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Un modello sostenibile?

Nel documento La nuova grande trasformazione (pagine 128-132)

2. Il nuovo ciclo produttivo: la produzione flessibile

2.3. Un modello sostenibile?

Le critiche al modello di Atkinson e alle imprese che, in Inghilterra come negli Stati Uniti, iniziavano ad applicarlo sono state numerose. Harvey (83), pur riconoscendo che forme di flessibilità possono portare a benefici reci-proci per impresa e lavoratore, nota come l’effetto aggregato non possa dirsi positivo se analizzato dal punto di vista della job security oltre che da quello pensionistico e assicurativo. L’autore ritiene che il modello in analisi sia mu-tuato da pratiche attive in Giappone già in epoca fordista dove «piccole prese sub-appaltanti agivano come cuscinetto per proteggere le grandi

(82) A seconda della durata, del luogo e dell’estensione possono verificarsi forme più o

me-no intense di flessibilità funzionale. Importante invece è chiarire cosa me-non è, per evitare confusioni e sovra-valutazioni: «However, we need to be clear what sort of changes do not represent functional flexibility. For example, the transfer or permanent redeployment of workers from one job box to another does not. This may involve no significant movement in skills (dispatch clerk to sales clerk) or some increase in skills bales clerk to telesales). These are moves of the job box around the grid and do not represent increases in func-tional flexibility, unlike the clerk whose job is expanded to include telephone sales or the labourer who is promoted to operative on a machine crew but still retains the requirement to undertake labouring tasks as and when required. These latter cases /o represent exam-ples of functional flexibility. Nor does promotion, so long as it entails a permanent shift and is not a requirement to ‘work up’ or ‘work down’ as required, represent functional flex-ibility. Finally, there is the case where the job box has not enlarged but where the lines on the grid have shifted through technological or organisational change. Thus, if the materials handling tasks of the labourer are automated so that the operator can load and unload a machine by pressing a button, the labourer being redundant, there is a (trivial) sense in which the operator is also doing the ex-labourer’s tasks, but this is not an increase in flexi-bility in a functional sense» (ivi, 43).

prese dal costo delle fluttuazioni di mercato» (84), e riporta dati che mostra-no come in pochi anni in Inghilterra la conseguenza di questo modello sia stato il forte aumento delle fasce periferiche e la riduzione dei lavoratori core. Altre critiche sono state avanzate relativamente al fatto che il gruppo dei la-voratori core non si possa considerare come un blocco omogeneo ma all’interno di esso vi siano trattamenti molto differenziati a seconda che le mansioni siano o meno di tipo manageriale. La stessa suddivisione tra core e periferia è stata oggetto di critica poiché sembrerebbe voler riconoscere la novità di una visione dualistica dei lavoratori nell’impresa senza tener conto dei frameworks che già da almeno un decennio avevano mostrato l’esistenza di un mercato del lavoro interno ed uno esterno (85). Ora questi possono ri-proporsi ad esempio nella forma dell’opportunismo di colui che non ha un legame solido con l’impresa. In ultimo, l’accusa più ampia di essere una teo-ria da inserire all’interno di una letteratura futuristica sul tema della flessibili-tà che, senza evidenze empiriche e caratterizzata da determinismo tecnolo-gico, la individua come panacea di tutti i mali (86).

Oltre alla letteratura e ai modelli di riferimento è interessante una analisi dei dati e delle evidenze che, in primo luogo, possano confermare o smentire se il modello post-fordista della flexible firm come risposta alla crisi della produ-zione di massa fosse o meno una realtà e, in secondo luogo, permettano di valutare con elementi concreti in quale forma storica si sia sviluppata l’idea di flessibilità e, in ultimo, se essa possa essere veramente una modalità di superamento del fordismo. A tal fine è possibile utilizzare il rapporto del National Economic Development Office (NEDO) britannico del 1986,

Changing Working Patterns (87), redatto da Atkinson insieme a Meager, che

uti-lizza gli stessi criteri del modello teorico sopra illustrato. Proprio per questo motivo è possibile dare per assodate diverse delle considerazioni iniziali del rapporto (88) rivolgendo l’attenzione verso i risultati ottenuti dall’intervista a

(84) Cfr. A.POLLERT, The ‘Flexible Firm’: Fixation or Fact?, in Work, Employment & Society,

1988, vol. 2, n. 3, 291.

(85) Tra tutti si veda P.B.DOERINGER, M.J.PIORE, Internal Labour Markets and Manpower

Analysis, Heath Lexington Books, 1971.

(86) La critica è in Pollert che individua come appartenenti a questo gruppo, tra gli altri, D.

CLUTTERBUCK, R.HILL, The Re-making of Work. Changing Patterns of Work and How to

Capital-ise on them, Grant McIntyre, International Management, 1981; C. HANDY, The Future of

Work, Blackwell, 1984; B. JONES, Sleepers, Wake! Technology and the Future of Work,

Wheatsheaf Books, 1982.

(87) J.ATKINSON, N.MEAGER, op. cit.

(88) A conferma della presunta connessione tra il modello della flexible firm e la crisi del

pa-radigma fordista riportiamo le tre ragioni identificate dagli autori per una spinta in direzione della flessibilità: «1) Consolidating productivity gains. This first factor is associated with greater

Capitolo II – La crisi del fordismo e il post-fordismo come tentativo di nuovo paradigma

manager e sindacalisti di 72 grandi imprese dei settori ingegneristico, ali-mentare, grande distribuzione e servizi finanziari, che occupano in totale ol-tre 660 mila lavoratori. Seguendo il modello originale, il rapporto divide i risultati secondo le tre tipologie di flessibilità numerica, funzionale e finan-ziaria, di cui si prenderanno in considerazione le prime due:

1) flessibilità numerica: nove aziende su dieci intervistate dichiarano di aver introdotto fin dal 1980 almeno quattro modalità di gestione del personale che la consentano: lavoratori a tempo determinato, part-time, straordinari e nuovi cambi di turno, lavoratori ad orario flessibile. Il lavoro temporaneo viene utilizzato da tre imprese su quattro, con un aumento del 42% a partire dal 1980 (89). Le categorie di lavoratori a cui si propone il contratto tempo-raneo sono quelle degli unskilled o semi-skilled, in quanto «l’impresa rifiuta di sostenere il costo di formazione per i lavoratori temporanei» (90). Anche nel caso dei lavoratori part-time l’impiego risulta elevato, in tre casi su quattro, concentrato soprattutto nel settore finanziario e retail (91). L’utilizzo di stra-ordinari, al contrario, avrebbe visto un aumento soprattutto nei settori ma-nifatturieri, in particolare in tre quarti delle fabbriche ingegneristiche, men-tre otto imprese manifatturiere su dieci hanno aumentato l’utilizzo della flessibilità numerica attraverso un cambiamento dei sistemi dei turni;

competitive pressures during both the recent recession and the subsequent upturn in trade. These have given rise to a need to improve productivity and cut unit labour costs and more particularly to develop policies and practices which consolidate and sustain higher produc-tivity levels to meet current and future market conditions. 2) Market volatility and uncertainty. The second factor stems from the changing nature of market conditions experienced by employers. It appears that many firms now face markets which not only exhibit greater pressure of competition (domestic and international) but are also characterized by greater volatility and uncertainty. In this situation firms apparently feel a need to develop manning practices which enable them to adjust to larger and increasingly unpredictable fluctuations. 3) Technological change. The third factor arises from the increased pace of technological change, which has given companies the need for: (a) new manning practices to match to-day’s technology; b) new manning policies or strategies to enable them to introduce quickly practices appropriate for tomorrow’s technology» (ivi, 2).

(89) Relativamente ai settori gli autori sottolineano come «the increased use of temporary

work in food and drink and engineering was associated with the creation of a buffer pe-ripheral workforce as a hedge against market uncertainty, while in financial services it was more often employed as a hedge against any future job loss resulting from the impact of new technology» (ivi, 7).

(90) Ibidem.

(91) Ivi, 7: «The two main factors underlying the growth of service sector part-time working

were e desire to match manning levels more precisely to fluctuating customer patterns dur-ing the workdur-ing day and the reduction of labour costs through substitutdur-ing part-time labour (with significantly lower non-pay costs) for full-time labour».

2) flessibilità funzionale: la maggior parte delle imprese manifatturiere intervi-state (nove su dieci) ha mostrato un tentativo in essere di accrescere tale flessibilità, percentuale che si riduce notevolmente (20%) nel settore retail e dei servizi finanziari. Analizzando però quanto effettivamente è stato realiz-zato dalle imprese manifatturiere i risultati appaiono più modesti. I limiti del mancato utilizzo vengono individuati nella demarcazione causata dall’appartenenza ai sindacati e nelle implicazioni legate alla formazione di nuove competenze. La stessa realizzazione di team viene riscontrata unica-mente in pochi casi eccezionali. Come sottolinea Pollert, «sulla base di que-sta evidenza la flessibilità funzionale era limitata, e la maggior parte dei cambiamenti può essere spiegata da crescita della produttività, intensifica-zione del lavoro e razionalizzaintensifica-zione» (92).

Ciò che emerge quindi dai dati del rapporto NEDO è che la forma storica in cui si è realizzato il concetto di flessibilità è stata più quantitativa che qua-litativa. Se le nuove esigenze produttive (la fine della produzione di massa) richiedevano da un lato una maggiore indipendenza di fronte alle fluttuazio-ni economiche, dall’altro, secondo Atkinson e i fautori del post-fordismo come nuovo paradigma, esse esigevano anche un nuovo modo di lavorare, caratterizzato da una nuova centralità del lavoratore e delle sue competenze all’interno dei processi e dell’elaborazione dei prodotti. Le evidenze sem-brano però mostrare che alla metà degli anni Ottanta solo la prima faccia della medaglia si sia realizzata, attraverso l’aumento del dualismo tra lavora-tori core e lavoralavora-tori periferici, con un incremento di posti di lavoro con con-tratti che consentono un superamento del vincolo fordista del lavoro full-time a tempo indeterminato in quanto non più necessari, e anzi contropro-ducenti, rispetto alla logica economica con la quale l’impresa si muoveva. L’obiettivo intorno al quale ruota l’ibrido (mai realizzato interamente) della

flexible firm sembra quindi essere quello di un risparmio dei costi da ottenere

attraverso un allentamento dei legami tra lavoratore e impresa, sia nelle di-verse forme che abbiamo elencato sia attraverso la delocalizzazione della produzione laddove il sistema di relazioni industriali, come vedremo, non consentisse determinati comportamenti.

Capitolo II – La crisi del fordismo e il post-fordismo come tentativo di nuovo paradigma

2.4. Il dibattito sulla flessibilità del lavoro, una interpretazione

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