i fattori concorrenti esogeni acquisiti, costituiti da eventuali esiti di malattie sofferte in epoca prenatale o nella prima fase della vita, e dalle abitudini di vita, specie quelle alimentari e quelle voluttuarie, ed i fattori ambientali sempre più importanti in relazione all’inquinamento dovuto all’attività umana nel suo complesso.

Pertanto, alla luce della ricostruzione dell’origine di una patologia, è chiaro che, in considerazione di tutti i fattori endogeni ed esogeni in essa coinvolti, il parametro temporale, insito nella genesi della malattia professionale, quanto più ampio risulta, tanto più incide sulla ricostruzione del rapporto causale e, conseguentemente, sull’individuazione del ruolo e delle responsabilità dei vari soggetti.

Pertanto, a seguito delle premesse fatte, il primo problema da superare è quello del rapporto di causalità tra la malattia e la prestazione di lavoro.

Alla stregua della dottrina e della giurisprudenza prevalente (Cass. Pen Sez. IV, 28.9.2000 Rv 218777; Cass. Pen. 29.9.2000 Musto; Cass. Pen. 25.9.2001 Rv 220953; Cass. Pen.

25.9.2001 Rv. 220982; Cass. Pen. 28.11.2000 Rv. 218727; Cass. Pen. Sez. 4 Sentenza n. 5716 del 25/09/2001 Ud. (dep. 13/02/2002) Rv. 220953) il rapporto di causalità deve essere letto secondo la cosiddetta

“teoria condizionalistica”: è causa penalmente rilevante la condotta umana, attiva od omissiva, che si pone come condizione necessaria nella catena degli antecedenti che hanno concorso a produrre il risultato, condotta senza la quale l’evento da cui dipende l’esistenza del reato non si sarebbe verificato.

Il rapporto di causalità va individuato non solo quando si provi che l’intervento doveroso omesso avrebbe evitato il prodursi dell’evento che in concreto si è verificato ma anche quando si provi che ne avrebbe cagionato uno di intensità inferiore o l’evento verificatosi sarebbe insorto in tempi significativamente più lontani.

Alla luce di quanto detto e nello specifico ambito degli obblighi, e quindi poi delle conseguenti responsabilità, in capo al Medico Competente vige quello dell’allontanamento dall’esposizione rispetto alla fonte di rischio professionale del lavoratore quando sussistano le seguenti condizioni:

1. nel caso in cui il lavoratore per motivi sanitari inerenti la sua persona, connessi all’esposizione ad un agente chimico o fisico o biologico, sia allontanato temporaneamente da un’attività comportante esposizione all’agente di rischio, in conformità al parere del medico competente è assegnato, in quanto possibile, ad un altro posto di lavoro nell’ambito della stessa azienda;

2. il datore di lavoro, in conformità al parere del medico competente, adotta le misure

preventive e protettive per i singoli lavoratori, al fine di favorire il recupero audiologico.

Tali misure possono comprendere la riduzione dell’esposizione quotidiana personale del lavoratore, conseguita mediante opportune misure organizzative.

In conseguenza di ciò si può affermare (B. Deidda – Incontro di Studio sul tema “Medicina Legale” a cura del CSM, Roma 9/11 Febbraio 2004, “Attività produttive e rischi per la salute: questioni rilevanti in tema di malattie professionali. Rilevanza ed attendibilità delle indagini epidemiologiche) con l'evidenza di tutto quanto detto sopra, che l’evento lesivo quale la malattia professionale sia conseguenza non solo della condotta in senso materiale, ma della condotta inosservante della regola cautelare che viene assunta come doverosa nel caso concreto.

Infatti, la giurisprudenza molteplici volte ha sottolineato l'importanza e quindi la necessità di accertare questo ulteriore nesso tra evento e condotta colposa, affermando che l’evento deve rappresentare la concretizzazione di quel rischio specifico che la norma di condotta violata tendeva a prevenire.

A fronte di tale visione la giurisprudenza ha fissato due punti essenziali per la dimostrazione inequivocabile di quanto poc'anzi affermato:

1) occorre accertare se l’evento che in concreto si è verificato rientra nell’ambito di quegli eventi che la norma precauzionale violata tende ad evitare;

2) per evitare che la responsabilità colposa non si traduca nella mera responsabilità oggettiva, occorre accertare che l’evento verificatosi fosse evitabile proprio ponendo in essere la condotta cautelare che si assume violata. Accertamento cui si perviene attraverso un giudizio ipotetico “controfattuale” immaginando cioè come realizzata la condotta omessa per trarne un giudizio di idoneità o meno ad evitare il verificarsi dell’evento.

Quindi, in definitiva, non solo occorre accertare il nesso di causalità materiale tra l’azione realizzata e l’evento lesivo; occorre anche chiedersi in termini ipotetici se la condotta corretta (non posta in essere) sarebbe valsa con un alto grado di probabilità ad evitare l’evento.

Bisogna in altri termini emettere un pronostico razionalmente credibile e quanto più prossimo alla certezza circa la possibilità di salvare il bene protetto attraverso l’applicazione puntuale della condotta cautelare doverosa.

Ancora nello specifico sulla tematica del nesso causale sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 30328 del 10.7.2002, ric. Franzese, enunciando tre principi destinati a sopire i contrasti sorti nell’accertamento del nesso causale, con particolare riguardo alla categoria dei “reati omissivi impropri” e al settore specifico dell’attività medico-chirurgica. Per reati omissivi impropri si intendono quei reati commessi omettendo di attivarsi a fronte degli speciali doveri di adozione di misure cautelative e precauzioni (organizzative, tecniche, strutturali, sanitarie), collegati alla posizione di garanzia che l’ordinamento riconosce anche al Medico Competente.

Ritornando alla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, quelli enunciati rappresentano tre principi di diritto che certamente sono importanti, anche se forse non metteranno fine ai dubbi e alle obiezioni.

Secondo la Suprema Corte:

a) il nesso causale può essere ravvisato quando alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica – si accerti che ipotizzandosi come realizzata (dal medico) la condotta doverosa impeditiva dell’evento, hic et nunc, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato con significativo ritardo o con minori conseguenze lesive;

b) non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma o meno dell’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto sulla base delle circostanze di fatto

accertate e dell’evidenza disponibile; in modo che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia anche escluso l’interferenza di cause alternative, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva dell’agente è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica;

c) l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale e, quindi, il ragionevole dubbio, in base ai dati disponibili, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano inevitabilmente l’insufficienza dell’ipotesi accusatoria e l’esito assolutorio del giudizio.

Con un’altra Sentenza, la n. 988 del 14-1-2003, ric. Macola, la Corte di Cassazione affermava “che dovrà riconoscersi il rapporto di causalità non solo nei casi in cui sia provato che l’intervento doveroso omesso (o quello corretto, in luogo di quello compiuto) avrebbe evitato il prodursi dell’evento in concreto verificatosi o ne avrebbe cagionato uno di intensità lesiva inferiore, ma altresì nei casi in cui sia provato che l’evento si sarebbe verificato in tempi significativamente più lontani ovvero ancora quando alla condotta colposa omissiva o commissiva sia ricollegabile un’accelerazione dei tempi di latenza di una malattia provocata da un’altra causa”.

In quanto titolare dei compiti con evidenti finalità preventive, il Medico Competente può essere chiamato a rispondere a titolo di colpa di eventi di danno del lavoratore quali esiti di insorgenza di patologie professionali.

La responsabilità colposa del Medico Competente può configurarsi in qualità di colpa omissiva in quanto sono state omesse le cautele imposte dalla normativa e dalla deontologia che vanno dalla disposizione di approfondimenti diagnostici di secondo ed eventualmente di terzo livello, alla stesura della denuncia/referto all’Autorità Giudiziaria, alla comunicazione al Datore di Lavoro, attraverso il giudizio di idoneità, delle misure protettive relative all’organizzazione della specifica mansione nei tempi di esposizione fino a giungere all’allontanamento dalla postazione lavorativa che determina l’esposizione al rischio.

Essendo titolare di una serie di obblighi con dichiarate ed evidenti finalità “prevenzionali”, è chiaro che, conformemente ai principi generali, il Medico Competente può essere chiamato a rispondere, a titolo di colpa, di eventi di danno: essenzialmente morte o lesione del lavoratore, verosimilmente, in relazione alla natura dell’attività prevenzionale concretamente affidatagli, come esito dell’insorgenza di patologie professionali fino alla morte del lavoratore o della lavoratrice.

Pertanto, in base alla gravità della patologia cagionata e dei suoi eventuali postumi permanenti, i reati astrattamente contestabili al Medico Competente sono, pertanto, essenzialmente quelli di omicidio colposo (art. 589 c.p., perseguibile d’ufficio) e lesioni colpose (art. 590 c.p., perseguibile, invece, a querela di parte, a meno che le lesioni non siano “gravi”, art. 583 comma 1 c.p. ovvero “gravissime”, art. 583 comma 2 c.p., e che gli stessi siano stati commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, o abbiano determinato una malattia professionale, secondo il disposto dell’art.

590, ultimo comma c.p.). Per quanto attiene la malattia professionale, è, ragionevolmente, il tipo di evento più facilmente immaginabile come “cagionato” dalla serie dei possibili inadempimenti del medico competente.

RUOLO DEL MEDICO DEL PATRONATO NELLE MALATTIE