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Le decisioni relative alla fine della vita.

NELLA CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI E NELLA GIURISPRUDENZA DI STRASBURGO

3. Le decisioni relative alla fine della vita.

Profili particolarmente delicati sono correlati anche alla questione relativa alla possibilità di individuare un limite, oltre il quale, la tutela della vita debba necessariamente arrestarsi.

Partendo dall’idea che il diritto di rifiutare un trattamento medico sia «una puntuale estrinsecazione del diritto alla propria integrità fisica, e alla propria stessa dignità personale»236, si può riconoscere al singolo individuo il diritto di fine vita? È possibile che ciascuno, consapevolmente, possa individuare una soglia oltre la quale avere il diritto di porre fine ad un’esistenza ormai non più dignitosa237, oppure dall’art 2 della CEDU discende l’esigenza di tutelare la vita per il valore oggettivo che esprime e ciò anche contro la volontà del

       

235 F.BESTAGNO, sub art 2, diritto alla vita, op. cit., p. 56.

236 F.VIGANÒ, Riflessioni sul caso Englaro, in Dir. pen. proc., 8/2008, p. 1040 ss.; A.VALLINI,

Rifiuto di cure “salvavita” e responsabilità del medico: suggestioni e conferme dalla più recente giurisprudenza, in Dir. pen. proc., 2008, 73.

237 In argomento, ex multis, cfr. L. RISICATO, Dal “diritto di vivere” al “diritto di morire”.

Riflessioni sul ruolo della laicità nell’esperienza penalistica, Torino, 2008; D.PULITANÒ, Doveri

del medico, dignità del morire, diritto penale, in Riv. it. med. leg., 2007, 1217 ss; ID Diritti umani

e diritto penale, op. it., 1629 ss. ; A.TARUFFO, Rifiuto di cure e doveri del medico, in Riv. it. dir.

proc. pen., 2008, 467; F. VIGANÒ, Esiste un “diritto ad essere lasciati morire in pace”?

Considerazioni in margine al caso Welby, in Dir. pen. proc., 1/2007; ID, Decisioni mediche di fine

titolare dello stesso diritto?

Dall’angolo visuale del penalista, l’interpretazione più o meno estensiva data all’art 2, potrebbe mutare totalmente anche le stesse scelte di politica criminale. Se del diritto alla vita venisse fornita un’interpretazione estensiva, volta a comprendere anche il diritto di porre liberamente termine alla propria vita, allora una repressione penale delle pratiche di eutanasia potrebbe risultare incompatibile con la protezione del diritto alla vita ex art 2; «viceversa, qualora si ritenga che la tutela del diritto alla vita ex art 2 si estenda al punto da obbligare lo Stato alla salvaguardia incondizionata del bene della vita, anche nei confronti di soggetti in stato di malattia terminale che volontariamente intendano porre fine alla propria esistenza, tale regolamentazione penale potrebbe sembrare non solo legittima, ma addirittura doverosa in ordine al pieno rispetto dell’art 2 CEDU».238

Anche rispetto a queste tematiche, la Corte europea dei diritti dell’uomo non ha ancora adottato una posizione precisa. Le questioni prospettate fino ad ora si collocano lungo due direttrici: da un lato sono stati affrontati casi di eutanasia passiva, dall’altro lato, invece, casi di suicidio assistito.

La tematica della c.d. eutanasia passiva, relativa a casi in cui

       

venga disposta l’interruzione dei trattamenti medici vitali con conseguente decesso del paziente determinato dal progredire naturale della patologia, è stata affrontata per la prima volta a Strasburgo nell’ambito del caso Burke c. Regno Unito239.

Il ricorrente era un soggetto affetto da una malattia degenerativa che l’avrebbe presto condotto allo stato vegetativo. Nel ricorso, lamentava l’incompatibilità della disciplina in vigore nel Regno Unito relativa all’interruzione delle cure vitali con l’art 2 CEDU.

In particolare, sosteneva che per la struttura ed il contenuto delle norme interne vi fosse il rischio che i medici qualora avessero ritenuto gli svantaggi del trattamento superiori ai vantaggi, avrebbero potuto decidere di interrompere la nutrizione e l’idratazione artificiale.

La Corte dichiarò manifestamente infondato il ricorso, sottolineando invece come il diritto inglese disciplinasse la materia in modo da tutelare i diritti fondamentali del paziente. Era prevista, infatti, una forte presunzione a favore del prolungamento della vita ove possibile, e venivano disciplinate rigorosamente le modalità nel rispetto delle quali i medici avrebbero potuto procedere all’interruzione dei trattamenti vitali.

Nel caso di paziente cosciente si prevedeva, infatti, che egli

       

manifestasse in modo esplicito la volontà di interrompere il trattamento; nel caso di paziente in stato vegetativo, i medici avrebbero dovuto tener conto della volontà che lo stesso eventualmente avesse precedentemente espresso, della volontà dei suoi familiari e delle opinioni di altro personale medico. In ogni caso, qualora all’esito delle valutazioni sulla sussistenza di una volontà consapevole fossero residuati dei dubbi, sarebbe stato necessario rivolgersi al giudice per ottenere l’autorizzazione.

Nel 2008, la Corte, nel caso Ada Rossi ed altri c. Italia240, colse

l’occasione per affermare un principio di portata molto più ampia rispetto a quanto affermato nel caso Burke: sottolineò, infatti, come nessun trattamento medico potesse essere imposto contro la volontà del paziente, direttamente espressa ovvero, nel caso di incapacità, espressa attraverso un suo rappresentate legale.

Il caso Ada Rossi ed altri rappresenta l’ultima tappa della dolorosa vicenda giudiziaria che ebbe come protagonista Eluana Englaro, giovane donna, in stato vegetativo da 17 anni a causa di un incidente stradale, ed il padre, nominato suo tutore giudiziario nel 1996. In tale ruolo, a fronte dell’irreversibilità delle condizioni della figlia, aveva avviato una serie di procedure di volontaria giurisdizione

       

volte ad ottenere l’interruzione della terapia di sostegno vitale. Dopo un iter giudiziario particolarmente travagliato, che approdò anche in Cassazione241, la Corte d’Appello di Milano, nel 2008, autorizzava l’interruzione dei trattamenti di sostegno242.

Il caso giungeva alla Corte europea in modo abbastanza anomalo: i ricorrenti, infatti, erano privi di qualsiasi tipo di legame con la famiglia Englaro; si trattava di soggetti che, a loro volta, erano tutori di altre persone in stato vegetativo permanente e di associazioni di familiari di altri individui gravemente disabili.

Il motivo per cui avevano ritenuto opportuno agire dinanzi alla Corte, lamentando la violazione dell’art 2, era legato allo scopo di poter impedire che in futuro vi potessero essere altre procedure di interruzione dei trattamenti vitali a danno di persone gravemente malate o comunque in condizioni di salute simili a quelle di Eluana Englaro. I motivi per cui la Corte ritenne irricevibile il ricorso sono assolutamente evidenti: la Corte sottolineò, a tal riguardo, come le decisioni dei giudici italiani non fossero destinate ai ricorrenti, negando loro, pertanto, ai sensi dell’art 34 CEDU, la qualità di vittime

       

241 Cass. sez. civ., 16 novembre 2007, in Foro it., 2007, I, 3025, nonché in Riv. it. dir. proc. pen.,

2008, 384 ss. con nota di M.C.BARBIERI, Stato vegetativo permanente: una sindrome “in cerca di

un nome” e un caso giudiziario in cerca di una decisione. I profili penalistici della sentenza Cass. 4 ottobre 2007, Sez. I civile sul caso Eluana Englaro.

242 In argomento, F.VIGANÒ, Riflessioni sul caso Englaro, op. cit., p. 1035 ss; S.SEMINARA, Le

della violazione lamentata.

In tempi più recenti, la Grande Camera con la sentenza Lambert

e altri c. Francia ha sancito la compatibilità della disciplina francese

relativa alla materia in esame, valorizzando tre fondamentali elementi: l’esistenza di una normativa capace di disciplinare il “diritto di morire” in modo chiaro, senza superare i limiti alla discrezionalità che, nella materia, vengono concessi agli Stati; il coinvolgimento diretto dei familiari nel procedimento che porterà alla decisione di interrompere i trattamenti vitali ed infine la disponibilità di vie interne di ricorso per il riesame in sede giurisdizionale della decisione interruttiva.243

Sulle tematiche del suicidio assistito244, la Corte europea ha avuto modo di pronunciarsi con maggiore frequenza. Il leading case, in materia, è rappresentato dal caso Pretty c. Regno Unito. 245

Dianne Pretty era affetta da sclerosi laterale amiotrofica,

       

243 C. eur. dir. umani, grande camera, 5 giugno 2014, Lambert e altri c. Francia, § 149-182; Cfr. S.

ZIRULIA,sub art 2, Diritto alla vita, in G.UBERTIS-F.VIGANÒ ( a cura di ), Corte di Strasburgo e

giustizia penale, Torino, 2016, p 61 ss.

244 Sui diversi tipi di eutanasia, cfr. S. CANESTRARI, Le diverse tipologie di eutanasia: una

legislazione possibile, in Rivista italiana di medicina legale, 2003, pp. 751 ss.; F.GIUNTA, Il

morire tra bioetica e diritto penale, in Politica del Diritto, 2003, pp. 553 e ss.; F.MANTOVANI,

voce Eutanasia, in Digesto delle discipline penalistiche, Vol. IV, Torino, 1990, pp. 425.

245 C. eur. dir. umani, 29 aprile 2002, Pretty c. Regno Unito. In argomento, cfr. L. GAUDINO, Il

caso Pretty: il problema del “right to die with dignity” davanti alle Grandi Corti di common law,

in Resp. civile e prev., 2002, p. 1239 ss; R.BIFULCO, Esiste un diritto al suicidio assistito nella

CEDU? , in Quad. costituzionali, 2003, p. 166 ss.; V.FRANCOLINI, Il dibattito sull’eutanasia tra

Corte europea e giurisprudenza interna, in Dir. di fam. e delle persone, 2002, pp. 813; F.

INTRONA, Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso di Diane Pretty c. Governo Britannico , in

patologia che l’aveva paralizzata dal collo in giù. Perfettamente lucida e in piena capacità di intendere e volere, aveva deciso di porre fine alla sua vita. Per realizzare questo obiettivo, a causa della sua grave disabilità, avrebbe dovuto ricorrere all’aiuto del marito.

Per la legislazione inglese, tuttavia, se il marito si fosse attivato per agevolare il suo suicidio, sarebbe stato incriminato a titolo di “aiding and abetting suicide” ai sensi del Suicide Act del 1961; per queste ragioni, la Sig.ra Pretty si era rivolta, preliminarmente, alle autorità inglesi chiedendo a priori che il marito non venisse perseguito penalmente.

Vistasi rifiutare l’immunità, si rivolgeva alla Corte europea, lamentando la violazione degli artt. 2, 8, 9 e 14 CEDU.

Nel ricorso, si sosteneva che le norme che prevedevano la responsabilità penale in capo a chi avesse agevolato il suicidio di un altro individuo fossero contrarie all’art 2, che interpretato estensivamente, avrebbe potuto far confluire nel suo ambito di operatività anche il diritto di fine vita.

Proprio quest’argomentazione non convinse la Corte che escluse nettamente che dall’art 2 potesse derivare il diritto di avvalersi del suicidio assistito, non occupandosi la stessa norma di questioni che avessero a che fare «with the quality of living or what a person

chooses to do with his or her life»246. La Corte coglieva l’occasione per precisare come il diritto a rifiutare qualsiasi trattamento medico dovesse rientrare nell’ambito dell’art 8 CEDU. Ecco che, pertanto, dal caso Pretty in poi tutti i ricorsi in materia si incentrarono sempre sull’art 8, confermando che la scelta su come morire attenga alla “vita privata” e non alla “vita in sé”.

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