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I limiti della transizione tra il “prima” e il “dopo”

Nel documento La nuova grande trasformazione (pagine 64-69)

2. I principi dello scientific management

2.1. I limiti della transizione tra il “prima” e il “dopo”

Potrebbe a questo punto apparire superfluo e didascalico soffermarsi sulle critiche che Taylor muoveva all’organizzazione del lavoro con la quale si imbatté nella sua esperienza di apprendista. Al contrario, l’analisi di questi

(44) Cfr. D.HARVEY, The Condition of Postmodernity. An Enquiry into the Origins of Cultural

Change, Blackwell, 1989, 125-126: «What was special about Ford (and what ultimately

sepa-rates Fordism from Taylorism), was his vision, his explicit recognition that mass produc-tion meant mass consumpproduc-tion, a new system of the reproducproduc-tion of labour power, a new politics of labour control and management, a new aesthetics and psychology, in short, a new kind of rationalized, modernist, and populist democratic society».

aspetti può risultare di particolare interesse poiché è possibile riscontrare un paradossale ricorso storico tra quanto l’autore considerava un limite allo svi-luppo dello scientific management e quanto oggi, nella manifattura digitale, è considerato una necessità e un valore. A suo parere, infatti, l’origine delle disfunzioni dei sistemi produttivi del tempo, ossia del mancato raggiungi-mento della massima efficienza possibile, risiede nella tendenza dei lavorato-ri al soldielavorato-ring. Questo termine non ha una corlavorato-rispondente traduzione in ita-liano, ma era utilizzato nel linguaggio del tempo per indicare quello che chiameremmo uno “scansafatiche” nell’accezione di chi prolunga inutilmen-te i inutilmen-tempi di lavoro al fine di ridurne il proprio carico (45). Il clima nelle fab-briche è tale, secondo Taylor, da generare una dinamica opposta a quanto si verifica, ad esempio, nell’esperienza sportiva degli stessi lavoratori: se nello sport non si utilizzano tutte le energie che hanno a disposizione per rag-giungere il risultato si è considerati perdenti, al contrario se un lavoratore impiega tutte le energie nello svolgere le mansioni a lui affidate viene appel-lato dai colleghi come un perdente (46). Vi sarebbero tre cause principali all’origine della diffusione di questo atteggiamento. La prima è legata al la-voratore che tende a mantenere, se non forzato, un livello di efficienza mol-to ridotmol-to rispetmol-to a quello potenziale. Questa dinamica viene spiegata con la convinzione, presente nella mente dei lavoratori, secondo la quale «un au-mento materiale della produzione di ogni lavoratore o di ogni macchina a-vrebbe come risultato l’espulsione di un numero maggiore di persone dal lavoro» (47), e quindi un aumento volontario dei ritmi di lavoro si tradurreb-be nella delitradurreb-berata scelta di espellere dal mercato uno sconosciuto collega. Credenza che Taylor giudica miope in quanto non coglie le potenzialità dell’aumento di efficienza e quindi dell’aumento dei volumi prodotti, che implicherebbe un abbassamento dei loro costi, con un conseguente allarga-mento del mercato e dei consumi e quindi una crescita della domanda di la-voro per produrre (48). Questo limite quindi sarebbe proprio di lavoratori

(45) Cfr. F.W.TAYLOR, The Principles of Scientific Management, cit., 13-14.

(46) Ivi, 13.

(47) Ivi, 15.

(48) È da sottolineare come in questa teoria taylorista si possano già riscontrare i principi del

fordismo come modello di politica economica, ossia l’aver colto che il processo di accumu-lazione produzione-consumo di massa fosse, almeno in questa fase, funzionale sia ai lavora-tori che alle imprese. Vale quindi la pena riportare il brano integralmente: «The cheapening of any article in common use almost immediately results in a largely increased demand for that article. Take the case of shoes, for instance. The introduction of machinery for doing every element of the work which was formerly done by hand has resulted in making shoes at a fraction of their former labor cost, and in selling them so cheap that now almost every man, woman, and child in the working-classes buys one or two pairs of shoes per year, and wears shoes all the time, whereas formerly each workman bought perhaps one pair of

Capitolo I – Fordismo e taylorismo, alle origini del lavoro nel novecento industriale

che non comprendono i meccanismi macroeconomici della produzione di massa e quindi i benefici della tendenza espansiva del capitalismo industriale nella sua versione matura, interpretando ancora la fabbrica come una botte-ga artigiana cambiata quantitativamente, ma senza riconoscere l’evoluzione qualitativa dei modelli produttivi. Una visione che non è storicamente da biasimare se si pensa che, insieme a diversi fattori di innovazione tecnologi-ca, sia stato proprio lo scientific management ad aprire le porta alla produzione di massa, incarnata nella catena di montaggio fordista a partire dal 1913, e che quindi ci mostrerebbe un Taylor lungimirante, più che una classe ope-raia miope.

La seconda causa sarebbe da imputare al management delle imprese, che non conosce a sufficienza i compiti e l’organizzazione del lavoro dei propri dipendenti, o meglio è «ignoranza dei tempi appropriati nei quali compiti di vario genere dovrebbero essere svolti» (49). A ben vedere, come ha mostrato Nelson (50), è proprio la direzione dell’impresa l’oggetto principale della cri-tica taylorista, che in questo passaggio quasi arriva a giustificare l’atteggiamento dei lavoratori poiché la presenza di «un sistema di management difettoso […] rende necessario per ogni lavoratore di evitare la fatica, o lavorare lentamente, al fine di poter proteggere i suoi interessi» (51). Spetterebbe quindi all’impresa traghettare i lavoratori verso un nuovo mo-dello di lavoro e agli ingegneri indicare all’impresa la strada da percorrere, fin nei minimi dettagli. Infatti la perfetta conoscenza dei compiti degli ope-rai viene identificata come una condizione fondamentale per esercitare il controllo su di essi. Nella logica taylorista tutto quindi si fonda sull’ottimizzazione delle risorse e il lavoratore è considerato una risorsa al pari delle altre, per cui un suo mancato sfruttamento secondo tutto il suo potenziale causa un deficit di produttività. Come ha scritto Butera, rifacen-dosi a Simon (52), nell’organizzazione taylorista «alle sub-unità organizzative

shoes every five years, and went barefoot most of the time, wearing shoes only as a luxury or as a matter of the sternest necessity. In spite of the enormously increased output of shoes per workman, which has come with shoe machinery, the demand for shoes has so increased that there are relatively more men working in the shoe industry now than ever before» (ivi, 16-17).

(49) Ivi, 15-16.

(50) Analizzando l’opera di Taylor, Nelson sottolinea come, sebbene la critica successiva si

sia soffermata quasi unicamente sulla sua concezione di lavoro e lavoratore come elemento problematico nei sistemi produttivi, egli abbia rivolto le critiche più aspre al management

più che agli operai. Cfr. D.NELSON, Frederick W. Taylor and the Rise of Scientific Management,

cit.

(51) Ibidem.

non vengono assegnati fini unitari […] ma rappresentano solamente dei mezzi per il raggiungimento di fini propri dell’unità organizzativa sovraordi-nata» (53), per cui l’assenza dell’assegnazione dei giusti mezzi avrebbe come conseguenza una non efficienza nel raggiungimento del fine. L’ignorare la struttura della totalità dei compiti svolti e potenzialmente svolgibili dai pro-pri lavoratori, soprattutto dal punto di vista dei tempi necessari, coincide-rebbe dunque con una non-disponibilità sostanziale (seppur formalmente sancita dai contratti di lavoro) del capitale da parte del suo proprietario e questo condurrebbe ad un inefficiente gestione dello stesso oltre che all’assenza di una visione complessiva della produzione dell’impresa. Tale limite può essere declinato in diversi modi: come mancata conoscenza spe-cifica delle attività del lavoratore, ossia una ignoranza dei singoli compiti e delle loro modalità e tempi di svolgimento, o come ignoranza delle attività dei lavoratori nel loro complesso, ossia nella loro potenziale combinazione e consequenzialità. In sintesi, un mancato possesso della divisione del lavoro, e quindi, in ultimo, l’assenza di un modello organizzativo che sia costruito su basi scientifiche e quantificabili, e quindi oggettivamente monitorabili. Si è sottolineato come questo limite sia imputato al management; infatti il lavoratore apparirebbe “scagionato” in quanto ancora legato al modello dell’artigiano, ossia di colui che possiede le conoscenze e le competenze e le mette in pratica per la costruzione del suo prodotto, spesso senza curarsi di organizzare il proprio lavoro tramite una netta divisioni delle mansioni. Una volta privato del rapporto diretto con la tecnica, che caratterizzava il suo la-voro, e una volta privato della relazione con la creazione di un prodotto fi-nito, l’obiettivo del lavoratore può diventare quello di mettere sì a disposi-zione la propria strumentalità astratta, ma spetta al datore di lavoro supplire all’assenza di auto-organizzazione. Al contrario il lavoratore della nuova fabbrica, forte dell’evoluzione retributiva da prezzo di una prestazione a sa-lario, potrebbe tendere al soldiering sia a causa dell’alienazione dal processo produttivo nel suo complesso, del quale è solo un componente sconnesso dalle altre parti che vanno a costituire la linearità del tutto, sia perché la su-bordinazione alla tecnica posseduta dal datore di lavoro lo aliena, in parte, anche dal proprio singolo compito, ridotto a strumento meccanico esecuti-vo. Ci si troverebbe quindi, secondo Taylor, in una fase storica in cui il da-tore di lavoro ancora non coglie come non sia sufficiente acquistare unica-mente la forza lavoro potenziale mediante un salario, scaricando le respon-sabilità sull’auto-organizzazione del lavoratore, ma che si rende necessaria una capacità organizzativa complessiva. Il passaggio richiesto da Taylor

(53) F.BUTERA, I frantumi ricomposti. Struttura e ideologia nel declino del «taylorismo» in America,

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fatti, che consacrerà la nascita della produzione di massa, è funzionale pro-prio alla disponibilità da parte del datore di lavoro della mera forza fisica del lavoratore, da poter organizzare liberamente secondo le esigenze produttive. La necessità di superare la distanza tra lavoratore e management si realizze-rebbe attraverso il rendere superflue nel primo le competenze che il secon-do vuole e può controllare, organizzare e governare. Si verificherebbe per-ciò una drastica riduzione qualitativa delle competenze del lavoratore, come analizzato a fondo dalla teoria del labour process in Braverman (54), in modo da consentire la più ampia divisione del lavoro possibile, nella logica del

divi-de et impera, che consentirebbe un controllo completo e quindi una

pro-grammazione minuziosa delle attività sia nel dettaglio che complessivamen-te. Il fatto che un lavoratore potesse svolgere diversi compiti, avendo libertà di variarle a seconda delle fasi della produzione e della sua intensità, era quindi considerato da Taylor non solo una errata allocazione temporale del-le risorse, in quanto la libertà dell’operaio si scontra ontologicamente con la logica del profitto a causa della sua tendenza al soldiering, ma anche e soprat-tutto una soluzione che produce conseguenze negative sull’effettivo potere del management. In sintesi quindi il secondo limite che Taylor riscontrava nell’impresa a cavallo tra produzione artigianale e industriale era l’incapacità da parte del management di una vera integrazione verticale-gerarchica dell’impresa, che si fondi su una organizzazione e un governo di tutti i fatto-ri della produzione a partire dai compiti dei singoli lavoratofatto-ri.

Il terzo limite è direttamente connesso a quanto appena illustrato, e fa rife-rimento all’assenza di una codificazione univoca e definita dello svolgimen-to dei singoli compiti e, in mancanza di essa, all’utilizzo delle c.d.

rules-of-thumb con le quali si indicavano quelle linee guida e quelle indicazioni

prati-che dedotte dall’esperienza e nel tempo diventate regola comune. Per Taylor queste sono totalmente inefficienti e, continuando a variare in quanto non scritte ma basate su osservazioni empiriche non valutate scientificamente, portano a notevoli perdite di tempo da parte dei lavoratori. Anche in questo caso ci si trova davanti al limite derivante dall’assenza di un controllo totale sulle attività dei lavoratori e quindi all’impossibilità di organizzarne il lavoro (55). Possiamo identificare questo limite con l’assenza di una vera e propria

(54) Cfr. oltre a H.BRAVERMAN, Labor and Monopoly Capital. The Degradation of Work in the

Twentieth Century, Monthly Review Press, 1988, A.L.FRIEDMAN, Industry and Labour. Class

Struggle at Work and Monopoly Capitalism, Macmillan, 1977, e C.R.LITTLER, The Development of

the Labour Process in Capitalist Societies. A Comparative Study of the Transformation of Work Organi-zation in Britain, Japan, and the USA, Heinemann, 1982.

organizzazione scientifica del lavoro, di studi sulle singole attività che con-sentano di calcolarne in modo preciso i tempi di svolgimento, l’ammontare di fatica del lavoratore e quindi consentire un’ottimizzazione del tutto. La gestione autonoma da parte dell’operaio dei propri tempi di lavoro e dei propri metodi è quindi visto come un limite all’organizzazione dell’impresa. Si avrà modo di approfondire il paradosso che questi tre limiti esposti gene-rano nel paragone con alcuni trend dell’organizzazione del lavoro nella ma-nifattura contemporanea. Per ora basti pensare che il valore dato oggi alla flessibilità delle mansioni e alla responsabilizzazione dei lavoratori che pos-siedono competenze tecniche ignorate dal management e che organizzano il loro lavoro sulla base dei risultati da raggiungere e non sulla maniacale divi-sione del lavoro consegna uno scenario pre-taylorista, completamente rin-novato e depurato da alcuni difetti propri della produzione di massa, e in quanto tale post-taylorista.

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