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Welfare State, un modello non più sostenibile

Nel documento La nuova grande trasformazione (pagine 142-146)

Nel capitolo precedente si è mostrato come il modello di relazioni industria-li fordista e il Welfare State possano essere letti come elementi complementari per spiegare il compromesso che si è realizzato nel Novecento industriale. Per questo, chiariti gli elementi per cui le relazioni industriali sono entrate in crisi, è ora necessario analizzare se e come la crisi del fordismo abbia inciso sulla funzione dello stato sociale come erogatore di servizi e regolatore di stampo keynesiano. Un primo elemento di crisi emerge dalla disamina, svol-ta nei paragrafi precedenti, del ciclo produttivo flessibile (che ricade poi sul-le relazioni industriali) ossia dalla presenza di un numero sempre maggiore di lavoratori che, non appartenendo alla componente core, fatica ad essere coperta dall’ombrello protettivo del Welfare State, negli anni modulato sulla figura di un lavoratore standard subordinato e con contratti di lunga durata (117). La discontinuità delle carriere lavorative metterebbe quindi in difficoltà il sistema e ciò sarebbe aggravato dal fatto che, spesso, sono proprio le figu-re più deboli del mercato del lavoro le vittime della flessibilizzazione e in-sieme coloro che non riescono ad essere sostenute dal Welfare State. Il se-condo elemento, multiforme, riguarda l’insostenibilità del Welfare State dal punto di vista finanziario a partire dalla stagnazione che ha accompagnato la seconda metà degli anni Settanta e che farà sì che il modello keynesiano sia rinnegato e sostituito, da parte di figure politiche quali Reagan o Thatcher, da un approccio più liberista.

Entrambi questi elementi di crisi che ci accingiamo ad analizzare hanno prodotto tentativi di risposta più o meno efficaci: il primo, in particolare, ha generato il dibattito nato in sede nordeuropea sulla c.d. flexicurity come strumento per conciliare, in assenza del ruolo forte dello Stato e di mercati del lavoro stabili, esigenze di flessibilità delle imprese e di sicurezza dei lavo-ratori; il secondo ha aperto il dibattito sulla c.d. terza via, o meglio sulla

welfa-re society, come approccio diverso ai servizi di welfawelfa-re in una situazione

eco-nomica molto diversa in cui non può e non deve essere unicamente lo Stato il fornitore di servizi.

(117) I problemi che la fine di una dimensione collettiva dei lavoratori, data dalla comunanza

di condizioni socio-economiche e lavorative, sono affrontati in C.CROUCH, Exit or Voice:

Two Paradigms for European Industrial Relations after the Keynesian Welfare State, in European Journal of Industrial Relations, 1995, vol. 1, n. 1, 63-81.

4.1. Il perché di una eterogenesi dei fini

Già affrontando il tema della crisi del sindacato dovuta alla mutazione delle caratteristiche della platea da lui rappresentata, Streeck (118) mostrava come gli elementi di novità del mercato del lavoro abbiano generato diverse diffi-coltà nel rapporto socio-economico tra gli attori chiave del fordismo. La de-regolamentazione del mercato del lavoro, attuatasi principalmente grazie alla decostruzione del modello fordista di rapporto di lavoro, ha portato allo svi-luppo di una polarizzazione tra figure core e figure atipiche. Ciò ha fatto sì che l’idealtipo di lavoratore che usufruiva dei servizi del Welfare State diven-tasse nel tempo una figura meno dominante all’interno del mercato del lavo-ro e che contemporaneamente si sviluppasselavo-ro nuovi bisogni e nuove esi-genze. Si pensi al tema della disoccupazione: il modello classico di stato so-ciale ha spesso affrontato il tema attraverso l’utilizzo di politiche del lavoro passive che, nella forma degli ammortizzatori sociali, hanno cercato di con-tenere le conseguenze dei fallimenti del mercato sostenendo i redditi in atte-sa della maturazione dei contributi previdenziali e collaborando con le im-prese nei processi di ristrutturazione. Oltre al fatto che, come si dirà tra po-co, la situazione economica rende insostenibile tale dinamica, la presenza di lavoratori che non abbiano un legame contrattuale duraturo nel tempo con un determinato datore di lavoro genera l’insostenibilità di politiche del lavo-ro passive, che dovrebbelavo-ro sostenere il reddito di una parte sempre maggio-re di lavoratori e allo stesso tempo sottostamaggio-re alle logiche di mercato a causa di una riduzione di quelle tutele che nel fordismo ne limitavano la mobilità. Jessop ha riflettuto ampiamente sugli elementi che hanno condotto, a caval-lo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, alla crisi di quelcaval-lo che ha definito

Keynesian Welfare National State (119). In primo luogo individuando ragioni

e-conomiche, in particolare la saturazione dei mercati nazionali dopo anni di politiche favorevoli alla produzione e al consumo di massa. Questo avrebbe fatto sì che i mercati dovessero sempre di più affacciarsi sullo scenario in-ternazionale modificando radicalmente il ruolo che il salario aveva avuto du-rante il fordismo, non più una fonte di domanda interna ma un costo da so-stenere nelle dinamiche di competitività internazionale. Inoltre il rafforza-mento delle tutele sociali (si pensi alle indennità di disoccupazione) durante il fordismo avrebbe fatto sì che le complesse ristrutturazioni che avvennero negli anni delle riduzioni dei profitti diventassero spesso economicamente troppo onerose. Una seconda serie di crisi sarebbe stata generata da motivi di tipo fiscale, in particolare dall’insostenibilità delle spese sociali per

(118) Cfr. W.STREECK, op. cit.

Capitolo II – La crisi del fordismo e il post-fordismo come tentativo di nuovo paradigma

cupazione, pre-pensionamenti, sostegni alle famiglie che crescevano con la crisi dei sistemi produttivi. Le tutele previste dal Welfare State infatti, in una fase di riduzione della contribuzione fiscale, risultarono più costose rispetto alle risorse disponibili, a dimostrazione di un sistema costruitosi su un mo-dello di continua espansione della domanda. A ciò si aggiunsero ben presto «le ripercussioni sociali della disoccupazione e della recessione su altri servi-zi di welfare (come la casa, la sanità e le politiche per la famiglia)» (120) e ciò avrebbe portato ad un trade-off tra le spese necessarie, in virtù dell’approccio keynesiano, per innovazione tecnologica e ristrutturazioni aziendali e le spe-se destinate ai spe-servizi sociali (121). Jessop rintraccia proprio in queste dinami-che la spinta, dinami-che si alimentava della protesta dei costi troppo alti del Welfare

State in termini di tassazione, verso un regime liberista sostitutivo a quello

social-democratico. Infatti una terza serie di ragioni della crisi del Welfare

State sarebbero da individuarsi nel venir meno del sostegno politico al

siste-ma di compromesso che si era andato ad affersiste-mare nei decenni precedenti. Le difficoltà economiche portarono a contestare le elevate spese per la tas-sazione e misero in crisi l’equilibrio tra capitale e lavoro per l’indebolimento della sicurezza occupazionale e della realizzabilità di quella piena occupazione che era principio cardine dei modelli keynesiani. A ciò Jessop aggiunge al-cune motivazioni che, a suo parere, mostrano come diverse delle critiche avanzate al Welfare State fossero giustificate da comportamenti e dinamiche auto-generatesi all’interno della sua struttura quali «burocratizzazione, giuri-dificazione delle relazioni sociali, la costruzione di imperi politici, centraliz-zazione, clientelismo e l’intensificazione di dinamiche di dipendenza perso-nale» (122). L’emergere di una economia di servizi spesso a valore aggiunto inferiore a quella manifatturiera, con un corrispettivo salario più basso a-vrebbe poi fatto sì che la classe media, insieme finanziatrice e benefattrice

(120) Ivi, 85.

(121) Secondo Jessop le cause della crisi del Welfare State non dipenderebbero però

unica-mente da ragioni di tipo finanziario o fiscale, ma dalla struttura stessa del modello di accu-mulazione del capitale, infatti «the underlying structural causes of the crisis would not di-sappear with renewed expansion. The economic crisis of the welfare state was rooted in the growing discrepancy between its activities and the discursively constituted (but often mate-rially rooted) needs of capital accumulation. Tasks that had benefited capital during the Fordist upswing acquired their own institutional inertia and vested interests even though the needs of capital had changed (or were held to have done so as the dominant Fordist accumulation strategies were challenged) and many of the policies inherited from the peri-od of Fordist expansion were failing or even proving counterprperi-oductive. Thus, resolving the economic crisis would require the reorganization of the accumulation regime, its modes of regulation and its mode of societalization, as well as private and public economic re-trenchment» (ivi, 86).

del Welfare State, iniziasse il suo progressivo svuotamento, che si rispecchie-rebbe nelle casse dello Stato in termini di minor gettito fiscale a sostegno dei servizi. Inoltre, il dato demografico, che ha visto una accelerazione dell’invecchiamento della popolazione conseguente sia al calo della natalità che al miglioramento delle condizioni di vita, ha ampliato la platea di coloro che necessitavano dei servizi assistenziali, sanitari e previdenziali. Il sistema sociale costruito come architrave della produzione fordista sembra quindi entrare in crisi quando il ciclo di accumulazione del capitale non riesce più a mantenere elevati i ritmi della domanda, poiché la crisi genera un suo mu-tamento, da domanda di beni che sostiene il ciclo produzione-consumo, a domanda di welfare a causa della perdita di lavoro e dell’indebolimento complessivo dei lavoratori. Si svelerebbe così come la forma principale di welfare fosse in realtà il ciclo produttivo fordista, con lo Stato che provvede unicamente alla correzione delle inefficienze del mercato ma all’interno di una logica, che tutti gli attori coinvolti accettano, in cui si è convinti che il ciclo produttivo continuerà regolarmente. Come detto, la risposta a questa crisi fu, nei Paesi anglosassoni in cui il fordismo aveva più di tutti attecchito, quella di una dura reazione politica che portò ad immaginare che un model-lo totalmente opposto potesse essere la risposta (123). Il sistema neoliberale (124), che vede con la politica di Reagan la sua inaugurazione pratica, ha avu-to come obiettivo principale la riduzione della tassazione e il taglio ai costi del welfare diminuendo sia il numero dei beneficiari attraverso la modifica dei criteri d’accesso oltre che la riduzione del valore economico dei servizi spingendo parallelamente per lo sviluppo e l’utilizzo di forme private di wel-fare. La critica fondamentale avanzata da Milton Friedman è proprio relativa al tentativo di convincere i cittadini che la contribuzione fiscale obbligatoria per il welfare non fosse altro che una assicurazione privata relativa ad alcuni servizi che potevano diventare utili in momenti di difficoltà, mentre questa sarebbe una tassa volta a mantenere un enorme sistema pubblico che po-trebbe essere smantellato (125).

(123) Per una analisi critica di questa risposta cfr. D.HARVEY, A Brief History of Neoliberalism,

Oxford University Press, 2005.

(124) Non è semplice identificare autori specifici che abbiano teorizzato il neoliberalismo in

corrispondenza con la crisi del modello fordista, il più influente è sicuramente Milton Friedman del quale si veda in particolare, relativamente al tema che stiamo trattando, W.J.

COHEN,M.FRIEDMAN, Social Security: Universal or Selective?, American Enterprise Institute

for Public Policy Research, 1972.

(125) Ivi, 26-27. Per una rassegna dei principali argomenti in questa direzione cfr. anche P.J.

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