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Questo breve racconto di dieci pagine scarse che Fatou Diome ha scritto agli albori della sua carriera è senz’altro tra le prove letterarie della scrittrice senegalese che hanno avuto meno impatto sul suo pubblico ancora estasiato da Le ventre de l’Atlantique, romanzo intimo e tagliente sulle numerose implicazioni sociali e interiori dell’immigrazione. Il suo successo è

13 Abdourahman A. WABERI, « Organic metaphore in two novels by Nuruddin Farah », World Literature Today,

vol. 72, n°4, autumn 1998.

14 Derek WRIGHT, « Going to Meet the General : Deeriye’s Death in Nuruddin Farah’s Close Sesame », The Journal of Commonwealth Literature, vol. 29, n° 23, 1994, p. 29.

ancora oggi legato a quel romanzo sebbene Fatou Diome sia prolifica scrittrice di talento che da allora ha dato alla luce i romanzi Kétala (2006), Inassouvies, nos vies (2008), Celles qui

attendent (2010) e i racconti Le vieil homme sur la barque (2010) e Mauve (2010)15.

Nella maggior parte delle bibliografie su Fatou Diome questo racconto non è neppure menzionato, il che, per un certo verso, ci incoraggia a parlarne, non tanto per la sua relativa qualità – che non rende forse omaggio al reale valore della sua scrittura – quanto per la peculiarità di Toutina, la protagonista di « Ports de folie »16. In primissima analisi, la giovane Toutina, cittadina qualunque di un centro urbano occidentale, sembra essere figlia della generazione alla quale Fatou Diome appartiene. Conduce la sua vita solitaria in un moderno appartamento cittadino ; vive nell’anonimato e nella totale mancanza di scambio con la gente de quartiere, come spesso lamentato dagli scrittori africani che giunti in Europa si confrontano con la desolazione della moltitudine urbana. Fatou Diome fa parte di questi, trasferitasi a metà degli anni ’90 a Strasburgo da una piccolissima isola del Sine-Saloum in Senegal. E come gli altri « enfants de la postcolonie »17 – A. A. Waberi forgia l’espressione rimasta celebre per designare l’ultima generazione di scrittori “afro-qualcosa” – essa rivendica la fondamentale autonomia di scrittura svincolata dall’impegno politico che caratterizzava la generazione di Ouloguem, Kourouma, Monénembo, sul versante anglofono Armah, Ngugi Wa Thiong’o, Soyinka, e molti altri tra i quali Mongo Beti e Boris Diop che vedremo a breve.

Lo scenario di « Ports de folie » riporta indubbiamente al mondo postcoloniale contemporaneo in cui la presentazione degli stessi protagonisti raramente risponde ai parametri di nazionalità. Anzi, la loro identità è spesso imprecisata poiché non determinante ; è il caso dell’eroina di questo racconto. Lo stesso nome Toutina – nome atipico – non vuole ricondurre all’Africa ; esso cela piuttosto un significato simbolico giacché touti in wolof significa piccola. La protagonista si chiamerebbe “piccolina” ribadendo la tendenza della scrittrice a suggerire un mondo parallelo che soggiace a quello rappresentato. L’evocazione del rimpicciolimento e del rannicchiamento, piuttosto costanti nella scrittura di Fatou Diome, invitano a soffermarsi sui dettagli delle immagini e sulle scelte linguistiche tramite cui

15 La raccolta di racconti La Préférence nationale e il racconto Les loups de l’Atlantique, magnifico preambolo a Le ventre de l’Atlantique, sono rispettivamente del 2001 e del 2002 (la prima apparizione è del 2001 in Revue Brèves). Meno noto è il racconto L’eau multiple apparso nel 2000 nella Revue Présence Africaine. Fatou Diome

è anche autrice di poesie : “Le tableau invisible”, “Chant d’hiver”, “Sillages” compaiono nella Revue Alsacienne

de littérature.

16 A nostra conoscenza non esistono studi sulla scrittrice che facciano riferimento a questo racconto, né tanto

meno esistono studi specifici su « Ports de folie ».

17 Abdourahman A. WABERI, "Les enfants de la postcolonie. Esquisse d'un nouvelle génération d'écrivains

scorgere l’immaginario della scrittrice che, come nei suoi altri romanzi, guarda alle pieghe dell’intimità umana.

L’autonomia rivendicata dagli scrittori di questa generazione non esclude però la possibilità di una lettura dialogica con i testi già visti, dal momento che la tematica che studiamo non è estranea ad alcuna epoca né tantomeno è circoscritta a spazi culturali. In effetti, il racconto si apre con una descrizione fisica della presunta folle, secondo uno schema “classico” – sulla nostra linea tipologica – volto a disseminare sospetti sulla persona che presenta stranezze. L’eccentricità di Toutina, soprannominata dalla gente del quartiere “la folle”, è di vivere la quotidianità secondo ritmi e modalità che non combaciano con quelli della società : in piena estate gira per la città vestita di « une capuche grise, un châle rouge, des gants de laine, des chaussettes aux mailles bien serrées, des bottes en cuir, un gros pull polaire, un pantalon tergal à peine visible sous l’énorme manteau de fourrure »18 ; sotto la neve e il freddo invernale essa è « en tenue tropicale, elle pataugeait dans la neige boueuse chaussée de simples claquettes » e « les fesses projetées en arrière [elle] mim[ait] l’allure des femmes cambre que l’on pouvait rencontrer dans les rues de Kinshasa. » (p. 8)

La sua amica Constantine – nome che omaggia la perseveranza nell’amicizia – osserva discretamente le sue stramberie, il suo internamento momentaneo e la sua ricaduta nella follia, trascinandoci nell’intimità del suo appartamento : la sagoma di un uomo-“baroudeur”, « globe-trotter » (p. 10) e avventuriero, in senso erotico più che geografico, è all’origine delle metamorfosi di Toutina, metamorfosi che non sono altro che viaggi visionari attraverso i quali tenere il suo uomo claustrofobico legato a lei. La fatidica cartolina che tiene in pugno come emblema del girovagare dell’amante assente, è specchio del nuovo scenario da allestire su di sé e intorno a sé : la casa, quasi fosse un set cinematografico, si decora, di volta in volta, di maschere africane, tende berbere, dipinti dagli sfondi glaciali, scodelle di minestre bollenti e così via. E il monologo poetico la dice lunga sulla genesi dell’ossessione di Toutina di creare ricordi fittizi, degni dei più insulsi oggetti-souvenirs, che mirano a riempire, a tutti i costi, il vuoto lasciato dalla persona amata :

« Parce que le monde t’appelle, mon cœur restera joyeux de ta douloureuse absence. Sur les chemins tortueux, toutes les plantes vertes te diront ma présence. Dans la blancheur laiteuse de ton sillage, les bulles d’écume te rappelleront les perles sur mes

18 Fatou DIOME, « Ports de folie », Revue Brèves: actualité de la nouvelle, nº 66, septembre 2002, p. 4. I numeri

joues. Au sommet des montagnes pudiques, les rochers se voileront de neige pour ne pas te laisser voir leurs crevasses remplies d’absence. Lorsque les vallées, gonflées du bonheur de ton passage, te feront admirer toutes leurs courbes, lorsque dans le désert ou sur la mer tu oublieras jusqu’au bout de ton voyage, mon ombre surgira de tes pas pour te raconter les deux saisons de ma vie, ton absence et ta présence. » (p. 11)

L’attimo che separa le due stagioni della presenza e dell’assenza è quello che si incrocia con il resto del mondo ; come dice la voce di una vicina : « dès que son homme rentre de voyage, elle redevient normale » (p. 9), mentre quando l’uomo non c’è, Toutina prende le sembianze delle località da lui visitate, incarnando tutti gli spazi, i climi e le atmosfere – dalla Groenlandia, alle Antille, al Marocco, al Congo Kinshasa, all’Etiopia – indipendentemente dal tempo cronologico che scorre e dalle stagioni che si susseguono. Il tempo climatico prende la forma della città che è nel cuore. I numerosi viaggi mondani dell’uomo dei sogni alimentano altrettanti viaggi visionari nei sogni di Toutina, invertendo così la dinamica dell’erranza vista finora. In altri termini, il viaggio che è stato filo conduttore dei movimenti pellegrini nel capitolo precedente perde la sua qualità di quête, in sé e per sé, e diventa oggetto che genera la quête, spostando l’epicentro dal “movimento per estensione” al “movimento in intensità” e, in altra misura, in profondità. Il capitolo terzo della parte successiva ci permetterà di comprendere come questo movimento segua la logica della “ragione del cuore” – diversa, se non rovesciata, rispetto alla ragione cartesiana – e mimi un’erranza oscillante che, al ritmo della navigazione, suggerisce le profondità acquatiche.

Sebbene fosse già chiaro dalla citazione nietzschiana in epigrafe, «Nous avons l’art, afin de ne pas mourir de la vérité19 » (p. 4), la chiave di lettura della follia di Toutina è esplicitata nel testo e risponde all’eccesso di creatività come soluzione all’oppressione che la razionalità esercita sulla realtà da essa appiattita. Così la soluzione per la protagonista è di andare controtendenza rispetto al suo circondario che segue banalmente la « route de l’évidence » (p. 10) entrando nel controsenso e dunque nella follia. Ciò avviene nella misura in cui l’aporia che ne scaturisce non tiene conto della « ligne invisible qu’elle suivait » (Ibid.) nei meandri della realtà ricreata dalla sua immaginazione. Riconoscere la legittimità di quella « ligne invisible » ci consentirà, nel luogo opportuno, di varcarla e così di accedere allo spazio

19 La citazione di Nietzsche è tratta da La volontà di potenza. Saggio di una trasvalutazione di tutti i valori (Der Wille zur Macht, 1901).

che si trova al di là dell’orizzonte nel quale Toutina ha costruito un mondo solido e una logica infallibile.

In questo condensato narrativo Fatou Diome perlustra le zone inesplorate dell’inconscio e della creatività individuale non in linea con i gusti frenetici e standardizzati di alcune tendenze moderne ; ma in questo conferma la sua rivendicazione di autonomia letteraria che la àncora tanto al mondo africano da cui proviene tanto al “mondo postcoloniale” sul quale lancia un nuovo sguardo allargando enormemente le frontiere geografiche e quelle interiori. È proprio su questi due versanti che Fatou Diome continua a trarre linfa penetrando, fino all’ultimo romanzo, Celles qui attendent, le pieghe dolorose dell’emigrazione nello spazio franco-senegalese e, allo stesso tempo, esplorando una nuova grammatica dell’immaginario “euro-africano” a favore di una letteratura della riflessione “intima”.

3. Follia in germe e folli erranti in Boubacar Boris Diop : N’Dongo in Le

Temps de Tamango, Khadidja in Le Cavalier et son ombre, Ali Kaboye in Les Petits de la guenon

Se esiste uno scrittore che ha spinto la manipolazione del tema della follia oltre i limiti degli schemi comunemente noti, quello è Boubacar Boris Diop. La sovversione è il suo strumento di indagine e di conoscenza ; la parodia è sottile e spesse volte è semi-seria20 ; e la sua capacità di provocazione, nel linguaggio elaborato dell’immaginario mitico e moderno, ci convoca brutalmente lasciandoci spesso disarmati di fronte ai dibattiti più caldi dello scenario africano contemporaneo. L’opera di Boris Diop non può quindi sfuggire all’engagement nel senso di Sartre, che peraltro ammirava – il nome “Boris” la dice lunga sull’influenza del

20 Jean SOB propone di leggere l’opera narrativa di Boubacar Boris DIOP in chiave parodica, rammentando della

parodia la definizione etimologica di “canto parallelo a” (“para”, accanto, “odia”, canto) e insistendo sulle sfumature semantiche – alcuni come Margaret Rose ne sottolineano l’effetto comico, altri come Gérard Genette non ne escludono il tono serio – che rimandano sempre alla pratica della contestazione e della deformazione del racconto o di parte del suo funzionamento. Cfr. Jean SOB, L’impératif romanesque de Boubacar Boris Diop, Ivry-sur-Seine, A3, 2007, pp. 12-14.

personaggio sartriano, Boris Serguine in Chemins de la liberté21 –, e l’evoluzione dello

scrittore senegalese restituisce i segni di una forte presa di coscienza sull’impegno dell’intellettuale contemporaneo in Africa.

Accanto all’impegno letterario, tramite cui lo scrittore non distoglie mai lo sguardo dallo scenario sociale e politico, i suoi « textes engagés »22 sono significativi di un rinnovamento artistico e letterario del romanzo che si distingue dal romanzo realistico e dal romanzo di formazione dell’epoca precedente. Se “i classici” africani – da quelli di Birago Diop a Amadou Hampaté Bâ, da Chinua Achebe a Soyinka, da Bernard Dadié a Ferdinand Oyono – si prestavano alla lettura “etnologica”, provocando una certa irritazione in buona parte della critica e degli africanisti amanti delle opere letterarie, il romanzo di fine anni ’70- inizio anni ’80 se ne distingue proprio nella volontà di elaborare un discorso autonomo. Il trionfo del romanzo in questa forma nuova stava a dimostrare non soltanto che è possibile e doveroso combattere la lettura documentaristica del testo pensato come ‘pezzo culturale’ per evincerne la qualità letteraria, ma anche – e soprattutto – che il continuo confronto con il modello del romanzo occidentale era un metodo ormai obsoleto se non pericoloso. La questione di fondo che soggiace a queste nuove pratiche letterarie è apparsa molto più complessa di quanto sembrasse a prima vista : gli africani di questa generazione si sono affermati con un discorso autonomo grazie al quale introiettano la propria Storia (precoloniale e coloniale) per costruire la storia presente del proprio paese e continente, tanto a livello culturale (e linguistico) tanto a livello letterario. Boubacar Boris Diop e Mongo Beti fanno di questa questione il loro principale cavallo di battaglia superando, in certa misura, la sfida rivoluzionaria iniziata da Yambo Ouloguem con Le devoir de violence (1968), e quella degli anticonformismi segnati dalle innovazioni linguistiche di Ahmadou Kourouma e di Sony Labou Tansi, inventore di neologismi.

Tralasciamo per ora la complessa struttura dei romanzi che meglio mostra il ruolo d’avanguardia di Boris Diop. Sul piano dei temi, l’indagine e la ricerca scientifica della verità è il motore di ognuno dei sette romanzi finora al suo attivo. Da Le Temps de Tamango a

Kaavena e Les Petits de la guenon23, la scrittura come mezzo di conoscenza e la parola pronunciata, scritta e orale, sono problematizzate come strumenti imprescindibili per la

21 Vedi Liana NISSIM, « Aller au cœur du réel. Entretien », Interculturel francophonies, n° 18, 2010, p. 26. 22 Jean SOB, op.cit., p. 141.

23 Se si considera la sua ultima pubblicazione Les Petits de la guenon (2009) come la versione francese di Doomi Golo (2003), tradotta dallo stesso scrittore, l’ultimo romanzo che Boris Diop ha scritto è Kaveena (2006). Dei

ricerca di verità e l’esplorazione delle questioni fondamentali dell’uomo africano nella realtà postcoloniale. Per dirla come Jean Sob, attraverso l’atto dell’enunciazione dei protagonisti di Boris Diop si inscena « l’archéologie de l’historicité africaine »24 dove il presente altro non è che sedimentazione del passato, senza il quale non è possibile comprenderne le implicazioni profonde. La tendenza “archeologica”25 dello sguardo nella profondità delle immagini domina certamente le opere del presente capitolo, ma nell’analisi delle opere di Boris Diop va presa alla lettera ; è, tra le altre cose, ciò che fa spiccare lo scrittore senegalese nel panorama della letteratura contemporanea africana. Tutti i protagonisti di Boris Diop, anche nei romanzi che abbiamo deciso di non trattare26, si sforzano di penetrare le zone d’ombra della Storia – dei singoli e dei popoli – attraverso la pratica della scrittura come forma di anamnesi. Dei tre27 romanzi in esame, lo scrittore N’Dongo in Le Temps de Tamango è impegnato in numerosi progetti di scrittura, nessuno di fatto portato a termine. Nel quarto romanzo Le Cavalier et son

ombre, tra i più fantastici di Boris Diop, la protagonista Khadidja si improvvisa “conteuse de

fortune” la quale, per sfuggire alla miseria della “banlieue dakaroise”, accetta un impiego alquanto insolito : raccontare favole ad un’entità invisibile e misteriosa, primo abitante di un’enorme reggia, ma soprattutto ombra. Infine, ne Les Petits de la guenon l’anziano Nguirane Faye, poco più che alfabetizzato, scrive dei Carnets al nipote Badou di cui si sono perdute le tracce dal momento della sua partenza per l’occidente. Anche lui, a suo modo, confida alla scrittura – per lui strumento di fortuna – la storia dei suoi avi, quella del quartiere Niarela ed altre storie più o meno fantasiose (ci si chiede però quanto siano inventate !) in un susseguirsi di “quaderni di viaggio”, nel tempo e nello spazio.

sette, gli altri quattro romanzi sono : Le Temps de Tamango (1981), Les Tambours de la mémoire (1991), Les

traces de la meute (1993), Le Cavalier et son ombre (1997) e Murambi le livre des ossements (2000).

24 Jean SOB, « Fiction et savoir dans l’œuvre romanesque de Boubacar Boris Diop » in L’Afrique au miroir des littératures. Mélanges offerts à V.Y. Mudimbe, Paris, L’Harmattan, 2003, p. 432.

25 Anche Papa Gueye definisce il procedimento di costruzione dell’opera di Boris Diop come un « travail

archéologique de recomposition ». Vedi Papa GUEYE, « L’histoire comme fiction et la fiction comme histoire : récit contestataire et conte station du récit dans les romans de Boubacar Boris Diop » in Nouvelles écritures

francophones : vers un nouveau baroque ?, Presses Universitaires de Montréal, 2001, p. 246.

26 La coppia Ndella e Ismaïla in Les Tambours de la mémoire si impegna in un progetto letterario al fine di

ricostruire la storia del defunto amico, a sua volta coinvolto in una ricerca sulle tracce di una regina leggendaria. Ne Les traces de la meute il giornalista Mansour Tall fornisce informazioni alla narratrice Raki, nipote di un uomo colpevole di aver ucciso un innocente, che tenta di ricostruire la verità intorno alla figura del nonno. In

Murambi le livre des ossements, scritto nel quadro del progetto “Rwanda : écrire par devoir de mémoire”

promosso da Fest’Africa di Lille, il narratore Cornelius ripercorre la storia della sua famiglia in Ruanda accanto a quella dello sterminio dei Tutsi. In Kaveena il motore narrativo consiste nell’indagine sulle ragioni che sottendono la fuga del presidente da parte del colonnello Kroma.

27 La scelta limitata a Le Temps de Tamango, Le Cavalier et son ombre e Les Petits de la guenon è emblematica

di un’evoluzione nella scrittura di Boubacar Boris DIOP della tematica di nostro interesse. I tre romanzi citati toccano dei momenti salienti di questa evoluzione, dove la follia ha sempre uno spazio di riguardo in relazione alla creatività letteraria.

La ricerca che passa per la scrittura di questi narratori-storici, scrittori in erba, artisti alle prime armi, ricercatori di fortuna (il cui punto di vista è quindi necessariamente relativo, personale e non assoluto) ripudia l’egemonia della ragione come unica via possibile per accedere alla conoscenza. Ciò giustifica forse il motivo per il quale nessuno dei sette romanzi sfugge, almeno con un riferimento fugace, alla ‘tentazione della follia’ come forma di conoscenza. Le coppie ragione-follia, follia-fantasia o immaginazione, follia-creatività sono per Boris Diop molto più che capricci in margine alle opere28. Il paradigma dell’immaginazione come varco alla follia o quello della follia come strumento dell’immaginazione sono anzi le più fertili chiavi di lettura di questi romanzi indiscutibilmente complessi. In questa prospettiva, le diverse forme di follia in Boris Diop sono tante declinazioni di scrittura impegnata quante sono le implicazioni critiche che analizzeremo nella fase finale di questo studio. Limitiamoci per ora a cingerle.

Ali Kaboye è “folle errante” sulla carta – ovvero presentato tale nel testo –, distinguendosi dai suoi compagni vagabondi precedentemente studiati per l’incarico ufficiale di “erede alla narrazione”. N’Dongo e Khadidja se ne distinguono invece per via della latenza del loro disequilibrio interiore che finisce poi per emergere. Tutti loro – ed è questa una costante in Boris Diop – vivono all’incrocio del registro realistico, che determina la scena principale in cui si svolge la vicenda, e di quello mitico e fantastico ; o meglio, vivono la loro follia latente in un potente stato di bilico che prima o poi li riverserà al di qua o al di là. I personaggi di Boris Diop finiscono coinvolti in giri di valzer con la follia tramite cui reinventare l’immaginario collettivo ; abbandonando così la quête che nel capitolo precedente si sviluppava nelle diverse declinazioni del viaggio.

N’Dongo presenta a prima vista tutte le caratteristiche dello scrittore frustrato che le diverse voci narranti ritraggono nella sua ossessione del libro da farsi. Di cose da dire per scrivere un romanzo ne avrebbe, ma « situations et personnages lui échappent et se fondent dans un poème auquel il arrive rarement à N’Dongo de comprendre quelque chose. »29 E nella sua incapacità di cogliere il giusto frammento del mondo per farne l’opera d’arte « il se contente de passer son chemin dans la vie, jetant un regard distrait et méprisant sur ses

28 Daniela MAURI nota giustamente che le opposizioni ragione e follia, follia e fantasia rimandano sempre in

Boubacar Boris DIOP, seppure in modo più o meno esplicito, al legame tra follia e creatività. Vedi Daniela