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Monénembo – pseudonimo di Tierno Saïdou Diallo che significa “figlio di madre” 72 – ha costruito la sua scrittura intorno alla figura dell’esiliato e alle diverse forme di esilio di cui è egli stesso protagonista già all’età di 22 anni per fuggire al regime di Sékou Touré. Dopo i soggiorni a Dakar e Abidjan – rifugio di molti universitari – inizia nel 1973 l’esilio europeo – prima in Belgio poi in Francia – per sottrarsi all’estradizione che pende su di lui in Guinea. Il dolore della distanza alimenta il suo esilio interiore il quale genera una spinta cinetica di Monénembo, l’uomo e l’intellettuale, alla ricerca di una condizione vivibile. Peraltro ricordiamo che egli discende dai nomadi peuls – ha consacrato a loro un progetto articolato sfociato, per ora, nel romanzo Peuls (2004) – i quali, in secoli di storia, hanno costruito quella che Sélom Konlan Gbanou chiama « la polyvalece identitaire »73. In effetti, tutti i suoi romanzi che Romuald Fonkoua74 definisce del ciclo guineano – Les Crapauds-brousse (1979), Les Ecailles du ciel (1986), Un rêve utile (1991), Un attiéké pour Elgass (1993) – cui aggiunge : Cinéma (1997), Conakry, une ville fantôme (2001), Peuls (2004) e Le roi de Kahel (2008) – celebrano l’esilio come discorso fondante.

71 Cfr. Eustace PALMER, op. cit., p. 158.

72 Lo pseudonimo nasce dalla mescolanza della lingua peul con i suoni dell’infanzia. Monénembo è una parola

parzialmente onomatopeica nella misura in cui il monosillabo “Mbo” riproduce un suono del linguaggio infantile ; “Néné” significa “mamma” in peul. Monénembo sta quindi per “figlio di mamma”, riferendosi però alla nonna paterna la quale lo ha cresciuto dopo il divorzio dei genitori quando era poco più che infante. Vedi Christiane ALBERT, Francophonie et identités culturelles, Paris, Karthala, 1999, pp. 321-322, cit. da Sélom Konlan GBANOU, « Tieno Monénembo : la lettre et l’exile », Tangence, n° 7, hiver 2003, p. 45.

73 Ibid.

74 Romuald FONKOUA, « Tierno Monénembo ou “la mélancolie du voyeur” : éléments pour un discours littéraire

Les Crapauds-brousse75, il suo primo romanzo nato dall’accumulo di annotazioni durante l’esilio a Bruxelles, ha uno sfondo chiaramente autobiografico che ripropone fedelmente il clima guineano sotto la dittatura di Sékou Touré. Come Tierno Monénembo, il protagonista è un giovane intellettuale – dottore in biochimica il primo, ingegnere il secondo – formatosi in Europa – in Francia a Lyon il primo, in Ungheria a Budapest il secondo. E come gli intellettuali africani dopo le indipendenze, il protagonista Diouldé è incapace di realizzare in concreto la lotta contro il potere dispotico. La presenza di questa tematica, ricorda Chevrier76, è sufficiente per inserire Les Crapauds-brousse nel novero dei romanzi della disillusione, insieme ai capolavori di un Kourouma o di un Sassine, dove la corruzione e la repressione dei regimi sono dipinti accanto alla mollezza della nuova borghesia africana.

Il protagonista tornato in patria dall’Ungheria, si trova catapultato nell’alta amministrazione del Ministero degli Esteri. Disinteressato al proprio impiego amministrativo, che svolge malvolentieri, e passivamente partecipe delle feste dell’élite africana, Diouldé indossa i panni dell’antieroe complessato e impotente che ricorda molto da vicino l’uomo anonimo dipinto in The Beautiful ones, onesto ma lasso ; rammenta anche l’annoiato Dadou ne L’Anté-peuple di Sony Labou Tansi per la sua indecisione che gli vale lo sprofondamento nella tragedia. I protagonisti appena menzionati hanno in comune l’appartenenza alla nuova classe alto-borghese e lo status di “uomini medi” in balia di un sistema perverso in grado di trasformarli in emarginati. Al loro ruolo, poi, fa sempre da contrappunto una figura di folle che interviene, in vario modo, per proporre una via di fuga. Se in Armah il folle è difficile da circoscrivere per via delle sue numerose manifestazioni, e, in Sony Labou Tansi quello del folle è uno status che accerta la salvezza, qui assume la sua veste più tradizionale di guardiano della città e di paladino della fragilità umana.

Il folle nei Crapauds-brousse è a tutti gli effetti, una figura di esiliato. Come abbiamo visto nelle rappresentazioni fatte dagli scrittori nel ventennio precedente, Cheikh Hamidou Kane ne L’Aventure Ambiguë, Ousmane Sembène in Véhi-Ciosane, Birago Diop in “Sarzan”, il folle è sempre un reietto sensibile alle minime trasformazioni sociali e che tiene viva la linfa del popolo. In un certo senso, possiamo vedere in Monénembo una sorta di continuatore del filone francofono relativo alla rappresentazione convenzionale del folle. In Les Crapauds-

75 Tierno MONENEMBO, Les Crapauds-brousse, Paris, Seuil, 1979. I numeri di pagina saranno segnalati nel corpo

del testo.

76 Jacques CHEVRIER, Les Crapauds-brousse de Tierno Monénembo (note de lecture), Notre librairie, n°88-89,

brousse, egli fa la sua comparsa non prima del capitolo 5 per poi scomparire di nuovo e

riapparire nella lunga sequenza che chiude il romanzo. Vedremo che le sue comparse frazionate non sono casuali. Inoltre, a differenza dei matti anglofoni come il bevitore di vino di palma di Tutuola, il saggio viaggiatore di Okara, e l’uomo anonimo di Armah, tutti giudicati dei disadattati senza che presentino chiari segni di demenza, il folle senza nome in

Les Crapauds-brousse appare come una « épave humaine » (p. 79) che piomba nella vita del

quartiere determinandone i ritmi.

Neanche di questo nuovo folle francofono si sa nulla. Divenuto parte dello sfondo, irremovibile « monument du quartier », la sua presenza non dà noia a nessuno. Viene narrato che il folle si era definitivamente impadronito di quello spazio urbano controllandone i transiti come facevano Tanor a Santhiu-Niaye, Kéita a Dougouba e il “fou” dell’Aventure Ambiguë tra i Diallobé, tutti “tirailleurs” reclutati nell’Africa dell’ovest. In effetti, anche questo folle aveva « occupé la rue », dove “la rue” è un sentiero poco più largo degli altri. E l’aveva occupata « comme une armée » (p. 79), apparendo ai primi bagliori del mattino, alla maniera di Tanor, « les mains nouées sur le dos, se promen[ant] à grandes enjambées, narguant la paresse de ceux qui ne s’étaient pas encore levés de leur lit : “Celui qui ne se lève pas maintenant ne se lèvera plus jamais” » (pp. 79-80) E ancora: « J’avertis que je n’irai pas au cimetière. N’êtes vous pas fatigués de mourir, petites gens ? » (p. 80). Il suo inserimento nel quartiere guineano, di cui non si esplicita l’ubicazione, appare chiaro ; e il suo monito verso i concittadini a “tenere alta la guardia” ottiene rilevanza. In effetti, la gente del quartiere è descritta come un grande corpo appesantito dall’incuria, « les pas nonchalants, les rires secs, les pleurs sourds ». (p. 80) Prendendosi carico di quelle “petites gens” che deve tenere in riga, giovani o anziani che siano, « il continuait sa marche en vrai général inspectant ses troupes. » (p. 80) E ciò che colpisce maggiormente è la sua aggressività nell’assicurarsi che le porte di tutte le case rimangano aperte.

Presenza tutt’altro che discreta, il folle in Les Crapauds-brousse è dichiaratamente, sin dalla sua prima comparsa, un perno della vicenda, nella misura in cui il suo passaggio non può rimanere inosservato. Monénembo rende manifesto il rapporto serrato che esiste tra il folle e la folla, tra il singolo deviato e la massa conforme : la rivolta dell’uno esiste perché è profonda la debolezza dell’altra ; e la folla non lo flagella, ma lo cura e lo nutre provando per lui pietà e disgusto, ma in fondo una sorta di riconoscenza di cui non si riesce a spiegare la ragione. Rognoso come un cane errante, dolorante per via delle piaghe che lo vedono abbandonato al suolo, riceve le cure dalla vecchia guaritrice che accoglie il reietto come Tuere

in The Voice aveva accolto l’escluso del villaggio. Anche la gente comune collabora al suo sostentamento, ma il folle seleziona accuratamente le proprie vettovaglie.

Sul folle di Monénembo pesa il carico di sentimenti che i guineani nutrono segretamente, cui si oppone l’élite di amici dipinta da Monénembo come l’emblema dell’inadeguatezza della classe intellettuale nel reagire alla repressione politica di Sékou Touré che bandiva la libertà individuale e la libera aggregazione.77 Si capisce così l’ « étrange complicité » che Monénembo individua « entre lui [il folle] et le quartier. Un quartier qui semblait lui avoir dit : “ Donne-nous un peu de ta folie, répands-la sur nous. Nous te donnerons en échange quelques grains de notre misère, quelque goutte de notre pauvreté.”» (p. 85).

Al groviglio di sensazioni corrisponde la moltiplicazione delle opinioni che circolano nel quartiere sulla sua provenienza misteriosa : c’è chi dice che la sua superbia derivi dalla sua nobile origine ; secondo alcune congetture egli sarebbe un re impazzito per aver perso il suo regno ; per altri sarebbe la vittima di un fratellastro invidioso che gli avrebbe sottratto il suo possedimento. Ma la versione più accreditata vuole che lui sia un marabut, un santo, versione confermata dalla sua perfetta conoscenza delle Sacre Scritture :

« C’est vrai : le fou connaissait les Ecritures. Le soir, quand il avait fini son repas, il reprenait son chapelet, remettait son bonnet et chantait de longs psaumes. » (p. 84)

Il narratore ci dice che i suoi canti e le sue parole sono in grado di infondere nel quartiere una serenità quasi soprannaturale, cosa rara in un clima di repressione ; ma se può sembrare santo, è al “santo folle” che dev’essere accostato quando commette atti osceni in pubblico. La sua nudità perversamente esibita è un segno del suo stato ambiguo – Dermenghem lo attribuisce al majdzoûb – che fa di lui un « jouet passif de l’attraction divine »78. Lo status di “folle” si completa con l’attribuzione dell’aggettivo “errante” per via di quel mancato itinerario prevedibile rispondente alle domande “da dove vieni ?, dove vai ?”, sostituito invece dal movimento che per definizione non si cruccia della storia.79 Ne Les

77 Sékou Touré era storicamente noto per vivere nel terrore dei complotti che si tramavano contro di lui, che

provenissero dall’esterno, in particolare dal mondo occidentale ex-coloniale, o dagli autoctoni.

78 Émile DERMENGHEM, Vies des saints musulmans, Paris, Édition Actes Sud, coll. Sindbad, 2005, p. 236.

Crapauds-brousse il folle girovaga per il quartiere con lo scopo di controllarlo e di regolarne i

ritmi. Egli gioca ad incarnare l’autorità. Al quartiere si confina il suo micro-regno. In questo gioco sostituisce il presidente, ma vediamo quanto questo gioco si fa serio quando il presidente Sâ Matrak esercita per davvero il proprio potere su tutti i cittadini.

Gli eventi precipitano rapidamente verso la tragedia. Il protagonista si trova coinvolto in un omicidio e in quanto testimone oculare deve essere “reso innocuo”. A macchina di compotti è innescata : la radio di controllo statale inizia a diffondere notizie della cospirazione di alcuni contro il presidente ; gli arresti si susseguono arbitrariamente, la città inizia a ribollire nelle viscere. E inizia una nuova fase in cui la moglie di Diouldé appare affiancata dal folle, in segno di un nuovo cammino che vedremo capeggiato dal folle :

« Un gouffre s’ouvrit à ses pieds. Elle se prit la tête et s’affala sur la chaussée, sous les pieds du fou qui s’apprêtait à gagner le fossé. » (p. 117)

Questo breve periodo suggerisce numerose osservazioni. I due destini iniziano ad incrociarsi, l’una abbandonando i propri passi nel viale, l’altro calandosi nel fossato. “La chaussée” e “le fossé” sono gli spazi che per eccellenza alludono al movimento principe celebrato dall’autore : l’erranza e lo sprofondamento nel tragico, dove la prima genera il secondo pur essendo stata generata da esso. Ovvero, la poetica di Monénembo ruota intorno alla sofferenza dell’esilio – condizione autobiografica – conseguente all’allontanamento forzato dalla terra natale e causa di nuova sofferenza interiore che accomuna tutti gli esiliati. Lo scrittore guineano celebra l’esilio nel suo movimento ciclico, dove lo spostamento, lo sradicamento e la sofferenza in patria e fuori di essa sono tante tappe che si ripetono senza mai alleviare il dolore della mancanza. Il « caractère morbide »80 che Romuald Fonkoua riconosce al movimento nei romanzi di Tierno Monénembo dentro e fuori dell’Africa, riconduce all’aspetto deteriore del viaggio. Lungi da essere un viaggio dal carattere fondante dell’iniziazione, il peregrinare in Monénembo, continua Fonkoua, è un’agonica deriva che porta alla decadenza umana tramite l’« anéantissement progressif et certain »81 della Guinea, ma anche più generalmente dell’Africa. Il declino in cui precipitano i personaggi è presagito

80 Romuald FONKOUA,op. cit., p. 12. 81 Ivi, p. 13.

dal clima infernale che non possono non riportare alla nostra memoria la città di Sologa descritta da Okara e il Ghana imputridito di Armah.

L’inabissamento nel “gouffre” che Râhi avverte, è anticipato dalla confusione di voci e ombre che aleggiano in questa città fantasmatica. L’insistenza sulla descrizione a volte della “gente” del popolo a volte della “folla”, a cui Monénembo conferisce significato diverso82, ritma il crescendo della tensione infernale che esplode con la fuga di alcuni esponenti a rischio. La “folla” è, come nota Xavier Garnier, un’unità astratta dai confini poco definiti dotata della capacità di esercitare una forte pressione sugli individui e sugli eventi. A differenza della “gente”, che compone l’anima del popolo, la folla si confonde con la morfologia oscura della città e dei bassi fondi. Così, se l’immagine del popolo spaventato dalle notizie diffuse alla radio è fornita dalle « gens (qui) marchaient dans les rues, la tête chaque jour plus basse, l’espoir court, le derrière maigre » (p. 116), ben presto è in gruppi che si organizza la gente come a creare macchie nere di stormi83 intenti ad accalappiarsi le ultime provviste in vista della penuria alimentare :

« Des groupes se formaient au coin d’une rue, au centre d’une place, qui se disloquaient en ombres passagères derrière un mur, dans une bicoque.

Les rumeurs circulaient, plus obscures et plus informes que les ombres qui les lançaient, saupoudrant à travers la ville le sel d’imagination que chacun y avait ajouté : “Tel est arrêté, tel autre le sera dès le soir. Le village s’est soulevé, telle province veut faire sécession…”

On se chuchotait les combines. Comment trouver un litre d’huile. Comment dénicher une pièce de tissu, quelques morceaux de sucre, des tablettes de savon. “Il reste un peu de riz chez Mamadou. Il vient de m’en vendre à l’instant. Vas-y vite avant que cela ne finisse et que le prix ne t’échappe. Et n’oublie pas que je ne t’ai rien dit. Si tu fais une gaffe, ce sera tant pis pour toi.”

Rien de nouveau pour Diouldé. La vie chez lui se résumait au boulot, aux repas et aux prières de Mère. » (p. 116)

La frase conclusiva del passo citato indica l’immobilità di Diouldé, ridotto a sorta di automa, in netto contrasto con i movimenti serpentini e inafferrabili della gente sparpagliata

82 Vedi Xavier GARNIER, « Poétique de la rumeur : l’exemple de Tierno Monénembo », Cahiers d’Études africaines, 140, XXXV-4, 1995, pp. 889-890.

83 Vedremo che la “macchia nera” è, non solo in Monénembo, una ricorrenza isotopica dell’immaginario

che non si è ancora aggregata nel corpo unico della folla. L’impietrimento di Diouldé è riscattato dalla moglie Râhi, la quale, invece, reagisce alle notizie della cattura di Soriba e prende coscienza dell’atmosfera infernale che sta imperversando nella città. Tornando alla citazione che segna un nuovo dinamismo del romanzo : « Un gouffre s’ouvrit à ses pieds (de Râhi) » e « le fou s’apprêtait à gagner le fossé. » (p. 117), notiamo quanta pregnanza abbiano i movimenti della gente nel definire lo spazio comune. Le voci degli uni si pronunciano sulle sorti degli altri, l’allerta di alcuni ricade sugli altri, fino a creare un sistema in cui è la struttura stessa della città a cedere lentamente cascando in pezzi :

« Et le riz et le sel et le sucre se raréfiaient encore plus… Et les rues se crevassaient… Et les murs se fendillaient… Et les clôtures se fissuraient… Et les pas s’alourdissaient… Et les voix baissaient… » (pp. 117-118)

La ripetizione insistente della congiunzione coordinata “et” e dei puntini di sospensione segna il processo cadenzato e lento della disintegrazione spaziale. In definitiva, la città in pezzi sta facendo emergere ciò che è rimasto occulto negli strati sottostanti la superficie. A tal proposito, la città in sotterranea ebollizione non può non vedere l’avvento di un personaggio oscuro e ambiguo quale il folle. Il labirinto, che caratterizza la scrittura di Monénembo e che Loubier identifica come la « malédiction de la condition urbaine »84, prende lentamente forma sotto gli occhi noncuranti del folle. L’effetto di strangolamento dell’« espace contraint »85 della polis sembra essere inevitabile quando è in gioco l’ideologia politica. Alla repressione politica non possono che corrispondere i « vagabonds » e gli « anomiques qui érigeraient l’errance en conduite protestataire »86. Ora, il volontario calarsi del folle verso il fossato e il risucchiamento della moglie di Diouldé verso le profondità oscure della città unisce i destini di chi sceglie di fissare il lato cupo della verità e di chi è vittima del sistema che nasconde trame segrete.

L’onnipresenza del folle che d’ora in poi aleggia sul romanzo prende rilievo proprio in quest’immagine. Il pericolo dell’abisso, che si apre ai piedi di Râhi, non corrisponde alla pacata discesa del folle nel fossato, abituato, questo, a vivere nelle parti infime del mondo. Il folle non ha alcun complesso nei confronti della discesa e dell’abisso ; egli aborre « les marches abruptes de l’escalier social » quanto l’indolenza dei cittadini « prosternés dans la

84 Pierre LOUBIER, op. cit., p. 13.

fosse de leur soumission commune » (p. 86) ; mentre il fossato è un varco verso la liberazione.

D’altra parte, la fossa, anticamera del labirinto, richiama il senso di claustrazione che si sviluppa in un sistema articolato al punto al punto da riconoscere, nella scrittura di Monénembo, un paradigma della prigione87. Il modello della prigionia è comunque sempre associato alla disintegrazione dell’uomo e alla morte. Come non vedere, anche qui, una eco della manipolazione letteraria della morte e dello smembramento che operavano Ayi Kwei Armah e Sony Labou Tansi ? La prigione che Râhi costeggiava nella speranza di rivedere Diouldé è chiamata, non a caso, “Tombeau” : sorta di grande contenitore, pezzo di città circondata da una grande muraglia, ospitava e soggiogava i pericolosi « traîtres » e « apatrides » (p. 143) che ostacolavano la politica di anomia del presidente violento dal nome allusivo. Al “Tombeau” si accosta poi il “Cimetière”, l’ospedale psichiatrico. La prigione, il manicomio : due luoghi dell’esilio che riducono l’uomo in lembi e lo annientano definitivamente ; e fanno del corpo una cassa la quale, nella migliore delle ipotesi, contiene i resti dello spirito morente.

Questo scenario poco favorevole al riscatto individuale, suggerisce una certa lontananza dal clima moribondo che Okara dipingeva in The Voice. Qui Okolo ha potuto scegliere di difendere la vita dello spirito minacciato dall’internamento nell’ospedale psichiatrico preferendo eroicamente la morte del corpo. D’altro canto lo sfondo di collettiva disintegrazione ci permette di situare questo romanzo di Monénembo in linea con la riduzione in stato di morte, motivo imperante nella scrittura di Sony Labou Tansi, e lo smembramento degli organismi in Armah. Morte e disintegrazione regnano sovrani : i guaritori hanno odore di cadavere (p. 128), e i personaggi più attivi hanno il « regard de momie » (p. 133).

Ora, tramite i riferimenti alle pratiche adottate dal ghanese Armah e dal congolese Sony rispetto al processo di decomposizione e morte dei personaggi intendiamo far luce sul procedimento di Monénembo che non ostenta dei suoi personaggi paralitici i corpi tumefatti ma allude alla loro riduzione in stato animale. La “anatomia del viaggio” che qualifica l’indagine del cammino di questi folli è spesso “viaggio anatomico” – ovvero indagine, per sezioni, nel corpo – nelle viscere a volte prefigurato dalla città (Okara), talvolta dalla società

86 Pierre LOUBIER, op. cit., p. 14.

87 Ambroise TEKO-AGBO, « Tierno Monénembo ou l’exil, l’impertinence et l’écriture », Notre Librairie, n° 126,

(Armah), altre volte ancora dal corpo d’uomo che nella sua fuga fa un percorso di morte. Adesso, invece, il sezionamento del corpo umano appare agire sul corpo animale, nel senso in