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In questo paragrafo sull’espressività del folle e intorno al folle caratterizzata dall’eccesso, intendiamo mettere in luce due tendenze che ci sono parse ricorrenti nei testi analizzati, di conseguenza significative ai fini di uno studio “a campione” : l’iperbole, parola che nell’enunciazione designa l’amplificazione sproporzionata della realtà ; e l’accentuazione iperbolica di pochi tratti stilizzati nel ritratto del folle, fino alla caricatura e alla creazione dello stereotipo. Le due forme intervengono per dire la deformazione qualitativa dell’espressione del folle nella misura in cui le forme di esagerazione da lui e per lui adoperate qualificano la parola o l’espressione per eccesso o per difetto, come vedremo.

Ci soffermeremo maggiormente sui testi che appaiono, a nostro avviso, più eloquenti nel manifestare tali caratteristiche. Ma se da un lato esse permettono di determinare dei tratti comuni di un certo tipo di discorso “eccentrico” ed “esuberante”, d’altro canto sono insufficienti per stabilire una vera e propria patologia discorsiva – ambizione molto diffusa presso gli studiosi del “discorso patologico” – che appare piuttosto come un « postulat dont la vérification concrète et scientifique pose problème. »2 Largamente d’accordo, linguisti e studiosi delle anomalie del linguaggio di malati mentali sostengono che « la quantification des altérations linguistiques, à quelque niveau que ce soit, est impuissante à rendre compte de l’évidence clinique d’une perturbation du langage »3 ; non esisterebbe quindi un linguaggio prettamente schizofrenico, denotativo del soggetto “anormale”. Ciò ci rassicura nei nostri intenti poiché, come più volte ribadito, non miriamo a definire o stabilire i tratti e le espressioni della follia intesa come patologia, bensì come fenomeno letterario caratterizzato da un sistema di modulazioni espressive ricorrenti.

1 Vedi Dominique MAINGUENAU, Manuel de linguistique pour les textes littéraires, Paris, Armand Colin, coll.

Linguistique, 2010, pp. 323-335.

2 Prosper Comlan DEH, La folie à l’œuvre dans la littérature africaine, thèse de doctorat Lille III, 1991, p. 57. 3 Ruth MENAHEM, Langage et folie. Essai de Psycho-Rhétorique, Belles Lettres, coll. Confluents

a. La parola iperbolica del folle e l’ironia

Secondo la retorica classica, l’iperbole (der. lat. hyperballo) significa “lanciare oltre”, ovvero designare un oggetto o concetto di gran lunga distante dalla realtà. L’eccesso semantico che caratterizza l’iperbole può essere inteso sia in senso accrescitivo sia in senso riduttivo. L’amplificazione e l’ingigantimento sono indubbiamente le forme favorite dei folli dei nostri testi. Ciò è tanto più vero quanto più si consideri la follia come configurazione dell’eccesso. Prosper Comlan Deh ci ricorda che lo stesso Bourdieu4 designa l’iperbole come una “strategia narrativa” tramite la quale lo scrittore adempie il bisogno di presa sulla realtà : per lui l’iperbole è in assoluto la prefigurazione dell’eccedenza, quindi della follia.

La parola iperbolica del folle convoca la questione dell’enunciazione – ovvero della presenza del parlante nell’enunciato attraverso segni di demarcazione – designata giustamente da Kerbrat-Orecchioni come “sempre soggettiva”5. In generale, i tratti più palesi che permettono di attribuire l’enunciazione al folle sono i pronomi in prima persona e la narrazione degli eventi come appena avvenuti o nel loro sviluppo presente, affermando una certa coincidenza – o vicinanza – tra la storia e la narrazione. Il bevitore di Amos Tutuola è l’unico narratore di The Palm-wine drinkard che parla di sé – perciò detto autodiegetico, secondo la terminologia di Genette – e che non tenta mai di dissimulare la narrazione del proprio viaggio nella boscaglia alla ricerca del tiratore di vino di palma. Allo stesso modo, il matto in Thalès-le-fou narra in prima persona gli aneddoti e le piccole vicissitudini nella “fittizia” Repubblica del Jolof ; e, anche Ali Kaboye nella seconda parte di Les Petits de la

guenon è narratore omodiegetico che descrive gli ultimi istanti di vita del vecchio Nguirane

Faye6. Nei casi citati, la narrazione in prima persona del folle dall’inizio alla fine – se non dell’intero romanzo almeno di gran parte, vedi Les Petits de la guenon –, non può essere accostata al romanzo behaviourista in cui, come ricorda Genette, il segno dell’enunciazione scompare a vantaggio della storia7, in quanto qui la presenza soggettiva del narratore è sempre molto forte. Però il “colmo di oggettività”8 che caratterizza questo tipo di romanzo citato da

4 Bourdieu citato da Prosper Comlan DEH, op.cit., p. 205.

5 Catherine KERBRAT-ORECCHIONI, L’Enonciation, Paris, Armand Colin, 1999.

6 Nel capitolo successivo si vedrà come Boubacar Boris Diop giochi con il ruolo della persona narrativa

nell’analisi del discorso : il folle, da personaggio cambia il suo status non appena scompare dalla storia come personaggio, diventando narratore omodiegetico in maniera non costante (a volte non è implicato nella storia). Cfr. Capitolo 2 – Parte II.

7 Gérard GENETTE, tr. it., Figure III, Torino, Einaudi, 1976, p. 266. 8 Ibid.

Genette, coinvolge l’enunciazione dei nostri folli non appena essi riproducono gli avvenimenti accaduti anteriormente nello stile diretto. Il romanzo Thalès-le-fou abbonda di questi esempi di “racconto puro” (o “diegesi” in senso platonico), o ancora, calcando Genette, di “racconto di parole”, in cui la storia è riportata in stile diretto, narrativizzata. Uno tra tanti, in guisa di dimostrazione :

« Nous nous sommes levés, moi, mes haillons et ma colère comme un seul homme et je me suis mis devant eux près de Madou. Je leur ai parlé, cependant, calmement.

- Moi Thalès, je n’aime pas qu’on s’en prenne au président démocratiquement élu de notre République démocratique. Moi Thalès, je n’aime pas les révolutions de salon et les mouvements subversifs. Moi Thalès, je n’aime pas qu’on accuse injustement un homme juste. […] » (Thalès-le-fou, p. 29)

Questo è tra i casi di enunciazione che può dirsi “oggettiva” nella misura in cui mancano le caratteristiche distorsioni degli avvenimenti riportati ; ed è ciò che consente a Kerbrat-Orecchioni di sottolineare l’ambiguità dei termini “oggettivo” e “soggettivo”9 riferiti ai cosiddetti deittici, i segni rimarcatori del contesto enunciativo. Questi sono oggettivi poiché non sottostanno al vaglio dell’interpretazione : la pseudo-difesa che Thalès fa del presidente, sorretta dal solenne “Moi Thalès”, non è mediata dal discorso riportato ; dobbiamo quindi assumerlo per com’è stato davvero pronunciato nell’anteriorità temporale. Allo stesso tempo i numerosi “moi” di Thalès, sono deittici portatori di soggettività in riferimento alla definizione stessa di enunciazione secondo Kerbrat-Orecchioni10. Tale osservazione sull’enunciazione del folle narratore è per noi di primaria importanza poiché rende conto della complessità dell’atto dell’enunciazione quando questa interessa un personaggio che per definizione sarebbe inaffidabile. In un certo senso, assistiamo alla regola paradossale che detta il folle attraverso la sua enunciazione : « Puisque je suis le fou du village, je raconte des conneries à longueur de journée » (Thalès-le-fou, p. 16) dice trivialmente Thalès, preannunciando il proprio potere enunciativo in quanto locutore.

Se il compromesso della comunicazione letteraria consiste nel consenso del narratario che si lascia condurre dal “meneur de jeu” e se il narratore è il folle, è allora necessario

9 Cfr. Catherine KERBRAT-ORECCHIONI,op. cit., pp.165-168. 10 Ivi, p. 41. Per i diversi tipi di deittici vedi pp. 45-62.

assecondare le regole del folle affinché il racconto abbia luogo. In altri termini, la soggettività insita nell’atto del racconto diviene un dato di fatto inconfutabile e oggettivo poiché si spaccia per vero11 ; così la classica concezione di oggettività nel modo narrativo come « mascage du sujet d’énonciation » e come « effacement du sujet parlant entre en conflit avec une autre conception de l’objectivité : un énoncé objectif, c’est aussi par fois un énoncé conforme à ce que l’on estime être la réalité des choses. » (Ibid.) Davanti a questo racconto di cui non possiamo mettere in discussione il grado di fedele riproduzione della realtà o di invenzione, la nostra posizione di allocutari è per lo più limitata : non ci resta che credere a tutto ciò che il folle dice, oppure filtrare le sue affermazioni con gli strumenti di cui disponiamo. In definitiva, e in virtù del doppio aspetto soggettivo e oggettivo dell’enunciazione, il folle può dare libero sfogo alla propria espressività eccentrica – che abbiamo chiamato di proposito la “parola errante”.

Com’è evidente, l’eccentricità emerge anzitutto negli appellativi che questi folli narratori danno di loro stessi. Così il bevitore di Tutuola non esita a presentarsi come il “Father of gods who could do everything in this world”, rammentando, spesso e volentieri, i propri poteri sovrannaturali. In modo analogo il folle Thalès nel romanzo di Sémou Mama Diop si presenta sotto le vesti del filosofo Talete paragonandosi per giunta al Creatore quando dice, come in un refrain, « je fais de la création littéraire comme Dieu Le Bon la Création de la Terre » (Thalès-le-fou, pp. 91, 93 ; cf. p. 34). Come il bevitore, è anch’egli un essere dotato di poteri paranormali ; la vicinanza alle capacità divine sono confermate dalla sua « longue expérience chez les humains » e dal suo « long séjour chez les humains » (Thalès-le-fou, p. 120) – come se egli non appartenesse agli esseri umani. Infine anche Ali Kaboye in Les Petits

de la guenon potrà sapere dove si trova l’amatissimo Badou, di nascosto dal nonno Nguirane,

grazie ai suoi presunti doni di onnipresenza e di ubiquità :

« […] moi, Ali Kaboye, je suis le seul à qui il soit donné de traverser les âges et les océans ? J’entends tout. Je vois tout. Les siècles passés et à venir somnolent sous mon crâne et à mon commandement ils se lèvent et viennent se coucher à mes pieds. » (Les

Petits de la guenon, p. 402)

In The Palm-wine drinkard l’ossessione per la precisione dei numeri e delle cifre è un altro esempio di minuzia iperbolica tramite cui il bevitore intende conferire (troppa)

verosimiglianza a eventi pressoché assurdi, o per lo meno difficili da riprodursi nella realtà. Il suo guadagno, dopo una giornata passata a trasportare passeggeri da una riva all’altra del fiume – non come piroghiere bensì come piroga ! – è di £7:5:3d al giorno, £56:11:9d in totale12 – fissando persino un tariffario per i passeggeri. L’esagerazione della parola del folle (dal lat. ex-aggere, fuori dell’argine ; o exaggeràre, ammassare a guisa d’argine), intesa come abbondanza semantica e amplificazione delle cose tramite l’uso sovrabbondante di parole, provoca, tra l’altro, un effetto di stridore quando accostato a concetti astratti, pratica per nulla rara presso il bevitore di Amos Tutuola :

« Before we entered inside the white tree, we had “sold our death” to somebody at the door for the sum of £70:18:6d and “lent our fear” to somebody at the door as well on interest of £3:10:0d per month, so we did not care about death and we did not fear again. » (The Palm-wine drunkard, p. 247)

L’esasperazione dei dettagli non funzionali allo svolgimento della storia, di cui abbiamo dato un esempio eclatante, caratterizza il racconto del bevitore : alcuni eventi sono oltremodo dilatati per eccesso di dettagli che si protraggono per diverse pagine ; altri eventi sono compressi in una frase e liquidati in poche righe. In tal modo, è riprodotta l’ebbrezza della logica del bevitore che non conosce misure espressive, al contrario le mette a dura prova.

Ci siamo riferiti alla parola dell’eccesso pronunciata dal folle laddove questo è locutore principale, ovvero narratore che racconta in prima persona (The Palm-wine

drinkard ; Les Petits de la guenon ; Thalès-le-fou). Ma un riferimento al folle protagonista che

compare in « Le fou rire » di Tchicaya U Tam’si può essere utile per rintracciare una sfumatura nel discorso iperbolico tenuto dal folle. Tchicaya U Tam’si, noto per produrre numerose confusioni di voci, dà un esempio di sovrapposizione fra il discorso del personaggio Sékhélé e quello del narratore. Tale confusione non ci permette più di attribuire con certezza le espressioni iperboliche al folle. Ora è il narratore a prendersi carico del pensiero del folle, assumendosene il rischio “interpretativo” :

« Son regard s’arrêta sur l’une (tête), qui était celle d’un homme qui avait un foie de requin et une panse de buffle borgne. Cette tête-là suait du sang et ses paupières

étaient lippues. Il lui reconnut un appétit de sanglier qui supporte mal le veuvage. Il se dit : le voilà ! Tout le monde était dans l’étonnement. “On y va !” » (« Le fou rire », p. 86)

Questo breve passo condensa diversi strati del discorso di Sékhélé che non si distingue nettamente dal racconto del narratore, mostrando fino a che punto la parola errante del folle sia difficile da circoscrivere al personaggio presentato come tale. Il contenuto del discorso non lascia dubbi sull’effetto di sovrabbondanza che viene dato di questo ispettore preso di mira dal folle. L’addome traboccante, sul quale viene posto l’accento fino all’estenuazione, incrementa l’effetto peggiorativo dell’omone trasudante di bruttura, appesantito dalla « panse de buffle borgne » e da connotati decisamente sproporzionati come le « paupières lippues ». Le similitudini qui slittano in iperboli accrescitive – « foie de requin », « panse de buffle borgne », « appétit de sanglier » – ; e l’abbondanza carnale investe del tutto quest’uomo fino ad identificarlo, per metonimia, all’ « homme à la panse de buffle borgne » o all’ « homme au foie de requin » (« Le fou rire », pp. 89-91). Inoltre, l’effetto di dilatazione si accresce ulteriormente nel contrasto con il ruolo dell’agente che è di spiare i commercianti al mercato, ruolo che richiama la discrezione e l’infinitamente piccolo. Il linguaggio iperbolico è evidentemente attribuibile al folle Sékhélé, come confermano le sue successive imitazioni grottesche, sebbene non sia reso esplicito dalle tipiche formule del discorso riferito (disse, riferì, pensò…). Tramite questo procedimento è assicurata la soggettività dell’enunciazione che ha finora caratterizzato il discorso diretto e il racconto in prima persona del bevitore, di Ali Kaboye e di Thalès ; d’altro canto è salvaguardato il potere di oggettività che è proprio di ogni discorso “non riferito”.

Ancora, la soggettività enunciativa è peraltro confermata dai due punti in : « Il se dit : le voilà ! » in cui il narratore non assume su di sé il pensiero di Sékhélé, ovvero non lo “interpreta”, ma attribuisce al folle l’esclamazione dando il via al degradante spettacolo e aizzando poi il pubblico. Ecco un esempio di slittamento da un piano all’altro del discorso, quindi di manipolazione della distanza tra l’enunciazione e l’enunciato, che permette al folle di deformare la realtà parlando alla prima persona o servendosi sinuosamente della voce del narratore.

All’iperbole si accostano altre forme dell’espressione che si distinguono dalle figure di senso per via della maggiore complessità espressiva non più derivante dalla parola bensì dal

pensiero13 : l’ironia – figura di pensiero – costituisce un esempio di « double langage »14 poiché dotato di un senso proprio e di un senso figurato, il secondo dei quali rimanda alla verità quanto il primo al suo contrario. Ovvero, come ricorda Battistini, « l’iperbole si pone anzitutto come spartiacque tra i tropi in una sola parola o “propri” e i tropi in più parole o “impropri” di Lausberg ; all’interno di questi ultimi fa da trait d’union tra le figure d’espressione per finzione (personificazione, allegoria, mitologismo, ecc., e le figure d’espressione per opposizione (preterizione, ironia, litote, antifrasi) […] »15. Negli esempi che seguono si assiste a una specie di forzatura “iberbolica” dell’ironia.

Nella celebre scena citata in The Palm-wine drinkard in cui il bevitore con la moglie vendono la propria morte per non averne più paura, siamo oltre alle figure di senso e ai tropi racchiusi in parole. La scena mostra una combinazione di precisione iperbolica, distante dalla verosimiglianza, di concetti astratti come la morte o la paura quantificati in denaro – fino ai minimi centesimi ! –, dando così vita al paradosso semantico che cela un senso ironico. La descrizione smisuratamente precisa provoca l’effetto di « drôlerie » rafforzata dal « présupposé idéologique “para-doxal” »16 di cui è prova l’assurdo commercio della morte e la locazione della paura – altrettanto ridicola – entrambi contestatari del « soubassement idéologique » dell’enunciato che, per definizione, presuppone la condivisione almeno degli interlocutori se non dell’intera comunità linguistica. Questa “doxa” – codice condiviso – viene violata a fini burleschi e provocatori non appena lo scopo del narratore non sia più soltanto di far ridere bensì di imbarazzare il lettore. Ciò avviene quando quest’ultimo recepisce, sul piano figurato, la portata ironica della « manœuvre stylistique » o « ruse langagière » (così rispettivamente Ducrot17 e Kerbrat-Orecchioni18) che diviene sempre più esplicita nella visione d’insieme dell’opera.

Un esempio palese in questo senso lo rintracciamo in Thalès-le-fou. Il passo citato all’inizio del paragrafo a proposito della “tirannia dell’enunciazione” tramite cui il parlante detta le regole del rapporto tra narratore e narratario, mostra già l’intento ironico attraverso il quale Thalès loda il presidente per calpestarlo meglio. È l’integrità di quest’ultimo che viene chiaramente messa in discussione, anzitutto nell’uso ripetuto dell’avverbio

13 Olivier REBOUL, La Rhétorique, Paris, PUF, « Que sais-je ? », n° 2133, 1984, p. 55. 14 Ibid.

15 Andrea BATTISTINI, Retorica e critica letteraria, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 86. 16 Caterine KERBRAT-ORECCHIONI, L’Énonciation, cit., p. 209.

17 Oswald DUCROT, Dire et ne pas dire. Principes de sémantique linguistiques, Paris, Hermann, 1972, citato da

KERBRAT-ORECCHIONI, op. cit.. p. 209, nota 2.

“démocratiquement” continuamente associato al presidente eletto della Republique démocratique du Jolof. Nella tanto lunga quanto fasulla apologia del presidente, Thalès ripercorre la storia delle nomine istituzionali facendo ampio uso del lessico della povertà : il figlio del presidente abbandona tutto per « venir se sacrifier pour sa patrie », con un « triste poste de conseiller spécial » (Thalès-le-fou, p. 30) ; lo stesso vale per la figlia e il nipote, entrambi beneficiari di « maigres avantages » (Thalès-le-fou, pp. 30-32). Lo sforzo necessario per carpire l’ironia è pressoché nullo ; ed è su di essa che Sémou Mama Diop basa totalmente la propria opera di contestazione politica, da cui il facile smascheramento da parte delle autorità che tutt’ora intralciano la circolazione del libro in Senegal.

Come si sa, l’ironia può essere veicolata da una parola, un’espressione, un episodio e persino dall’intera opera. Essa giunge al suo parossismo nelle opere più recenti del nostro corpus come Thalès-le-fou, dove il folle-narratore è, in fin dei conti, l’unico, nel suo contesto situazionale, a procedere alla creazione di qualcosa (l’opera letteraria) invece che alla sovversione o distruzione, come ci si aspetterebbe da un folle. Anche Les Petits de la guenon è un esempio di macroscopia dell’ironia : Ali Kaboye è l’unico in grado di dare consigli ragionevoli al presidente Daour Diagne19 il quale approva i consigli del folle Ali Kaboye : « Ne me déçois pas, Ali… J’ai foi en ta sagesse. »20 In definitiva, rispetto all’intera economia del romanzo, egli è detentore fidato della storia del quartiere Niarela affidatagli dall’anziano Nguirane ; e la sua rettitudine è addirittura esternata nel testo :

« J’écoutais Daour Diagne me raconter de croustillantes anecdotes à propos des présidents étrangers. Certains de ces présidents étrangers – je ne peux pas te donner de nom, Badou, je l’ai promis à Daour Diagne – sont d’une incroyable stupidité. » (Les

Petits de la guenon, pp. 343-344)

Difatti Ali Kaboye non ci farà mai alcuna confidenza sui nomi di questi sciocchi presidenti stranieri che ha promesso a Daour Diagne di non svelare. Allo stesso modo, alla fine del romanzo, abbiamo conferma dell’affidabilità di Ali Kaboye il quale non rivela nulla né sul contenuto né sull’ubicazione del Livre des secrets che il vecchio Nguirane gli ha chiesto di nascondere perché soltanto Badou possa un giorno leggerlo21. Non è casuale da parte nostra l’uso di aggettivi “ragionevole” e “fidato”, piuttosto insoliti se associati alla

19 Vedi il passo citato nel cap. 3 – Parte I. Boubacar Boris DIOP, Les Petits de la guenon, cit., pp. 337-339. 20 Ivi, p. 339.

figura del folle. Se ne deduca che l’intento ironico di Boubacar Boris Diop e di Sémou Mama Diop è di fare ampio uso del modello della “saggezza del folle” al fine di sottoporre il suo linguaggio alle diverse possibilità retoriche, fino a scovarne i varchi simbolici che oltrepassano l’ironia per insediarsi in forme retoriche più complesse.22