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La legislazione sull’acqua tra la fine dell’età repubblicana e l’avvento di

2.   Campi e problematiche di studio

2.3.   La gestione dell’acqua nel diritto romano

2.3.1.   La legislazione sull’acqua tra la fine dell’età repubblicana e l’avvento di

Frontino, curator aquarum a Roma nel 97 d.C., consacra una parte del suo manuale De aquaeductu urbis Romae agli aspetti legislativi dell’approvvigionamento idrico della città di Roma dall’età repubblicana fino alla sua epoca. Egli elenca i doveri dei vari membri della cura aquarum e illustra la maniera in cui questo controllo veniva esercitato.

Nei capitoli 94-97 Frontino compie un breve excursus sulla legislazione anteriore ad Augusto, quando le regole erano organizzate diversamente e forse più rispettate. Egli sottolinea come per i suoi antenati l’interesse per la cosa pubblica fosse più importante delle esigenze dei privati302. In età repubblicana l’acqua era infatti gestita ed amministrata dalla magistratura – in genere dai censori, ad eccezione dell’Aqua Marcia – ed erogata unicamente per uso pubblico:

Sequitur ut indicemus quod ius ducendae tuendaeque sit aquae, quorum alterum ad cohibendos intra modum impetrati beneficii privatos, alterum ad ipsorum ductuum pertinet tutelam. In quibus dum altius repeto leges de singulis aquis latas, quaedam apud veteres aliter observata inveni. Apud quos omnis aqua in usus publicos erogabatur et cautum ita fuit: "Ne quis privatus aliam aquam ducat, quam quae ex lacu humum accidit" ( haec enim sunt verba legis ) id est quae ex lacu abundavit; eam nos caducam vocamus. Et haec ipsa non in alium usum quam in balnearum aut fullonicarum dabatur, eratque vectigalis, statuta mercede quae in publicum penderetur.

Aliquid et in domos principum civitatis dabatur, concedentibus reliquis303.

302 Frontin., Aq. 94-97; Dessales 2013, pp. 226-227; Kleijn 2001, pp. 93-94.

303 Frontin., Aq. 94: “Mi resta da esporre quale sia la normativa sulla derivazione e sulla tutela dell’acqua:

la prima ha lo scopo di disciplinare l’utilizzo dei privati entro i limiti della concessione ottenuta, la

L’utilizzo dell’acqua da parte di privati cittadini poteva dunque avvenire solo per concessione o vendita da parte dei censori o degli edili. La sola acqua utilizzabile da tutti era l’aqua caduca304, ovvero quella che tracimava dalle vasche delle fontane, utilizzabile solo per le terme e le fullonicae dietro pagamento di un canone d’uso. Le sole acque private erano quelle situate in terreni privati o derivate da corsi pubblici dietro concessione. In genere l’autorizzazione alla derivazione (ductio o ius aquae publicae ducendae) delle acque a scopo privato era concessa per attività di pubblica utilità, come la navigazione, la pesca o l’irrigazione dei campi.

Erano pubbliche invece le acque che scorrevano o si trovavano nell’ager publicus e le sorgenti che alimentavano un acquedotto. Anche il terreno nel quale veniva fatto passare un acquedotto diventava pubblico: nel caso in cui il proprietario si rifiutasse di vendere il proprio terreno, questo veniva espropriato, con la possibilità di riacquistarlo una volta stabiliti i nuovi confini. I proprietari dovevano poi consentire che nel loro terreno fossero estratti i materiali necessari alla riparazione dell’acquedotto, oltre al libero passaggio sul loro terreno degli addetti alla manutenzione305.

Nel 33 a.C. Agrippa ricoprì l’ufficio di aedilis curulis, occupandosi principalmente della questione dell’approvvigionamento idrico della città di Roma.

Nella sua riforma del sistema di distribuzione dell’acqua pubblica, egli esautorò progressivamente i censori dalla cura aquarum accentrandola nelle proprie mani.

Agrippa avrebbe inoltre ripartito la distribuzione dell’acqua tra l’opera publica, i munera, i lacus, la famiglia imperiale e i privati cittadini306.

Alla sua morte nel 12 a.C., la sua opera fu proseguita da Augusto stesso, il quale decise di trasferirla sotto il controllo del princeps307. Quest’ultimo istituì una sorta di ufficio sotto la responsabilità del curator aquarum publicarum, che veniva nominato dall’imperatore previo consenso del senato, e da cui dipendevano degli ausiliari definiti

seconda quello di tutelare i condotti stessi. Risalendo indietro nel tempo alle leggi emanate sui singoli acquedotti, ho riscontrato nell’antichità alcune diposizioni diverse dalle attuali. Nei tempi andati tutta l’acqua era erogata per uso pubblico, con la seguente prescrizione: “nessun privato prelevi altra acqua se non quella che è caduta a terra dal bacino” – queste sono le parole di tale legge - : cioè l’acqua che è traboccata dal bacino e che noi chiamiamo “caduca” (Trad. Del Chicca 2004, p. 81).

304 Grimal 1984, p. 90, n. 99; Bruun 1991, p. 110; Maganzani 2004, p. 199; Dessales 2013, p. 227.

305 Pace 2010, pp. 188-189.

306 Frontin. Aq. 98.2.

307 Frontin. Aq. 98-99. Sull’evoluzione di quest’amministrazione cfr. Bruun 1991, pp. 140-206; id. 2001, pp. 146-147.

aquarii. Questo sistema permetteva una gestione più sistematica dei diversi settori, come quello della manutenzione degli acquedotti, della distribuzione dell’acqua e finanziario308. Allo stesso tempo l’autorità che garantiva ai privati un allacciamento venne trasferita progressivamente dalle mani del senato e della magistratura, attraverso Agrippa, nelle mani dell’imperatore. L’élite urbana diventava così dipendente del beneficium da lui accordato, così come la gente comune che utilizzava le fontane doveva aver fiducia nel fatto che l’imperatore si sarebbe occupato dei loro interessi309.

Di tutta l’acqua condotta tramite acquedotti a Roma Frontino calcola che solo un 40% circa era destina ad uso privato tramite concessione di beneficia. Per ottenerli occorreva dunque presentare un’apposita domanda, e le concessioni venivano erogate sulla base dei registri istituiti da Agrippa, dove erano registrati concessioni, concessionari e qualità dell’acqua, oltre alla misura e ai limiti d’acqua dati in uso. I privati pagavano quindi un canone finalizzato a compensare le spese di manutenzione degli acquedotti. La pratica era a questo punto affidata al procurator aquarum, che doveva vigilare sulla misura della quantità d’acqua concessa, sulla misura del calice e la posizione della presa d’allaccio. L’acqua concessa poteva essere prelevata solo dal castello pubblico designato dall’imperatore, ed era compito dei curatori quello di stabilire il luogo dove il privato poteva costruire il suo castello, da connettere poi a quello pubblico. Nessun tubo poteva superare la quinaria per una distanza di 50 piedi (15 m circa) dal castello da cui veniva prelevata l’acqua, dal momento che il canone da pagare era calcolato in base al diametro del tubo di allaccio e non in base alla quantità d’acqua consumata. Il curatore doveva verificare a sua volta il corretto utilizzo dell’acqua da parte del concessionario, nei termini indicati dalla concessione stessa. Nei casi di cessione o successione del fondo la concessione si estingueva e non era trasmissibile. Quando il fondo era in comproprietà, la concessione persisteva fino a che l’ultimo dei comproprietari era in vita. I registri imperiali erano continuamente aggiornati con l’indicazione della quantità d’acqua che si rendeva progressivamente disponibile310.

308 Pace 2010, p. 187.

309 Kleijn 2001, p.106.

310 Frontin. Aq. 103-111; Pace 2010, pp. 190-192; Kleijn 2001, pp. 100-101.

Tra i compiti principali del curator aquarum vi era poi quello di vigilare contro gli abusi, le frodi o i danneggiamenti commessi a danno degli acquedotti. Spesso erano gli stessi aquarii, gli addetti alla ripartizione dell’acqua, che conservavano vecchie prese d’acqua per venderle clandestinamente o praticavano ramificazioni abusive dalle tubature pubbliche. Tra le altre irregolarità denunciate da Frontino vi erano poi l’installazione di calici (tubi in bronzo di forma tronco-conica che fungevano da allaccio tra il castello e le tubature) troppo grandi o abusivi, tubi di modulo maggiore a quello regolamentare, mancanza di calici sostituiti da tubi “sciolti”, della misura decisa dall’aquarius. Le condutture erano poi spesso danneggiate da edifici o alberi limitrofi, strade o allacci abusivi. Le ispezioni di condotti, fontane e castella dovevano perciò effettuarsi regolarmente, e al fine di arginare questi comportamenti fraudolenti fu emanato un senatoconsulto che impose uno spazio libero di 15 piedi presso fonti, fornici e muri e di 5 piedi presso i canali sotterranei e gli spechi, in cui era vietato costruire o piantare alberi.

In seguito fu emanata la Lex Quinctia de aquaeductibus (9 a.C.)311, che puniva le azioni a danno degli acquedotti, prevedendo una severa ammenda per chi avesse forato o danneggiato l’acquedotto, compromettendone il flusso d’acqua verso Roma. La legge garantiva inoltre l’osservanza di una zona di rispetto sulle aree attraversate dagli acquedotti, vietando la costruzione o il posizionamento di alberi. A farsi carico di far rispettare la legge erano i curatori delle acque, che potevano anche far rimuovere piante o strutture che ingombravano le aree in questione, oltre a consentire il prelievo da sorgenti o altri punti d’acqua senza dover effettuare nuovi allacci o lo scavo di pozzi312.