• Non ci sono risultati.

RUOLO DEL MEDICO DEL PATRONATO NELLE MALATTIE PROFESSIONALI

Paolino Trinchese - Medico del Lavoro – Consulente Patronato INAS

Quello del Patronato è un ruolo molto importante all'interno delle organizzazioni sindacali perché attraverso il suo operato si realizzano importantissime tutele nei confronti dei cittadini/lavoratori: quella previdenziale e quella assistenziale, nel caso degli infortuni sul lavoro o delle malattie professionali.

I Patronati vennero previsti già da alcuni Regolamentati del 1947, quali strutture di assistenza e tutela dei cittadini e dei lavoratori.

Attualmente sono regolamentati dalla legge N. 152/2001, che chiarisce la loro funzione e natura giuridica, e cioè:

1) Persone giuridiche di diritto privato che svolgono un servizio di pubblica utilità

2) Semplice assistenza per compilazione e consegna domande di prestazioni previdenziali

3) Attività di Tutela in sede: amministrativa, medico-legale

4) Tutta l’attività, per previsione normativa, è rivolta sia agli iscritti che ai non iscritti 5) È gratuita per la parte amministrativa e medica. Richiesta una piccola partecipazione

alle spese legali nei casi di ricorso al giudice del lavoro

6) Il ruolo del patronato, necessariamente di parte e discrezionale, trova fondamento nel patrocinio ai lavoratori ai quali INAIL nega il riconoscimento di: infortunio- malattia professionale- rendita ai superstiti.

In effetti il loro ruolo e funzione viene anche ribadito e confermato dal D.Lgs. 81/08, che all’art. 10 li individua quali soggetti abilitati a fornire “ Informazione e assistenza in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”.

Sul piano strettamente legato alla gestione della tutela delle malattie professionali si può sostenere che attualmente i continui cambiamenti avvenuti in questi anni nel mondo del lavoro, ma anche nel campo della medicina legale del lavoro hanno reso certamente più complesso il compito della tutela dei diritti dei lavoratori.

Per tale motivo per il Patronato si pone un problema non più procrastinabile e che è rappresentato dalla definizione di corrette procedure organizzative delle attività specifiche con particolare riferimento a: visite presso gli ambulatori, diagnosi, certificazioni, stesura di pareri medico-legali per attività di precontenzioso e contenzioso, visite collegiali, partecipazione come Consulente Tecnico di parte alle operazioni peritali in caso di contenzioso giudiziario, ecc.

Proprio da questo punto di vista la gestione delle malattie professionali oggi rappresenta un campo di particolare impegno per le attività di Patronato e, naturalmente, per il medico consulente del Patronato e ciò proprio per quei mutamenti in corso nel mondo del lavoro, sia dal punto di vista organizzativo che quali/quantitativo. Infatti l’estrema variabilità e mobilità dei lavoratori, sia interna alle aziende che interaziendale, pone particolari problemi nella ricerca anamnestica e nella evidenza del nesso causale. Questa condizione richiede al Patronato un particolare impegno nella ricerca documentale della storia lavorativa del soggetto, ma pone anche al medico del Patronato particolare attenzione nella capacità diagnostica delle patologie professionali, in assenza di dati oggettivi sulla esposizione ai rischi specifici da parte del lavoratore.

Da questo punto di vista il medico consulente di un Patronato deve necessariamente avere ben presente che la sua è una funzione squisitamente medico-legale attraverso cui è tenuto, quale consulente tecnico di parte, alla salvaguardia degli interessi del lavoratore/cittadino che si rivolge all’Ente per la tutela dei suoi diritti previdenziali e assistenziali. Egli deve strutturare la sua normale prassi lavorativa per:

1) Dare evidenza della oggettività e soggettività clinica,

2) Saper fissare con esattezza la oggettività anatomica e funzionale dei danni rilevati, in modo che sia sempre possibile, in ogni istanza un preciso giudizio diagnostico, prognostico e soprattutto di valutazione del danno alla persona/lavoratore,

3) Definire i presupposti che la sua attività possa essere il supporto necessario ad ogni ulteriore attività del patronato (visite collegiali, revisioni, contenzioso giudiziario, ecc.).

Un lavoratore giunge al medico del Patronato carico di aspettative verso la soluzione di un suo problema, che sicuramente è di salute, ma che spesso si traduce in un “disagio”

riferito al lavoro svolto. In queste condizioni il lavoratore non è in grado di offrire molti riferimenti e notizie che danno una oggettività anamnestica rispetto alla sua attività e, quindi, alla esposizione lavorativa ai rischi specifici, tale da non consentire a formulare una diagnosi corretta di malattia professionale, almeno probabile.

Infatti i cambiamenti che si sono avuti nel mondo del lavoro hanno determinato profondi mutamenti anche per gli aspetti che riguardano la tutela della salute e la prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro.

Da ciò deriva che i rischi a cui sono esposti i lavoratori si sono diversificati e la stessa esposizione è mutevole, sia le condizioni che per la durata. Nella società contemporanea sono sempre rari i lavori che consentono un’occupazione stabile e definita nel tempo, sia per gli aspetti organizzativi che per le caratteristiche proprie delle attività svolte.

A queste difficoltà si deve aggiungere che le malattie causate dal lavoro, per la loro definizione e valutazione medico-legale, sono fondamentalmente definite soprattutto dalle loro caratteristiche eziologiche e non da quelle nosografiche, essendo queste ultime nella maggior parte dei casi di tipo aspecifico.

Tuttavia le specificità legate ai cambiamenti in corso nel mondo del lavoro rendono queste ultime sempre più predominanti realizzando il complesso delle malattie cosiddette

“correlate al lavoro”. La possibile associazione tra un’esposizione professionale ed una malattia è pertanto una relazione che richiede un’analisi spesso assai complessa allo scopo di pervenire a conclusioni affidabili e la sua valutazione deve essere condotta secondo corrette regole scientifiche.

Per tale motivo è necessario articolare un percorso diagnostico delle malattie da lavoro, che si differenzia dal percorso della pratica clinica generale, dove sono previste due fasi specifiche e cioè:

1) la definizione clinico-anamnestico-strumentale del caso in esame, 2) la successiva definizione nosologica della patologia osservata.

Nella diagnostica propria della Medicina del Lavoro il processo deve essere arricchito di una terza fase, quella della definizione del nesso causale, basata sulla analisi del caso in rapporto al rischio/esposizione, in cui fondamentale è la valutazione della compatibilità tra la patologia riscontrata e le caratteristiche dell’attività in cui è stato impegnato il soggetto, con particolare riferimento ai parametri qualitativi, quantitativi e temporali del rischio.

A riprova dei cambiamenti in corso vale la pena analizzare l’attuale andamento delle malattie professionali e partendo proprio da un rapporto che l’Inail ha pubblicato nel 2006, dove si può osservare che le patologie denunciate in quell'epoca erano rappresentate da:

- ipoacusia da rumore 5.788 casi - tendiniti 2.683 casi

- affezioni dei dischi intervertebrali 2.486 casi - indeterminate 1.970 casi

- sindrome del tunnel carpale 1.515 casi - malattie dell’apparato respiratorio 1.450 casi - artrosi 1.320 casi

- altre neuropatie periferiche 788 casi - tumori 785 casi

- neoplasie da asbesto 753 casi

Questo elenco pone evidenzia sul fatto che la maggior parte delle denuncie non riguardano malattie ricomprese nella tabella allegata al DPR 336/94. In questi casi, secondo la normativa, sta al lavoratore l’onere della prova e cioè la fatica di dimostrare che queste patologie sono state contratte nell’esercizio ed a causa delle lavorazioni svolte e non per altri fattori extralavorativi o per la presenza di altre cause (ad esempio la sindrome del tunnel carpale da alterazioni ormonali in gravidanza o menopausa, ecc.).

Che questo onere rappresenti una fatica improba lo dimostra il dato che delle circa 25.000 malattie denunciate ogni anno solo il 29% viene riconosciuto come professionale e solo il 14%, circa 3.000 all’anno. Di questi riconoscimenti e indennizzi solo l’8% rappresenta malattie non tabellate.

È vero che l’INAIL negli ultimi anni pone nella sua pratica medico-legale un atteggiamento meno rigido nei riguardi dell’evidenza dell’onere della “prova”, ma questa esigenza pone al medico del Patronato un arduo problema quando lo stesso si trova di fronte un lavoratore che manifesta una sofferenza o segni che potrebbero essere attribuibili ad una patologia legata alla sua attività lavorativa e per la quale deve essere avviata la domanda di indennizzo. Le difficoltà riguardano essenzialmente alcune questione rappresentate dal fatto che:

1) il lavoratore in genere non sa indicare con precisione le caratteristiche delle patologie e la sua correlazione al lavoro svolto (spesso le rivendicazioni, e ciò soprattutto per le malattie professionali, avvengono nel corso di rivendicazioni collettive),

2) solo in alcuni casi è possibile accedere ad esami strumentali e di laboratorio che possono aiutare nella diagnosi della malattia professionale,

3) quasi sempre non è possibile accedere a documentazione probante l'esposizione professionale.

Naturalmente il ruolo del Patronato risponde anche ad esigenze sociali e per tali motivi è fondamentale il rapporto con il sindacato, che attraverso la rete territoriale, può essere uno strumento attraverso il quale si possono reperire notizie e documentazione utile alla pratica di tutela medico-legale. Non a caso, come prima già si accennava, la normativa ha attribuito al Patronato anche una importante ruolo di soggetto attivo nel sistema della prevenzione (D.Lgs. 81/08) e per tale necessità occorre, oltre al già richiamato rapporto stretto con il sindacato nel suo complesso, che il medico consulente abbia le necessarie conoscenze dei luoghi di lavoro, buona capacità di lettura della documentazione che arriva dalle aziende, idonea preparazione sui sistemi di prevenzione e protezione che possono essere realizzate nei luoghi di lavoro. Ma questo aspetto ci porta lontano dall'argomento oggetto di questo evento e meriterebbe un approfondimento specifico. Questa esigenza dovrebbe essere approfondita anche per il ruolo particolare che assume oggi l'INAIL nel campo della prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro (accorpamento dell’ISPESL).

Per tornare al ns argomento si può riconoscere tale la “fatica” dell’onere della prova non si pone in caso di riconoscimento di malattia professionale tabellate, infatti, ed è utile ricordarlo, per le malattie professionali vige sempre il doppio regime. Ciò significa che per quelle tabellate vale la presunzione legale di origine, definita come “il principio che consente, una volta formulata una diagnosi etiologica di malattia rapportabile ad un fattore patogeno tabellato, di attribuire la malattia stessa alla lavorazione protetta svolta dall’assicurato, senza la necessità di provare, mediante indagini analitiche ambientali, il grado di effettiva nocività del posto di lavoro (dal momento che le tabelle stesse non prevedono un periodo minimo di esposizione al potenziale rischio)”.

Per la verità ciò di fatto molte volte non accade e da parte dell’Ente assicurativo e/o dei funzionari medici si considera ancora determinante il documento di valutazione del rischio che è fornito dalla Ditta in fase di istruzione della pratica, commettendo così un illecito amministrativo.

Questa prassi deve necessariamente essere tenuta presente dal medico del Patronato e, quindi, le sue capacità di lettura del mondo del lavoro, prima ancora della sua capacità diagnostico-valutativa, rappresentano un elemento fondamentale della sua specificità e capacità professionale. Infatti siamo in presenza di malattie per lo più non tipiche o a genesi multifattoriale, come evidenziato anche dal rapporto INAIL sopra ricordato, nelle quali i diversi momenti etiologici professionali ed extra-professionali non sono di agevole distinzione. Questa realtà rende necessario un approccio diagnostico in cui deve prevalere una criteriologia probabilistica passando da un modello classico, che è quello normologico-deduttivo, ad un modello quello probabilistico-induttivo, in cui i diversi fattori che concorrono allo sviluppo della malattia professionale sono tenuti nella debita considerazione eziologica.

In particolare il Consulente Medico del Patronato interviene nella tutela del lavoratore in alcune fasi peculiari e che, quindi, richiedono particolare attenzione e professionalità. Nel dettaglio il medico interviene:

• Nel valutare i postumi di invalidità permanente per poter contestare l’eventuale interpretazione restrittiva dell’Inail.

• Nel richiedere il riconoscimento della giusta percentuale di invalidità anche in caso di riduzione o revoca della rendita.

• Nel motivare il nesso di causalità tra l’infortunio e la malattia professionale e l’attività lavorativa svolta.

La sua attività si esplica presso la sede dell’Ente, nella fase istruttoria, ma anche presso l’INAIL, nella fase della Collegiale.

La collegiale, appunto, rappresenta un momento di confronto ed uno strumento di valutazione sicuramente valido, di cui con ogni probabilità è necessario rilanciarne e qualificarne contenuti e finalità. In sede di Collegiale è possibile attivare il confronto sull’approfondimento dei quadri clinici, diagnostici e valutativi; in questa sede è possibile raggiungere un obiettivo primario che la composizione informale, tra sanitari dell’Inail e del Patronato, dei casi controversi, con l’obiettivo finale di un miglioramento delle prestazioni assicurative per il lavoratore.

Nell’attività di consulenza presso la sede dell’Ente il Medico del Patronato ha la necessità di avere evidenza di:

1) motivi della reiezione

2) caratteristiche dell’infortunio o della malattia professionale con particolare riferimento a:

a) Anamnesi patologica b) Anamnesi lavorativa

c) Documentazione sanitaria (eventualmente richiedere altra documentazione) d) Esame obiettivo

e) Diagnosi clinica e Medico legale f) Valutazione percentuale del danno g) Tabella dei coefficienti

Viceversa nella sua attività presso l’INAIL (visita collegiale), dove si ribadisce che è necessaria la sua presenza attiva, il medico deve:

a) Avere accesso alla documentazione dei fascicoli

b) Effettuare un esame obiettivo congiunto con puntualizzazione qualitativa e quantitativa della infermità

c) Verbalizzare le operazioni in modo chiaro e sintetico, con brevi considerazioni di parte, (collegiale concorde/discorde)

Nel prosieguo l’attività del medico del Patronato continua, in caso di collegiale discorde, nell’attività di assistenza al lavoratore nel ricorso di I grado ed eventualmente di II grado,

dove particolare importanza riveste la sua Relazione medico-legale, preliminare al giudizio, in cui devono essere evidenti alcuni dati e notizie fondamentali a upporto della rivendicazione, con particolare riferimento a:

1) documentazione relativa alla patologia,

2) dati storici, clinici e di anamnesi (precedenti attività lavorative, malattie, attività extralavorative, uso di farmaci, difetti congeniti, ecc.),

3) corretta effettuazione degli esami clinici secondo gli standard ed eventualmente richiedere ai soggetti di sottoporsi spontaneamente ad ulteriori accertamenti,

Molto importante è tenere presente che nella fase del contenzioso di II grado bisogna SOSTENERE e DIMOSTRARE i motivi del ricorso. In particolare il medico deve:

• sottolineare in modo chiaro gli elementi che hanno portato ad erronea valutazione del CTU;

• evitare critiche “acritiche”;

• prendere, eventualmente, spunto da elementi cardine e/o di letteratura scientifica;

• dimostrare il contrario.

In questa sede non si può sottacere che spesso manca un vero confronto nel merito tra le parti sulle questioni di merito e ciò perché:

• non c’è una comunicazione sulle ragioni del mancato riconoscimento della MP (soprattutto in riferimento all’esposizione).

• La documentazione, consegnata solo al lavoratore, riguarda gli esami ma non esprime il giudizio medico-legale.

• In realtà il sostegno al diniego del riconoscimento della natura tecnopatica delle lesioni viene motivato sulla base della definizione delle condizioni di esposizione risultanti dal solo DVR redatto dall’impresa

Pertanto la collegiale rappresenta uno strumento importante per un confronto vero nel merito del caso, oggetto del contenzioso, ed è l’occasione per un esame completo di tutta la documentazione agli atti, ma purtroppo negli ultimi tempi la stessa non viene concessa che in una minima percentuale di casi. In realtà deve essere chiaro che la Collegiale può essere finalizzata al solo scopo di fissare un “Esame Obiettivo” e ciò per tutti risvolti di natura medico-legale che conseguono.

Per motivo è necessario che i sanitari impegnati nella diagnosi della malattia professionale, con particolare riferimento ai colleghi INAIL, pur nella frequente difficoltà di ricostruire storicamente l’esposizione ad un determinato rischio devono avvalersi dei dati ricavabili da indagini mirate di igiene industriale, di quelli della letteratura scientifica, delle informazioni tecniche, ricavabili da situazioni di lavoro con caratteristiche analoghe, nonché di ogni altra documentazione e conoscenza utile a formulare un giudizio fondato su criteri di ragionevole verosimiglianza e ciò perché l’efficienza causale degli agenti patogeni deve essere effettuata non in astratto ma in concreto, cioè con riferimento alle condizioni fisiche del singolo lavoratore.

Per dare un contributo di chiarezza, verso obiettivi che diano certezza diagnostica e valutativa, è necessario considerare che i documenti di valutazione del rischio (che in realtà sono gli unici elementi oggettivi che l’INAIL tendenzialmente prende in considerazione) possono contenere una precisa indicazione sui valori di esposizione ambientale, ma possono non rispondere ad una descrizione dettagliata delle condizioni di lavoro dobbiamo (spesso o quasi sempre questi possono essere alterati da una indagine condotta da strutture esterne che sono pagate dalle ditte e che risultano sempre e comunque di parte).

L’INAIL attribuisce spesso un disarmante valore di “certezza” al Documento di Valutazione dei Rischi, che peraltro è finalizzato ad esclusivi scopi di prevenzione e controllo dell’esposizione professionale.

L’impiego di questo documento aziendale, come discriminante nella valutazione del nesso di causa per il riconoscimento di una MP, appare improprio sotto i diversi profili : giuridico, tecnico e medico-legale. Nel dettaglio:

¾ Giuridico in quanto rappresenta un documento di parte la cui redazione è di esclusiva responsabilità datoriale.

¾ Tecnico in quanto la stima dell’esposizione professionale, se occasionale e non condotta con rigorosa metodologia statistica, non rappresenta quella vera se non in un ampio campo di variabilità.

¾ Medico-legale in quanto la valutazione è riferita quasi sempre ad una condizione di esposizione attuale non espressiva della situazione storica.

In effetti le stime del rischio contenute nel DVR vanno assunte con estrema cautela e quand’anche si giudichi corretta la metodologia di analisi, il dato sull’esposizione può rappresentare semmai uno degli elementi, su cui fonda la valutazione, e che deve necessariamente affiancarsi ad altri elementi altrettanto fondamentali nella ricostruzione dell’esposizione professionale e cioè: l’anamnesi professionale, le conoscenze tecnologiche, il criterio epidemiologico.

Si sostiene da più parti che il DVR non è un documento “di parte”, perché rappresenta la fotografia dell’azienda/cantiere relativamente a:

a) organizzazione del lavoro,

b) fasi di lavoro, sostanze utilizzate,

c) valutazione delle condizioni di pericolo e di rischio per la salute, d) misure di prevenzione e protezione.

Non è il caso in questa sede entrare nel dettaglio, ma il DVR è lo strumento attraverso il quale il Datore di Lavoro esercita il suo “governo” aziendale, dal punto di vista della sicurezza sul lavoro; questo documento non è firmato dai lavoratori, ma solo dai loro rappresentanti, per presa visione; gli stessi non partecipano al processo di valutazione del rischio, ma sono solo

“consultati”. Ora se si tiene presente che la “consultazione” non è un processo di condivisione delle scelte, ma un processo attraverso il quale chi consulta assume le sue decisioni avvalendosi dell’esperienza e delle conoscenze dei soggetti coinvolti si capisce che il documento adottato è del Datore di Lavoro e non un documento oggettivo.

Non è un caso, ma in un Documento di VR sono quasi mai rispettate almeno le seguenti condizioni minime di validità metodologica:

riferimento a metodica normata;

esplicazione dei criteri di campionamento;

validazione da parte dei lavoratori interessati;

valutazione dell’incertezza statistica connessa all’errore di misura e alla variabilità spazio-temporale dell’esposizione; valutazione su serie temporali;

riferimento specifico nella valutazione all’attività svolta dall’assicurato;

Infine i cicli lavorativi reali descritti nei DVR non coincidono con quelli teorici, che con grande frequenza sono presi a riferimento. Spesso le esposizioni più significative avvengono per esposizione indiretta o per interventi occasionali e non prevedibili con picchi espositivi, che possono avere un impatto rilevante nell’eziopatogenesi delle malattie professionali.

Qualche considerazione anche sull’utilizzo dei Valori Limite Accettabili (TLV). Una doverosa premessa riguarda il fatto che questi hanno solo valore igienistico e preventivo, ma non possono rappresentare un elemento dirimente sulla possibilità che i valori di esposizione professionale possono determinare l’insorgere di una malattia professionale, così come sostenuto anche dalla letteratura scientifica specializzata e dalla giurisprudenza già a partire dai primi anni 90, in particolare per l’ipoacusia (sentenza Quaini del 1992).

Altra considerazione sui TLV (valori limite accettabili) riguarda il limite rappresentato dalla loro capacità di protezione della maggior parte della popolazione, ma non la totalità. Infatti la letteratura scientifica ha potuto dimostrare che rimangono sempre esclusi i più “deboli”, i più suscettibili che per costituzione o per patologie acquisite, ma anche coloro che sono esposti a più noxae patogene e che possono essere concorrenti sull’insorgere della malattia (es. rumore e solventi). Se così non fosse non sarebbe giustificato l’obbligo di controlli sanitari anche in situazioni che risultano al di sotto dei valori limite accettabili TLV.

Altra considerazione sui TLV (valori limite accettabili) riguarda il limite rappresentato dalla loro capacità di protezione della maggior parte della popolazione, ma non la totalità. Infatti la letteratura scientifica ha potuto dimostrare che rimangono sempre esclusi i più “deboli”, i più suscettibili che per costituzione o per patologie acquisite, ma anche coloro che sono esposti a più noxae patogene e che possono essere concorrenti sull’insorgere della malattia (es. rumore e solventi). Se così non fosse non sarebbe giustificato l’obbligo di controlli sanitari anche in situazioni che risultano al di sotto dei valori limite accettabili TLV.