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Allontaniamoci dalla Nigeria per inaugurare un percorso contraddistinto, nel decennio a cavallo del 1960, dalle opere di tre senegalesi, Birago Diop, Ousmane Sembène, Cheikh Hamidou Kane. All’indomani delle guerre in Africa e in Europa, in difesa della patria francese, il Senegal è segnato geograficamente come punto di raccordo strategico. Per i “tirailleurs sénégalais”, provenienti in realtà da molte parti dell’Africa occidentale, quella del rimpatrio è una fase di impossibile riappropriazione di sé e della propria integrità. Lo smarrimento mentale che caratterizzava gli “spostati” di Tutuola e Achebe, apparsi come idioti girovaghi, si concretizza ora nello smarrimento causato dallo spostamento fisico dei “tirailleurs”, la cui follia è manifesta al loro ritorno dalla guerra. Ai “tirailleurs” che hanno combattuto al fronte contro la Germania nazista, poi in Marocco e in Algeria, e in Vietnam, Birago Diop si è ispirato già nel 1947, anno di una prima stesura del racconto “Sarzan”, per il ritratto del sergente Kéita.

La celebre raccolta in cui appare “Sarzan”, Les contes d’Amadou Koumba38, esce nel 1947, poi riedito nel 1961 da Présence Africaine. Come nota Mercier, in questa collezione di saggezza raccontata dal griot di famiglia, le leggende cosmogoniche sono assenti per via della precoce islamizzazione della popolazione senegalese. Egli nota che se le leggende del Congo e della Costa d’Avorio attengono spesso e volentieri alla Creazione del mondo, i racconti di Birago Diop rendono piuttosto conto delle credenze animiste, ancora fortemente sentite in Senegal.39 In tal senso l’ultimo racconto, “Sarzan”, il meno tradizionale della raccolta, si

38 Birago DIOP, « Sarzan », Les contes d’Amadou Koumba, I ed. Fasquelle, 1947 ; riedito da Présence Africaine,

1961. Per le citazioni ci riferiamo alla seconda edizione.

raccorda ai precedenti per l’insegnamento derivante dalle tradizioni ancestrali : la conoscenza della propria tradizione – egli scrive nella dedica alle figlie con un’immagine divenuta celebre40 – permette di capire il presente e quindi di affrontare il futuro. In effetti, “Sarzan” si distingue dai contes classici per avvicinarsi ad un genere intermedio che con il critico Mohamadou Kane diremmo « conte-nouvelle »41, in quanto ambientato nella realtà contemporanea dell’autore e tratto da un’esperienza personale. Peraltro, la sua stesura contemporanea al periodo bellico, conferisce a questo racconto un ruolo principale nella tradizione letteraria che si è sviluppata attorno alla figura del reduce di guerra. Anche Birago Diop, come molti altri intellettuali e artisti, aveva partecipato alle guerre – si percepisce appena nell’introduzione della sua raccolta42 – come funzionario veterinario nell’AOF43. Anche lui aveva conosciuto l’allontanamento da casa e, soprattutto, in quell’occasione avrebbe conosciuto un sergente impazzito una volta tornato nel luogo d’origine.

La trama del racconto è molto semplice. Dopo 15 anni di servizio nella legione francese, il sergente Thiémokho Kéita viene mandato dall’amministrazione coloniale nel proprio villaggio d’origine, Dougouba in Mali, con la missione precisa di insegnare gli abitanti « comment vivent les blancs » : « Tu les ‘civiliseras’ un peu » (p. 174), aveva concluso il comandante ; e Thiémokho Kéita accetta. Nelle prime pagine del racconto, viene data la retrospettiva storica del villaggio bambara. Ai tempi della missione di islamizzazione condotta da El Hadj Oumar Tall più di un secolo prima, Dougouba, profondamente radicata nelle pratiche animiste, aveva dato prova di resistenza. O meglio, benché messa a ferro e fuoco in nome della legge coranica, Dougouba aveva sempre « effacé toutes traces des hordes de l’Islam et repris les enseignements des ancêtres. » (p. 174) L’incipit ci anticipa l’esito della missione di Kéita.

L’autorità acquisita dai colonizzatori autorizza Kéita a correggere la propria gente che mostra “des manières de sauvages” : il rito della prova di resistenza virile (il Kotéba), i riti sacrificali di ringraziamento agli avi, quelli di fertilità della terra e gli amuleti protettivi

40 «A mes filles :

NENOU et DÉDÉE

pour qu’elles apprennent et n’oublient pas que l’arbre ne s’élève qu’en enfonçant ses racines dans la Terre nourricière »

41 Mohamadou KANE, Birago Diop, l’homme et l’œuvre, Paris, Présence Africaine, p. 180.

42 « Plus tard, sous d’autres cieux, [quand] le temps était sombre et le soleil malade […] ». Birago Diop

rientrano in questa categoria che egli combatte con aggressività – impedendone la pratica o distruggendone gli oggetti – e nei discorsi civilizzatori. L’anno seguente, il narratore- accompagnatore di Kéita trova la situazione capovolta : il sergente Thiémokho Kéita non è più la stessa persona e l’uomo vagabondo che ora incontriamo, fonda il prototipo del “tirailleur” impazzito. Riportiamo, a mo’ di illustrazione del sergente pazzo, il seguente passo molto citato :

« Un homme qui gesticulait et agitait une queue de vache attachée à son poignet droit […] portait, sous sa vareuse déteinte, sans boutons et sans galons, un boubou et une culotte faite de bandes de coton jaune-brun, comme les vieux des villages. La culotte s’arrêtait au-dessus des genoux, serrée par des cordelettes. Il avait des molletières, elles étaient en lambeaux. Il était nu-pied et portait son képi. » (p. 179)

La tipicità del personaggio non è data soltanto dall’abbigliamento sbiadito e in brandelli, ma consiste anche nello scenario che il narratore trova al suo arrivo in auto, ovvero una « marmaille toute nue, le corps gris-blanc de poussière, […] suivie de chiens roux aux oreilles écourtées et aux côtes saillantes » (p. 179). Cliché sottolineato dal narratore stesso, quello della confusione di cani e bambini, al centro dei quali troneggia il folle, rumoroso e inoffensivo quanto gli stessi cani e bambini.

L’atteggiamento che il visitatore nota, è di ammonimento della pericolosità che circonda il sergente (p. 179) ; ma, si badi bene, tale pericolo non proviene dal sergente, bensì dagli spiriti ancestrali i quali hanno inflitto a Thiémokho Kéita la peggiore delle punizioni, quella di non possedere più la propria identità, come confermato dal capo del villaggio e padre di Kéita. Per la collettività la follia del sergente rientra in un codice preciso, peraltro riscontrato dallo stesso Birago Diop in altri paesi dell’Africa occidentale, come il Mali e il Niger44 :

« – Non ! Pas Kéita, fit le vieux père, Sarzan ! (Sergent !) Sarzan seulement. Il ne faut pas réveiller la colère de ceux qui sont partis. Sarzan n’est plus Kéita. Les morts et les Génies se sont vengés de ses offenses. » (p. 182)

43 Afrique Occidentale française : federazione che, in epoca coloniale – fino al 1958 –, raggruppava gli stati

dell’Africa subsahariana occidentale ovvero Senegal, Mauritania, Sudan (attuale Mali), Niger, Alto Volta (attuale Burkina Faso), Dahomey (attuale Benin), Costa d’Avorio e Guinea.

Per questa punizione il sergente non è più degno di chiamarsi Kéita, ormai diventato solo Sarzan, con chiari riferimenti all’identità coloniale. La perdita del nome accompagna la perdita dello spirito che fa della persona un corpo vuoto, da cui lo svuotamento dello sguardo di Sarzan. Lo sguardo perso nel nulla indica la sua rottura con la realtà concreta ; e la sua vista si prende carico di ciò che è invisibile agli uomini. Lo smarrimento dell’identità con la perdita del nome conferma la sacralità nell’Africa occidentale conferita al nome proprio, la cui invocazione rende la persona vulnerabile non appena il nome è divulgato invano45. Come si vedrà in seguito46, la privazione del nome è una delle peculiarità del folle che sarà spesso designato con il nome generico di “folle”. E alla perdita di identità succede la ricerca del proprio posizionamento nel nuovo contesto. Esso si traduce nel movimento erratico, sia esso riconoscibile nella marcia o in uno spazio più astratto, come quello in cui si muove Sarzan.

Agli occhi del personaggio-narratore Sarzan non smetteva di « aller et venir » (p. 186) come da e verso un luogo impossibile da discernere. Egli, agitato, canta e urla con voce rauca in ogni momento del giorno e della notte. La nenia ripetitiva del suo canto – « Ecoute plus

souvent/Les choses que les êtres »… – indica la propria condanna ad identificarsi nello spazio

dei morti – « C’est le souffle des ancêtres. » (p. 180) – per non rinnegarlo, dacché « Ceux qui

sont morts ne sont jamais partis ». A seguito dei numerosi sacrilegi commessi47, Sarzan dovrà espiare la pena della follia eterna per aver osato sostituirsi all’autorità degli spiriti ancestrali.

Alcune allusioni al movimento direzionale di Sarzan, precedenti all’episodio cruciale della sottrazione dello spirito, permettono di individuare il passaggio dal viaggio fisico di Kéita verso Dougouba alla perdizione di Sarzan. Poiché incaricato di una missione a Dougouba, egli non stava, in cuor suo, “tornando a casa” ; non stava per ritrovare la genuinità delle sue usanze48. Il tragitto del ritorno dell’ex-soldato non presagiva nulla di buono : Kéita

44 Vedi Introduzione a Les Contes d’Amadou Koumba, cit., p. 11.

45 Vedi Jacques BOURGEACQ, « Verbe et culture dans les Contes d’Amadou Koumba de Birago Diop : pour une

lecture ethnographique de la littérature africaine », The French Review, vol. LIII, n° 2, déc. 1979, p. 220.

46 Per i risvolti e i significati del nome come identità e della mancanza del nome si veda Cap. 1.1 – Parte III. 47 « Il avait coupé et brûlé des branches du Dassiri, l’arbre sacré », « il avait déchiré le cône d’étoffe […] que

portait le Mama Djombo, le grand-père-au-bouquet », « [il] avait décroché le sachet pendu dans sa case et qui enfermait le Nyanaboli, le Génie de la famille du vieux Kéita » (p. 183), « il avait brisé les canaris [dans le Bois sacré] », « il avait renversé les statuettes » (p. 184)

48 A proposito della devozione verso la saggezza popolare delle origini che Thiémokho Kéita ha ormai perduto,

riportiamo l’intero passo dell’introduzione dei Contes d’Amadou Koumba in cui emerge la posizione di Birago Diop che è all’origine della redazione di quest’opera : « Plus tard, sous d’autres cieux, […] ce retour fugitif dans le passé récent tempérait l’exil, adoucissant un instant la nostalgie tenace et ramenait les heures claires et chaude que l’on n’apprend à apprécier qu’une fois que l’on en est loin.

era intento a raccontare al suo accompagnatore la guerra del Riff, la vita da soldato a Marsiglia, a Toulon, nel Fréjus, a Beirut, al punto che – dice il narratore – « il semblait ne plus voir la route » (p. 175). L’importanza di questa frase, che traduce la perplessità dell’accompagnatore, consiste in un simbolico attrito tra Kéita e la prospettiva del ritorno : nel percorrere la via verso casa, Kéita è proiettato indietro, nel ricordo nella guerra e dell’Europa, segni, per lui, della civiltà coloniale. Il suo procedere “in avanti” per la strada del villaggio natale, sembra scontrarsi con un ritorno “indietro” nelle sue origini che egli non vede poiché eclissate dal racconto euforico della guerra. Proseguire il viaggio verso la terra d’origine significa per lui fare dei passi indietro, non evolvere ; da cui l’espressione che risuona come ritornello del “conte-nouvelle” : « C’est encore là des manières de sauvages ! » (p. 177), espressione che tanto irrita il narratore – e Birago Diop. Invece, la proiezione mentale nel passato prossimo della guerra, è per lui un modo per affermare la propria evoluzione, la propria “civiltà” da infondere alla propria gente.

Ora, se per la legge del contrappasso che qui pare emergere, la punizione consiste in una pena identica o opposta al peccato (rifiuto delle tradizioni passate), egli non “farà ritorno” (verso il villaggio natio) per civilizzare – come invece intendeva fare –, ma dovrà “errare indietro” in un passato ben più lontano per tornare all’origine primaria delle credenze animiste, sopravvissute anche all’Islam. Difatti, la presunzione missionaria del sergente Kéita è condannata nel precedente registrato nel prologo di El Hadj Oumar Tall, il guerriero islamista Toucouleur. Come giustamente fa notare Bernard Mouralis, l’analogia che Birago Diop stabilisce tra El Hadj Oumar Tall e Thiémokho Kéita indica l’origine patologica delle forme costrittive e riformatrici che hanno esercitato l’uno imponendo la religione islamica e l’altro tentando di fare della sua gente un calco dei bianchi colonizzatori49. L’inizio e la fine del racconto combaciano con una certa coincidenza dei personaggi “civilizzatori”, il cui seme di follia, però, finisce per manifestarsi soltanto nel secondo sotto forma di possessione.50 Di Lorsque je retournai au pays, n’ayant presque rien oublié de ce qu’enfant j’avais appris, j’eus le grand bonheur de rencontrer, sur mon long chemin, le vieux Amadou Koumba, le Griot de ma famille.

Amadou Koumba m’a raconté, certains soirs – et parfois, de jour, je le confesse – les mêmes histoires qui bercèrent mon enfance. Il m’en a appris d’autres qu’il émaillait de sentences et d’apophtegmes où s’enferme la sagesse des ancêtres ». (p. 11) Alla luce di questo passo, comprendiamo la condanna di Birago Diop stesso per coloro che, come Kéita, non hanno fatto tesoro degli insegnamenti che i racconti popolari custodiscono. Pensando di evolvere abbandonando le superstizioni, in realtà rinnegano la propria identità collettiva, quindi personale.

49 Bernard MOURALIS, L’Europe, l’Afrique et la folie, Paris, Présence Africaine, 1993, pp. 172-173.

50 La possessione deriva da un codice specifico ad una realtà comunitaria che permette di intraprendere il

percorso di suggestione individuale – e collettiva – da cui deriva il valore collettivo della terapia. Vedi M.-C. et E. ORTIGUES, Œdipe africain, Paris, L’Harmattan, 1984.

conseguenza, la dimensione ciclica del racconto è da individuare sia a livello strutturale – per cui l’equilibrio iniziale viene ripristinato dopo un tentativo di disordine51 – sia a livello tematico della storia riformatrice.

Gli esiti devastanti della guerra che hanno reso perverso poi folle il sergente Kéita, chiudono il cerchio rimandando alla stessa folle perversione della guerra santa di El Hadj Omar Tall con cui Birago Diop apre il racconto. Da cui la condanna di Birago Diop per entrambi i momenti storici, condanna da lui stesso esposta calandosi nella contemporaneità di questo racconto che chiude i Contes d’Amadou Koumba. In definitiva, quella di El Hadj Omar Tall e del “colonizzatore Kéita”, che Mouralis chiama « follia riformatrice »52, viene superata a livello simbolico dalla follia come possessione di Sarzan, mostrando la complessità del movimento ciclico che analizzeremo altrove.53