Méduses ou les orties de mer, Ces fruits si doux de l’arbre à pain
Poeta, drammaturgo, romanziere – tre grandi fasi ne caratterizzano la poetica95 –, questo autore non smette di interpellarci sull’eterno quesito : come vivere ?96, che implica quindi il suo pendant esistenziale : come morire ? Qualunque sia l’approccio adoperato per tentare di rispondervi, la sua preoccupazione per la questione ontologica non lascia dubbi. In particolare, la scrittura di U Tam’si non ha mai dissociato il potere dell’occulto dalla conoscenza dell’essenza umana, rivendicando un’identità nazionale e regionale, unica rivelatrice della sua complessa poetica.
Anche nell’indagine dei folli erranti in Tchicaya U Tam’si, la dimensione mitica e metafisica convergono con quella del quotidiano, storico ed immanente, in uno stesso spazio narrativo. Essi sono i depositari di simboli spirituali pur essendo totalmente calati nella vita ordinaria narrata nella finzione : la loro è un’erranza ascetica, un cammino dell’uomo nel trapasso spirituale tra la vita e la morte e viceversa, secondo il credo note a mote regioni dell’Africa. Ecco che la riflessione ontologica di U Tam’si non poteva non essere veicolata dai folli che, sotto il suo pugno, sguazzano nello spazio osmotico di forze vitali.
Delle tre opere prescelte del romanziere congolese – “Le fou rire”, Les Méduses e Ces
fruits si doux de l’arbre à pain –, individuiamo tre orientamenti, dissimili ma coerenti, che
indicano, nel suo insieme, un complesso percorso ascetico dell’uomo inteso come essere spirituale. Lungi da celebrare una felice elevazione verso Dio, Tchicaya U Tam’si utilizza il modello cristico, talvolta in tono irriverente, per spingere fino in fondo il viaggio del folle, ovvero per arrivare il più vicino possibile al punto di arrivo dell’Homo viator. In questi termini si può già vagamente assaporare il processo di questa scrittura complessa definito, non
94 Arlette CHEMAIN, « Évolution-transfiguration de l' “exclu”», Figures de l'exclu, Actes du Colloque
International de littérature comparée (2-3-4 mai 1997), Publications de l'Université de Saint-Etienne, 1999, p. 98.
95 Nel periodo ’55-’79 Tchicaya U Tam’si si dedica alla poesia, nel ’76-’78 al teatro, dal ’79 fino alla morte al
romanzo.
96 Questione ricorrente già nella sua poesia (Épitomé, Le Mauvais sang), d’altronde chiarita in numerose
interviste. Vedi anche “Témoignages de Tchicaya”, Nino CHIAPPANO (dir.), Tchicaya, notre ami : l’homme,
l’oeuvre, l’héritage, Paris, A.A.F.U, avec concours de l’Agence de la Francophonie et de l’UNESCO, 1998, p.
a torto, « herméneutique à vocation subversive »97. Se “Le fou rire” configura un percorso “a stella” compiuto dal folle Sékhélé, in Les Méduses sembra prevalere il modello circolare del “ritorno indietro”, ben visibile nella continuità tra il folle e Luambu. Infine, in Ces fruits si
doux de l’arbre à pain Tchicaya U Tam’si presenta una trasfigurazione del modello circolare
– prevalente in Les Méduses – nel modello ciclico che tende poi ad un’erranza spirituale del giovane Gaston, figlio del magistrato “impazzito”, Raymond Poaty.
Nel racconto “Le fou rire” contenuto nella raccolta La main sèche98 – la più riuscita delle sue opere, stando allo stesso Tchicaya –, il folle appare morto, il corpo svuotato e disseminato un po’ ovunque nella città di MFoua. Neanche di questo folle, come di quelli già visti, si sa nulla, se non che si fa chiamare Sékhélé-l’œil-sec ; soprannome, questo, a cui spesso si accompagna l’asserzione « Homme sans nombril » (p. 82) con la quale è rimarcata l’assenza di madre, l’assenza di provenienza quindi d’identità. L’uomo orrido e rugoso – « œil salace, mais sec, mauvais, médiocre, cotillon, à la cynocéphale » (p. 83) –, senza identità, dotato di un ridicolo soprannome, non pare altro che un corpo svuotato di umanità, fugace viandante nel mondo terreno. E come gli altri folli, è vestito di stracci e seguìto da un corteo di mosche e un cane errante (presenza diffusa nelle opere di Thcicaya U Tma’si99).
In prospettiva tipologica, non è ai matti da legare che Sékhélé-l’œil-sec appartiene, bensì ai folli docili. La gente lo riconosce soprattutto per il “fou rire” che scatena nella gente : Sékhélé dispiega il proprio riso sardonico sulla piazza pubblica, compiendo ciò che Bachtin identifica come la funzione principale del buffone e dello sciocco, ovvero vivere nella totale esteriorità per riflettere l’esistenza altrui e per ristabilire l’immagine pubblica della figura umana.100 Le sue grottesche imitazioni e i suoi sermoni spettacolari fanno di lui un buffone di piazza circondato di gente troppo curiosa e poco cosciente del significato di quelle frasi che distorcono i proverbi.101
Coscienti della complessa genesi del folle secondo Tchicaya che affronteremo nello spazio opportuno102, limitiamoci per ora ad un’osservazione di superficie : l’autore illustra, attraverso il folle carnevalesco, la morte per riso, ovvero “il morire dal ridere” come gesto
97 Ibéa ATONDI, « Tchicaya, l’homme inachevé », Notre Librairie, n° 137, mai-août 1999, p. 53. 98 “Le fou rire” in La main sèche, Paris, Robert Laffont, coll. Chemins d’identité, 1980.
99 Vedi anche la scena conclusiva del romanzo Ces fruits si doux de l’arbre à pain, p. 325. 100 Mikhaïl BACHTIN, Esthétique et théorie du roman, Paris, Gallimard, 1978, p. 306.
101 « Ne rira pas qui a plus d’un crime sur la conscience » ; e ancora : « Donne ce que tu peux. Plus tu donnes
moins tu gardes, mieux c’est ! » (p. 90)
liberatorio. Vedremo, poi, che non è errato affiliare il folle – « un prodige ! » (p.87) – al mondo divino : le pagliacciate di Sékhélé-l’œil-sec sono contagiose e disperdono il riso a macchia d’olio tra i suoi spettatori in delirio. Il bizzarro connubio che predomina in questo racconto, poi, è quello che unisce il riso e la morte. La gente “muore dal ridere” – nel senso figurato del termine – ma presto le vittime del folle, dopo aver goduto dello spettacolo del folle, perdono la vita. A rimanere coinvolti sono i criminali che il folle non si lascia sfuggire e che suscitano il suo ritornello : « Ne rira pas gratis qui a plus d’un crime sur la conscience. ». L’ambiguità è che nei luoghi in cui muoiono questi personaggi, si ritrovano anche brandelli del corpo di Sékhélé : le vittime muoiono ridendo senza sapere che il riso è causa di morte ; la folla, soggetto e oggetto delle sue pagliacciate, è complice, diremmo, “di omicidio di ilarità”. Essa alimenta il riso che uccide, motivo ricorrente e ripreso a margine nel racconto pubblicato postumo Les trois ombres103, dove riso-morte-ombra104 costituiscono un nodo simbolico caro a Tchicaya U Tam’si.
Il narratore dice che « il lui manquait une vis quelque part dans la tête » (p. 97) – come gli altri dementi del primo capitolo –, utilizzando l’espressione che ingenera un altro gioco di parole : sotto lo stimolo dei giochi linguistici (tipici in Tchicaya), il senso proprio si pone allo stesso livello del senso figurato laddove il capo è sia parte fisica del corpo umano sia capacità di raziocinio. È quindi ovvio che il folle incarni la persona priva di facoltà raziocinante – almeno in apparenza –, « tête sans tête », risvolto demenziale del “grande capo” :
« La cohorte de mouches et son chien galeux étaient sa suite ; secrétaires, chefs de cabinet et gardes du corps. » (p. 97)
L’immagine canonica del folle non tarda quindi ad emergere sul piano puramente descrittivo. Come tutti i dementi, anche Sékhélé-l’œil-sec ripropone il mondo del potere in miniatura rovesciandone lo schema. Scemo del villaggio, “fou du roi”, Sékhélé-l’œil-sec, mosche e cane rognoso al seguito, rappresenta anche il “contre-pouvoir” della tirannia rappresentata dal politico abitualmente circondato dagli uomini di rappresentanza e della
103 Tchicaya UTAM’SI, Les trois ombres in L’atelier imaginaire : nouvelles, Paris, L’Àge de l’homme, 1988, pp.
145-160.
104 Il più anziano dei tre protagonisti (l’uomo, la donna e il bambino), Jean detto Salopette, accortosi di possedere
tre ombre invece di una che sanciscono la sua prossima morte di tre giorni, « se prit d’un magistral fou rire qui débuta par un ricanement sardonique qui eut pu terrifier une assemblée de démons. » Malgrado ciò, « il n’avait pas le rire qui tue la mort. » (Tchicaya UTAM’SI, Les trois ombres in L’atelier imaginaire : nouvelles, Paris, L’Âge d’homme, p. 154.)
sicurezza. Tuttavia il narratore specifica che fino allora Sékhélé non si era mai occupato di politica, come per conferire al folle una complessità che non si limita al ruolo di contropotere del despota e che sfocia invece in un cammino ascetico.
In effetti, al mercato di Plateau Sékhélé assume le sembianze del veggente, in chiave beffarda, dacché l’anacoreta e salvatore maneggia segni cristici. Il ridicolo e il sacro intervengono a creare un effetto stridente del racconto che stimola l’analisi simbolica del personaggio : agli occhi di una madre disperata, egli è un taumaturgo in grado di miracolare il bambino malato per mezzo della vertebra divina, riportatagli però dal cane rognoso – ecco lo sberleffo ! – come tipica preda cinofila. Questo esempio di mescolanza di sacro e profano rende la lettura del racconto particolarmente ardua. Eppure, ciò che non sembra lasciar spazio a dubbi è il mistero che abita il folle fino a farlo resuscitare.
Per tre giorni consecutivi, lembi del corpo del folle sono avvistati ai margini dei mercati, contemporaneamente alla morte delle vittime del folle, tutti rappresentanti del potere (la spia, l’imprenditore disonesto e il presidente). Essi sono vittime per non aver pagato la risata che il folle ha loro procurato e per aver sottovalutato il potere del “ridere fino a morirne”. In una missiva del giugno 1980 lo stesso Tchicaya U Tam’si ammette all’amico Mambou Aimée Gnali che il personaggio, frutto delle sue recenti elaborazioni, inscena l’espressione a lui cara “J’ai le rire qui tue” che ha la doppia funzione di punire e di « éveiller ceux qui baissent la garde »105.
Stando all’intreccio, osserviamo che ogni morte di Sékhélé ingenera l’inizio di un nuovo episodio di riso al mercato. Ognuno di questi decessi è, certamente, un punto di arresto – in virtù della metafora diffusa secondo cui “la vita è un cammino” e “la condizione umana è itinerante”106 –, ma anche, e soprattutto, il punto di partenza di una nuova storia di liberazione nello spazio di scambio con la gente di Mputa (il mercato) nel quale esibirsi di volta in volta. Emblema della risata e della morte liberatorie, Sékhélé traccia un percorso preciso in cui ogni dipartita corrisponde ad una tappa dopo la quale tornare indietro per prendere una nuova direzione. Queste retrocessioni, che mimano i grandi passi indietro del gioco dell’oca, confluiscono sempre verso il “mercato del riso” – unico punto di convergenza – secondo un disegno che diciamo schematicamente “a stella”, seppur con quattro punte invece di cinque. La geometria a quattro punte, però, ricorda più prontamente la figura adoperata dagli antichi
105 Nino CHIAPPANO, op. cit., p. 87.
106 Vedi l’opera filosofica di Gabriel MARCEL, Homo Viator. Prolégomènes à une métaphysique de l’espérance,
navigatori per indicare la bussola sulle proprie mappe. E Roger Chemain ci conferma il significato simbolico della quadruplice ubicazione della salma di Sékhélé-l’œil-sec – Sékhélé : pronuncia deformata di “secret”, come se il “segreto” non dovesse essere “secreto” dall’occhio specchio dell’anima – che, ai quattro punti cardinali della città, dichiara l’irriducibilità del corpo e l’indistruttibilità dell’atto di liberazione.107 Non è un caso dunque che il vero nome di Sékhélé sia Lazzaro, in onore del corpo che rinasce. Attraverso la “trasfigurazione eroica dell’escluso”108 il riso della povera gente resuscita, insieme al demente sublimato, e ogni disonore attribuito al riso è un colpo inferto alla sopravvivenza della gente di MFoua.
Al centro del racconto, ed in linea con la poetica di U Tam’si, l’essere trionfa sul fare. Sékhélé incarna l’espressione demenziale della risata per poi manifestarne la natura divina. Per Tchicaya, La Main sèche è da leggere, da un lato, come un’introspezione terapeutica ; d’altro canto come il luogo in cui interrogarsi sulla possibile coesistenza di due « manière(s) d’être – présent ou absent – au monde »109, ovvero sulla nostra “eterna presenza”. La continuità tra la presenza e l’assenza, tra il visibile e l’invisibile è al cuore della poetica di Tchicaya U Tam’si e si carica di complessità man mano che l’erranza assorbe l’essere, come vedremo in Ces fruits si doux de l’arbre à pain.
Come Sékhélé in “Le fou rire”, il folle de Les Méduses presenta molte caratteristiche del veggente sospeso tra il mondo dei viventi e il mondo dei morti. E sappiamo quanto a Tchicaya U Tam’si stia a cuore la scrittura della superstizione, al di fuori della quale, e in una prospettiva di riscrittura della storia del Congo, non è possibile pensare la salvezza : « Pas de salut sans la superstition »110, recita una testimonianza di Tchicaya U Tam’si ; il che ci illustra il legame indissolubile tra il reale e l’invisibile che si erge a dogma nella sua scrittura. Come era il caso ne “Le fou rire”, il folle delle Méduses non cela l’ossessione dell’autore congolese per il “difetto di ombelico”, come per allarmarci sull’anello mancante della catena della Storia che stenta a condurci alle radici dell’identità. In entrambi i casi, il folle è “geneticamente isolato” : non avendo ombelico, quindi né madre né provenienza, non conosce radici. L’assenza di ancoraggio alla “terra madre” o alla “patria” scatena la diretta conseguenza
107 Roger CHEMAIN, Imaginaires francophones, Nice, Association des publications de la Faculté des lettres de
Nice, 1996, p. 123.
108 Arlette CHEMAIN, « Évolution-transfiguration de l' “exclu”», op. cit., 1999, p. 96. 109 Nino CHIAPPANO, op. cit., p. 87.
dell’erranza come carattere peculiare di questa figura : il folle è errante per pura essenza giacché, come la « droiture » del cammino rimanda alla « rectitude » morale, la deviazione trova immediata corrispondenza nella devianza. E ciò a conferma del fatto che « l’homme n’est pas seulement sur la route, il acquiert les qualités du chemin », e d’altro canto « le chemin lui-même est qualifié comme humain »111. Per tale ragione la sua erranza permane anche quando si muove sul posto (o non si muove affatto) dal momento che, come già accennato, l’erranza secondo Tchicaya U Tam’si non è più un modo di fare bensì un modo di essere.
Romanzo tra l’inchiesta politica e il racconto magico-religioso, Les Méduses ou les
orties de mer indaga sulla strana sorte di tre amici, due dei quali morti incidentati sul lavoro e
il terzo, Luambu, trovato in stato comatoso nel cimitero di Vounvou, tra le tombe degli amici Elenga e Muendo. Questa vicenda, dalla complessa costruzione, si svolge a Pointe-Noire, nella Repubblica del Congo, dove André Sola, direttore presso cui lavorava l’enigmatico Luambu, tenta di ricostruire i fatti con l’aiuto di un indovino, la cui voce è accompagnata da quella della folla, silenziosa forza impietuosa.
All’origine dell’incontro dei tre amici, v’è il folle : questo predicatore « qui a une vis de moins » (pp. 71-72) – nulla ha del “fou furieux” (p. 78) – era “apparso” ; dopodiché aveva eletto domicilio in riva al mare. Il caratteristico legame tra il folle e la folla, più volte riscontrato nei testi precedenti (The Voice, Fools, per esempio, ma soprattutto Les Crapauds-
brousse), è qui illustrato nei moniti del “fou” rivolti a qualcuno nella moltitudine che, come
tutti gli altri, fa per voltarsi cercando il suo interlocutore : «Ainsi, toi ! Ne regarde pas, ne cherche autour de toi. C’est de toi que je parle. Vas-tu renier chaque jour de ta vie ? De quelle mort sera-t-elle payée ? » (p. 75). Tremante, di freddo e prurito causato dalle meduse, elargisce avvertimenti « que les gens écoutent avec frayeur, mais qu’ils oublient après ! » (p. 77) :
« Il ne vous reste que le ventre. Votre ventre est un gouffre. Cherchez le chemin, cherchez votre cœur. Ne dites pas que vous ne saviez pas. Que je n’ai pas parlé. » (p. 77)
111 Nanine CHARBONNEL, « Homo Viator ou les dix métaphores de la marche », Cahiers de médiologie, n°2, 2ème
La critica al popolo “cannibale”, che si cruccia soltanto di riempire la propria pancia invece di premurarsi delle proprie coscienze, si alterna al gesto battesimale del folle-sacerdote che asperge i pescatori di acqua marina lanciando meduse. Il senso metaforico del lancio di meduse, il cui effetto pruriginoso è pari a quello delle ortiche, è da rintracciare nel verbo francese, méduser, che rimanda allo stordimento e allo stato di pietrificazione provocato da un gesto improvviso. La profezia del folle si realizza poi nelle reti dei pescatori, piene di sole meduse, ad indicare che « en pays Loango, il ne suffit pas d’avoir deux yeux pour dire qu’on y est en plein mystère ! » (p. 80) come per sottolineare che la percezione del mistero va ben oltre il suo avvistamento.
Il folle che Elenga soprannomina il “profeta”, riappare agli occhi dei tre amici due giorni prima dei terribili eventi. Di nuovo immerso in acqua fino alle ginocchia, predica : « Il viendra le jour où la vague ne s’arrêtera pas à vos pieds. Elle passera outre. Le père pleurera, la mère pleurera, le frère pleurera…» (p. 102), parole che hanno un forte sapore di premonizione in un paese dove l’immaginario collettivo condivide la percezione dell’al di là nell’hic et nunc : questa non esprime la mera (e innocua) superstizione della gente di Point- Noire, bensì la certezza della presenza reale dell’ultraterreno nel mondo degli umani, fatta eccezione per l’occidentale M. Martin.
La figura del folle nelle opere di U Tam’si è interamente costruita su questi due paradigmi della realtà e dell’invisibilità che non soltanto non sono in antitesi, contribuiscono anzi a completare una medesima sfera sensoriale che appartiene alla cultura Vili del romanziere e poeta. È così possibile comprendere del folle l’erranza, intesa come percorso non ordinato e non prestabilito che non tende ad una mèta precisa112, nella prospettiva di una certa “interiorità spirituale” ontologica. L’episodio della danza del folle – che affronteremo altrove in maniera più puntuale113 – è, a nostro avviso, un esempio di rappresentazione di « une danse qui n’a pas de sens, qui ne provoque pas le désir de danser, le désir tout-cout. Une danse qui donne froid dans le dos » (p. 173), ma che assume senso non appena quei movimenti disarmonici nel cerchio vengono letti alla luce di una riflessione sull’erranza, preludendo ad una ricerca di senso invisibile ad occhio nudo. Per ora ci limitiamo a segnalare l’episodio della macabra danza nel cerchio come la creazione da parte del folle di un tracciato, simile ad « un cercle parallèle au cercle d’herbes et d’algues » con l’ausilio del «gros orteil de l’autre pied qui tente de (le) décrire » (p. 172) e che accenna alla conoscenza della morte.
112 Cfr. Jean BURGOS, Le droit à l’errance in Figure dell’erranza, Roma, Bulzoni, 1991, pp. 27-28. 113 Vedi cap. 1.3.b. – Parte II ; cap. 3.3.a,b. – Parte II.
Nella percezione comune, il folle è conteso tra il giudizio dei tanti, per i quali egli è anzitutto un disturbatore della pubbliche attività, e il giudizio di poche persone, le quali vedono in lui l’emanazione di qualche verità. Tra questi pochi c’è Luambu, che con Muendo aveva assistito alla danza nella spiaggia deserta del folle. Luambu, però, si distingue nettamente dalla collettività, sia perché vittima di una strana coincidenza dei fatti accaduti – entra nel coma dopo la morte dei due amici –, sia perché egli stesso è sospettato di non essere del tutto dalla parte degli umani. Pertanto, l’accostamento tra Luambu e il folle non è forzato : il primo ha salvato il secondo da un pestaggio fatale ; e l’uno è legato all’altro da un filo invisibile che soltanto una lettura attenta dei loro comuni campi d’azione può far emergere. Da ciò nasce il sospetto del narratore che il coma di Lumbu e la stravaganza profetica del folle siano le manifestazioni di una complicità ultraterrena, tanto più che in Africa i nomi non sono frutto del caso e che il secondo nome di Luambu, Lufwa Lumbu, significa “la morte, il canto” (p. 90). Luambu, stando poi al vociferare, sarebbe quindi a tutti gli effetti un “revenant” – prodigioso alleato di Sékhélé-l’œil-sec più volte resuscitato. Dagli stessi amici, Luambu è simpaticamente definito un “revenant”, uno spettro, oppure uno stregone. Elenga canzona