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L’Anté-peuple37 è uno dei romanzi più critici della scrittura di Sony Labou Tansi. La gestazione è stata lunga e tortuosa ed è stato rimaneggiato più volte nel corso della sua vita. Rifiutato da Seuil, allora l’editore principale di scrittori dell’Africa nera, Sony Labou Tansi l’ha ricomposto, modificandone anche il titolo, e riproposto a Seuil fino a quando il manoscritto è stato accolto più volentieri dopo i successi ottenuti dalle pubblicazioni di La vie

et demie nel 1979 e de L’État honteux nel 1981, romanzi premiatissimi e acclamati dalla

critica.

Uomo dalla personalità complessa e scrittore tra i più originali, Sony Labou Tansi ha dichiarato in un’intervista che il suo metodo di scrittura si sviluppa tutto nella mente ; la fase di incubazione di un progetto avviata dal titolo materializzatosi in mente.38 Ciò potrebbe forse

36 Vedi N.d.T. della versione francese di “Fools”, Jean-Pierre RICHARD, Fools, Bruxelles, Éditions Complexe,

1992, p. 17.

37 Sony Labou TANSI, L’Anté-peuple, Paris, Seuil, 1983.

38 Jacques CHEVRIER, « Comment travaillent les écrivains : Sony Labou Tansi », entretien, Jeune Afrique, n°

1207, 22 février 1984, citato da Jean DEVESA, Sony Labou Tansi, écrivain de la honte et des rives magiques du

parzialmente spiegare il lungo travaglio costato a Sony al fine di far accogliere L’Anté-peuple, sottoposto a diverse variazioni del titolo – prima Le premier pas, poi La natte. Indubbiamente il meno fantastico dei suoi romanzi – numerosi studi hanno messo in luce la filiazione dello stile di Sony Labou Tansi al realismo magico dei sudamericani –, la coesistenza del registro che l’occidente chiama “realistico” con quello magico provoca un senso di stridore il quale, però, non altera il piacere della lettura.

Oltre alla difficoltà nel circoscrivere il sottogenere, lo stesso protagonista sfugge ad una definizione univoca, trovandosi, esso, a fare i conti con problematiche esistenziali sempre nuove. Eppure, una lettura più attenta permette di verificare che queste sono legate l’una all’altra fino a riprodurne un tracciato coerente. Tanella Boni39 invita a leggere L’Anté-peuple sotto la luce della virtù e dell’amore come situazione esistenziale. Allo stesso modo, Philippe Makita analizza, dello stesso romanzo, l’aspetto sacro e quello profano dell’amore come bisogno esistenziale40. Tuttavia L’Anté-peuple non può certamente dirsi un romanzo d’amore. Il filo che sottende l’opera è una riflessione esistenzialista che tocca le corde dell’identità vacillante e instabile ; e i molteplici interrogativi coinvolgono le sfere dell’esistenza – sentimentale, sessuale, mentale, politica – fino a sperimentarne le estreme conseguenze.

Il protagonista Dadou è un uomo tormentato poiché incapace di adempiere a quel principio di virtù impostosi con il dominio dei propri impulsi sessuali per la giovane alunna Yavelde. Incline all’alcolismo, è anche incapace di controllare la propria posizione nella società civile mettendo a repentaglio la propria carriera di direttore del collegio normale femminile. Annoiato dalla “mocherie”, neologismo che ricorre come segno distintivo del tedio, Dadou si ritrova, suo malgrado, accusato di molestie sessuali e poi, fuggiasco, implicato nelle lotte di resistenza in Repubblica del Congo (Brazzaville). Il ritratto di Dadou rispecchia la storia sventurata di un conoscente di Sony Labou Tansi41 – ma che presenta non poche somiglianze con le proprie ossessioni42 – ; e congloba le questioni esistenziali dell’uomo congolese nella nuova società borghese della post-indipendenza.

39 Tanella BONI, « L’amour dans L’Anté-peuple de Sony Labou Tansi », Sony Labou Tansi, témoin de son peuple, Limoges, Pulim, 2003, p. 199-212.

40 Pilippe MAKITA, “L’Anté-peuple ou l’exorcisme, “De l’amour et autres démons” », Sony Labou Tansi ou la quête permanente du sens, Paris, Montréal, L'Harmattan, 1997, pp. 329-341.

41 Sony Labou Tansi, “Le projet littéraire de Sony Labou Tansi”, Le Mois en Afrique, n° 205-206, fév.-mars

1983, citato da Jean DEVESA, op. cit., p. 96.

42 Con la creazione del personaggio di Yavelde, omonima della figlia nata nel 1976, egli esorcizza il terrore di

vederla cresciuta nelle vesti di bambina seducente. Questo romanzo nasconde quindi delle paure intime dello stesso Sony Labou Tansi : paterne, politiche e sociali. Vedi Pilippe MAKITA,op. cit., p. 331.

L’accumulo dei numerosi eventi capitati a Dadou – le avances di Yavelde, l’alcolismo per sfuggire all’ossessione della ragazzina, l’accusa di gravidanza e del successivo incitamento al suicidio di Yavelde, l’incarcerazione senza processo, la fuga dalla prigione verso la riva sinistra del Congo, i pestaggi, l’attivismo nella resistenza, l’attentato al Primo segretario del Partito per conto del “maquis” – non dà giusto credito all’opera poiché il cuore della questione non risiede nella trama. L’intreccio è, difatti, pressoché inutile per comprendere L’Anté-peuple, come giustamente notato da Lilyan Kesteloot nel 198343. È quindi necessario, da parte nostra, fare un lavoro di destrutturazione dell’intreccio per ricostruire il filo del discorso da cui poi scaturirà il significato conferito all’opera da Labou Tansi. Ci limitiamo per ora a smantellare la linearità presentata nel romanzo per focalizzarci sui due poli del filo che interessano maggiormente la nostra analisi laddove il filo rimanda alla follia di Dadou e i poli alle condizioni esistenziali che lo portano ad incarnare il “fou gentil errant” (p.175).

La sottile follia di Dadou, che vediamo all’inizio del romanzo, intende smascherare il sottobosco sociopolitico, finché, al termine della vicenda, si palesa nella forma più manifestamente stereotipata del folle errante. In effetti, tra la prima e la seconda metà del romanzo c’è una cesura netta costituita dalla fuga di Dadou sul fiume Congo : prima della fuga (cap. I-X), il funzionario Dadou lotta contro il regime interiore della “mocherie” che si dilata nella morbosità del corpo ; dopo la fuga dall’ex-Zaire per rifugiarsi alla sinistra del fiume (cap. XI-XVII), il fuggiasco Dadou corre nei meandri del Congo Brazzaville in cui le lotte intestine con l’Angola costituiscono l’atmosfera infernale. Alla “mocherie” esistenziale corrisponde la “mocherie” politica, entrambe figlie della stessa follia di cui soffre il Congo.

All’inizio de L’Anté-peuple Sony Labou Tansi ci presenta Dadou come colpito da un’insopportabile orticaria con cui manifesta la sua ideologia della “mocherie” :

« Des fois, il avait, lui, Dadou, Nitu Dadou, le directeur du collège normal de filles de Lemba-Nord, de curieuses démangeaisons de se sentir le président. Évidemment, ces démangeaisons étaient bien moches. Et sa vie elle-même – ou la vie en général, ces trucs-là, c’était également moche. Il avait épousé une jeune institutrice neuf ans auparavant parce que, à son âge, dans cette société cent fois plus moche que lui, les autres se mariaient bien. Il avait eu deux gosses, simplement parce que avant lui, d’autres au pays avaient eu deux gosses à trente-neuf ans. » (p. 14)

L’ideologia della “mocherie” in realtà non si limita a L’Anté-peuple, ma abbraccia tutta l’opera di Sony Labou Tansi. Evidentemente, le sensazioni di disprezzo che trapelano in Dadou ci indicano che il neologismo, composto dalla sostantivizzazione dell’aggettivo “moche”, brutto, rimanda al disagio generale che si prova nella contemporaneità in cui vigono gli « anti-valeurs, (l)es préjugés, (l)es obstacles tantôt imposés tantôt choisis délibérément par l’homme qui empêchent son accomplissement »44. Sony Labou Tansi peraltro dice che lo stato di “mocherie” coinvolge tutti i soggetti trattandosi di una condizione comune del vivere umano. Wilfrid Miampika riassume bene il progetto di Sony Labou Tansi, definendo la “mocherie” come la « nouvelle version de la bêtise humaine flaubertienne, une inadéquation de l’individu dans l’absurdité de la société moderne » e come « une aliénation de l’homme par les valeurs de la société contemporaine »45 che, come abbiamo, visto sono degli anti-valori, da cui l’allusione del titolo del romanzo.

Ecco che dadou sprofonda nell’inabissamento esistenziale attraverso quello che il narratore chiama il “complesso di insicurezza” dell’ “eroe bulimico” – per dirla come Devésa46 –, ormai sulla via di una certa confusione mentale :

« Mal dans sa peau? Peut-être pas. Mais des fois, il se sentait comme étranger dans son propre corps et ça devenait « merdant ». Il aimait le mot « merdant », comme le mot « moche », il les trouvait enveloppés d’une curieuse magie, ils lui fendaient l’être en deux, et, entre les deux quartiers de lui, lui aussi étranger à l’autre qu’à lui-même, une brillante mèche de néant – en lui, une zone de néant – qu’il fallait peupler de quelque chose – quelque chose pris en lui-même, quelque chose qu’il n’avait jamais trouvé. Si bien qu’il essayait : la main gauche, le pied, le cœur, la fatigue, le travail le vin, la danse, les femmes, le moche, le merdant, n’importe quoi plutôt que le vide, car le vide tue et déroute. Le vide c’est la mère du désespoir. » (pp. 32-33)

La “mocherie” è dunque « l’abîme qui existe entre ce que l’individu est et ce qu’il se propose d’être »47 ; e Dadou è ora sdoppiato, combattuto tra « deux quartiers de lui, lui aussi nouvelle série 2ème-3ème semestre 1984, vol. 2, n° 2-3.

44 Landry-Wilfrid MIAMPIKA, “Sony Labou Tansi : l’anti-modernité des Etats honteux ou la parenthèse de la

mocherie” in Colloque Sony Labou Tansi et Sylvain Ntari Bemba, Corbeil-Essonnes, ICES, 1996, p. 59.

45 Idem.

46 In questi termini Devésa definiva la smania di Sony Labou Tansi di analizzarsi attraverso i suoi personaggi. 47 Landry-Wilfrid MIAMPIKA, op. cit., p. 59.

étranger à l’autre qu’à lui-même » quindi estraniato. La nevrosi che intravedevamo prima, si trasforma lentamente nell’alienazione di cui la “mocherie” è causa. L’ “homme décousu” (p. 44) è il picco di un lento crescendo dello stato mentale – già latente – di Dadou che vive una profonda desolazione interiore e che si prepara, nell’attraversamento del fiume Congo, ad una ricerca dentro di sé. Sony Labou Tansi ha confessato in un’intervista che il viaggio di Dadou verso il Congo Brazzaville è una rielaborazione della realtà nel senso in cui uno dei suoi amici « avait été obligé de partir en exil. Il m’a raconté ce départ en exil. Dans mon roman j’ai réinventé cela. J’ai créé l’exil intérieur d’un homme. »48 Qualcuno sostiene che, malgrado le apparenze, L’Anté-peuple non sia, in realtà, la storia di una ricerca interiore. Philippe Makita asserisce che si tratta piuttosto della storia di una donna – Yealdara – che attraversa mille peripezie per salvare la vita tormentata dell’uomo dall’oblio di sé.49 Uno sguardo al romanzo nella sua interezza permette forse di vedere un po’ oltre.

Assunta l’identità angolana e raggiunta la riva sinistra del fiume, Dadou non trova altro che terrore e un clima infernale di scontri tra i “bérets”, la polizia ufficiale, e i “maquisards”, i ribelli che attentano al potere dominante. Come sostenuto da Lilyan Kesteloot50, l’arbitrarietà della riva destra è rimpiazzata dall’imbarbarimento di un mondo infernale : qui la condizione di “matto” è l’unica possibile, conseguentemente l’unica esistente. I folli pullulano nella Repubblica del Congo ; e ad accorgersene è Yealdara, l’amante e conpagna di Dadou delle cui tracce va alla ricerca. Ecco che incontra il primo matto :

« Le fou marchait vite devant elle, avec une natte sous l’aisselle gauche et un bâton dans la main droite. Yealdara accéléra le pas. Elle rattrapa et dépassa le fou qui aussitôt fit volte-face. Yealdara marcha sur cinq ou six mètres avant de revenir sur ses pas. À l’angle de la rue le fou bifurqua et se mit à courir devant lui à toute jambe. » (p. 165)

La figura del folle semi-nudo, che tiene sotto braccio una stuoia e si aggira indisturbato nelle strade della città, si moltiplica tante volte quanti sono i ribelli congolesi i quali trovano così il modo di sfuggire agli « emmerdements des papiers et consorts » (p. 174).

48 Sony Labou Tansi, “Le Projet littéraire de Sony Labou Tansi”, citato da DEVESA, op. cit., p. 96. 49 Cfr. Philippe MAKITA, op. cit., p. 341.

E tale copertura del “fou gentil errant” (p. 175) – nella “natte” sotto braccio v’è l’arma – era possibile soltanto perché nessuno osava toccare i matti. Ma, al di là della spiegazione ufficiale, esiste – com’è tipico in Sony Labou Tansi – una verità custodita dalle credenze popolari : secondo un’antica leggenda, le scimmie di una tribù si sarebbero rifiutate di pagare le imposte al regno che li dominava, dacché l’intera tribù sarebbe stata trasformata in scimmie per permettere loro di mimetizzarsi (p. 174), precisamente come i ribelli contro le forze di Stato.

Secondo questa prospettiva, Dadou sarebbe matto perché considerato tale secondo i codici del Congo Brazzaville – come aveva detto un vecchio pescatore alla riva sinistra del Congo, « Ici les gens sont ce pour quoi on les prends » (p. 142). Eppure la prima metà del romanzo ci ha portati a vedere in Dadou un uomo problematico, impegnato in un percorso interiore sfociato nella traversata del fiume che ha ribaltato le vesti della follia, prima subdola e interiormente capillare, poi teatralmente manifesta. Il sospetto è che Sony Labou Tansi ci voglia far lavorare molto più in profondità e ci voglia trascinare alla scoperta della follia in funzione della quale il viaggio di Dadou ha senso : il funzionario che, nella prima metà del romanzo, esplora le pieghe della nevrosi nella noia della nuova società borghese e quindi della follia come condizione mentale latente, diventa poi il fuggiasco che si rifugia nella follia per ottenere la libertà negatagli dall’altra parte del fiume. Il Dadou-presidente abbandona la follia come stato mentale per abitare la follia come status palesato nella maschera del folle errante con la “natte” sotto braccio. In altri termini, il suo viaggio sul fiume, di cui ci viene data una scarna descrizione, funge da spartiacque tanto nel romanzo quanto nel personaggio di Dadou. Da condizione interiore, la follia si muta in involucro esteriore. Ma ancora, e soprattutto, da condizione abitante passa a condizione abitata. In definitiva, il personaggio avverte di scivolare nella follia ; e, più di preciso, la raffigurazione del suo stato mentale prende corpo letteralmente.

La follia invade il paese infernale ; e come in The voice di Okara l’osteria nella città infernale era descritta come una “casa di matti”, dove la vita illecita esiste parallelamente alla vita ufficiale, così nella “casa del foula” e nelle capanne isolate delle donne folli si prepara la strada alla via illecita per contrastare la via ufficiale e combattere il potere vigente : nella riva sinistra del Congo di Sony, stranieri, esiliati, apolidi, matti e matte, streghe e dissidenti, tutti ugualmente marginalizzati, fanno parte della stessa città infernale in cui non c’è salvezza al di

fuori della follia. Persino Yealdara, che era riuscita a procurarsi i documenti per accedere al paese, trova nella follia la sola condizione possibile : anch’essa dovrà essere iniziata al corpo dei ribelli da donne travestite da folli. E in questo rito accediamo al codice d’onore che eleva la maschera del folle a credo assoluto condiviso da tutti i “fous gentils errants” : « Ici, nous croyons fortement, nous croyons en tout. Nos idées font ce que nos corps ne peuvent pas » (p. 177). La follia è l’unico rimedio alla dittatura mortifera ; e, allorquando è organizzata in confraternita, è anche potente armatura per la salvaguardia delle idee e dei propositi.

Nonostante ciò, il senso di morte è dilagante : su questo lato del fiume, dove tutto appare amplificato – il tormento interiore diventa violenza esteriore, la stranezza diventa assurdità, la banalità diventa demenza, e la noia diventa morte – e le leggi ribaltate – la magia e le credenze popolari sono un paradigma di conoscenza –, la morte minaccia sempre. Il confine tra la vita e la morte è sempre meno netto e la definizione di “uomo morto”, quello che vagheggia negli inferi congolesi, inizia a prendere le pieghe dell’opinione soggettiva :

« - Tu les prends pour des vivants ?

- Je ne sais pas, dit le vieux. Mais il n’y a pas tout à fait de raison qu’on les estime de morts.

- Ils sont morts, dit Yealdara. - Ils sont vivants, dit le vieux. - Il faut le voir pour le dire. - On peut le penser.

- Moi, je pense qu’ils sont morts. - Moi qu’ils sont vivants. » (p. 154-155)

Tra i morti viventi, i “presque morts” e i “peut-etre morts” esistono sfumature che finiscono spesso per annientarsi sfociando piuttosto in diverse gradazioni della morte. Il percorso di Dadou è quindi anche resistenza alla morte, ma la morte stessa è un percorso nel quale si nutre l’ultima speranza : « “Que la mort soit un chemin”, comme disent les ancêtres. » (p. 161) È dunque possibile individuare una vicinanza di Sony Labou Tansi con i suoi contemporanei anglofoni visti precedentemente, Okara e Armah.

Se Okara metteva in scena la ricerca di una via alternativa alla desolazione morale e Armah allude alla resistenza fisica come via di fuga dalla necrosi sociale, Sony Labou Tansi mette in scena l’assurdità della via di fuga. Il processo anatomico rimane, per questi scrittori delle lotte al potere, un metodo di conoscenza del corpo sociale malato che infetta le particelle

sane. Riecheggiando fortemente la poetica della decomposizione di Ayi Kwei Armah, in Sony Labou Tansi appare altrettanto intenso l’effetto del sezionamento della carne : il corpo è più volte vissuto come luogo del dolore e della provocazione ; e ciò spiega il facile slittamento nella scrittura di Sony Labou Tansi da “corps” a “chair” e da “chair” a “viande”, dove la carne da macello vince sul corpo carico di umanità e di amore. Xavier Garnier mette magnificamente in rilievo il meccanismo del mondo antropofago di Sony Labou Tansi asserendo che « l’État de chair y étouffe l’État de droit, la “viande” annulle la loi »51 ; e la violenza – « la natte de fou » – diventa una maniera « pour s’accrocher à la vie » (p. 179), da cui l’uccisione del Primo Segretario del Partito senza vera coscienza del gesto. Così la spaventosa diffusione della follia che dilaga ne L’Anté-peuple fa eco allo scenario di The

Beautiful ones are not yet born, in cui gli uomini impazziti, alcuni dei quali morti suicidi, si

confondono con quelli savi in apparenza in cui la follia è latente, come in “the man”. Viene quindi spontaneo chiedersi se il vero folle è il nevrotico e tedioso direttore o il finto-folle che, alla fine, commette l’omicidio.