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La realtà della flexible firm

Nel documento La nuova grande trasformazione (pagine 122-128)

2. Il nuovo ciclo produttivo: la produzione flessibile

2.2. La realtà della flexible firm

Quelle raccolte da Piore sono previsioni che il mondo imprenditoriale sta-tunitense degli anni Ottanta avanzava relativamente all’introduzione di mo-delli di produzione flessibile all’interno del tessuto industriale. Come tali so-no utili a cogliere il clima che si respirava in una fase di decliso-no e insosteni-bilità strutturale del fordismo, ma è necessario verificare quanto queste ipo-tesi fossero effettivamente realizzate nei sistemi produttivi. Effettuare tale verifica implica un ulteriore approfondimento del concetto di flessibilità che meglio si sposa con l’obiettivo di analizzare l’evoluzione del modello mo-strato nel primo capitolo. Come detto, infatti, l’analisi di Sabel e Piore fa ri-ferimento soprattutto ad una idea di piccola media impresa che è ben diffe-rente dalla fabbrica fordista. Per questo motivo è interessante seguire Atkin-son (70), che, riferendosi al contesto inglese, sviluppa il concetto di flessibili-tà connesso all’organizzazione della fabbrica, concentrandosi più sulla di-mensione della condizione qualitativa e quantitativa occupazionale che sull’organizzazione del lavoro come invece fatto dagli studiosi del MIT, svi-luppando un modello che verrà adottato poi in numerose realtà produttive a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta.

Per Atkinson le ragioni della necessità di modelli flessibili sono almeno cin-que:

1) stagnazione dei mercati che genera necessità di riduzione dei costi del lavoro;

2) perdita di posti di lavoro;

3) incertezza che spinge a non effettuare investimenti in termini occupa-zionali;

4) cambiamenti tecnologici che implicano lavoratori che sappiano rispon-dere ai nuovi metodi di produzioni e a nuovi prodotti;

5) riduzione dei tempi di lavoro.

(70) Cfr. J.ATKINSON, Manpower Strategies for Flexible Organizations, in Personnel Management,

1984, vol. 15, n. 8, 28-31; J.ATKINSON, Flexibility: Planning for an Uncertain Future, in

A fronte di queste necessità vi sarebbero tre tipologie di flessibilità che si possono adottare, non in maniera alternativa:

1) flessibilità funzionale, come capacità di saper reimpiegare velocemente gli stessi lavoratori in mansioni e compiti differenti attraverso la presenza di operai multi-skilled che possano passare da mansioni meccaniche ad altre e-lettriche (ad esempio), da produzione diretta a produzione indiretta o anche veri e propri cambi di carriere, poiché «così come cambiano i prodotti e i metodi di produzione, la flessibilità funzionale implica che una parte di for-za lavoro cambi con essa, sia nel breve che nel medio termine» (71);

2) flessibilità numerica, intesa come la possibilità di accrescere o diminuire il numero di lavoratori a seconda di cambiamenti che incidono sulla domanda di lavoro, per far sì che il numero di lavoratori sia il più possibile sempre corrispondente con il numero necessario alle esigenze di produzione (72); 3) flessibilità finanziaria, che secondo Atkinson si presenta sotto due forme: la prima come possibilità di variare il salario e altri costi affinché «riflettano lo stato della domanda e dell’offerta dei mercati del lavoro esterni» (73), men-tre la seconda «significa lo spostamento verso nuovi sistemi di remunera-zione che facilitano sia la flessibilità funzionale che quella numerica, come ad esempio retribuzioni legate al risultato invece che fisse» (74).

La novità della fabbrica post-fordista risiederebbe quindi in un modello or-ganizzativo che possa non tanto sviluppare ognuna di queste diverse tipolo-gie di flessibilità, questo poteva realizzarsi in forme diverse anche nel passa-to, ma che possa combinarle tra di loro. A tal fine l’obiettivo dovrebbe esse-re quello di una divisione dei ruoli dei lavoratori «non tanto basata sulle di-stinzioni tra blue collar e white collar, ma piuttosto sulla separazione di lavori che sono specifici dell’impresa rispetto ad altri che richiedono solo compe-tenze generali» (75). In questo modo la componente core specifica dell’impresa verrebbe mantenuta costante in termini quantitativi e finanziari,

(71) J.ATKINSON, Manpower Strategies for Flexible Organizations, cit., 29.

(72) Ibidem: «It might mean that hire and fire policies can be more easily implemented, or

that hiring gives way to looser contractual relationship between manager and worker».

(73) Ivi, 30: «The significance lies more in relativities and differentials between groups of

workers than in the across-the-board push to reduce wages, and the implications include a continued shift to plant level bargaining and widening differentials between skilled and un-skilled workers».

(74) Ibidem.

Capitolo II – La crisi del fordismo e il post-fordismo come tentativo di nuovo paradigma

con una sola flessibilità in termini funzionali (76), mentre si svilupperebbe una periferia di lavoratori che risponde a criteri di flessibilità numerica in base alle condizioni dei mercati, in quanto possiede competenze generiche e quindi più facilmente intercambiabili, non necessita di formazione specifica e dei relativi investimenti in essa. La struttura d’impresa si evolverebbe quindi nella direzione di una flexible firm che si fonda sulla diversità di legame tra impresa e lavoratore sulla base di forme contrattuali alternative a quelle classiche. I lavoratori core sono tutelati da un contratto full-time a tempo inde-terminato, a patto di accettare la flessibilità funzionale «sia nel breve periodo (mansioni intra-settoriali e progetti multidisciplinari a termine) che nel lungo (cambiamenti di carriera e riqualificazione professionale)» (77).

Figura 2 – La flexible firm

Fonte: J. ATKINSON, Manpower Strategies for Flexible Organizations, in Personnel Management,

1984, vol. 15, n. 8, 28-31

(76) Ivi, 31: «At the core, only tasks and responsibilities change; the workers here are

insu-lated from medium term fluctuation of the market, whereas those in the periphery are more exposed to them».

Il rapporto di subordinazione (figura 2) quindi non si declinerebbe più uni-camente nella forma del controllo sulla prestazione ma relativamente alla di-sponibilità, in cambio del contratto, ad una flessibilità on the job.

Esisterebbero poi due gruppi di lavoratori periferici, il primo caratterizzato dall’impiego full-time ma da livelli di sicurezza inferiori, ai quali viene offer-to un posoffer-to di lavoro e non una carriera lavorativa. Una fascia di lavoraoffer-tori descritta da Atkinson in questi termini:

As a result, the firm looks like to the external labour market to fill these jobs, and seeks to achieve numerical and financial flexibility through a more direct and immediate link to the external labour market than is sought for the core group. Functional flexibility is not sought and, because these jobs tend to be less skilled, little training or retraining is needed. A lack of career prospects, systematization of job contents around a narrow range of tasks, and a recruitment strategy directed particularly at women, all tend to en-courage a relatively high level of labour turnover, which itself facilitates easy and rapid numerical adjustment to product market uncertainty (78).

Si teorizza quindi un modello di impresa molto diverso da quello fordista. Lo scambio tra lavoro a tempo indeterminato e subordinazione verrebbe meno poiché viene meno il modello sociale del lavoratore-consumatore. Di conseguenza il vantaggio di dipendenti che entravano a far parte del ciclo economico attivato dalla produzione, con il ruolo di consumatori di massa, non rileva più. L’obiettivo delle imprese è quello di ridurre i costi per accre-scere la competitività e di sviluppare modelli di produzioni flessibili. L’organizzazione del lavoro diventa quindi uno degli strumenti mediante i quali raggiungere tale flessibilità, esattamente come l’organizzazione del la-voro taylorista era funzionale alla produzione di massa. Si possono già ri-scontrare quindi diversi elementi di continuità relativamente al legame teori-co-pratico tra modelli di produzione e lavoro fordista e quello post- (o neo-) fordista.

Atkinson individua poi anche una seconda fascia di lavoratori periferici che hanno lo scopo di innestare la possibilità di maggior flessibilità funzionale sulla flessibilità numerica presente nella prima fascia. Nei casi infatti in cui le esigenze richieste non siano necessariamente legate all’impresa, sia per ele-vata sia per bassissima specializzazione, questi possono essere esternalizzati

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attraverso pratiche di sub-contracting, utilizzo di agenzie interinali, impiego di lavoratori freelance, ecc., e a questi si aggiungono i lavoratori part-time. Si conferma così, a completamento del quadro della flexible firm, un modello organizzativo-produttivo nel quale il lavoratore sembra essere considerato nulla di più che un fattore numerico della produzione (come già avveniva nel taylorismo), senza più un ruolo principale quale elemento centrale del ciclo economico e quindi, in qualche modo, salvaguardato come oggetto di interesse concreto da parte dell’impresa. È importante concentrarsi in parti-colare sugli strumenti attraverso i quali si può realizzare la flessibilità fun-zionale. Infatti, in un paragone con il modello fordista, è soprattutto in me-rito ai compiti e ai ruoli che si possono valutare le affinità e le divergenze. Gli aspetti numerici e finanziari sono invece maggiormente connessi unica-mente ad obiettivi di contenimento diretto dei costi. Incidere sulla organiz-zazione del lavoro, d’altro canto, porta sì al medesimo risultato, ma implica allo stesso tempo una diversa concezione della fabbrica. Se si realizzassero infatti la flessibilità numerica e quella finanziaria ma non quella funzionale sarebbe la prova della crisi del modello fordista, ma non della costruzione di un vero e proprio paradigma alternativo, avente nella flessibilità una nuova idea dei rapporti tra capitale e lavoro come conseguenza di un nuovo mo-dello di produzione diverso da quello di massa. In un altro studio, Atkinson definisce un lavoro (job) come «un insieme di compiti assegnati ad un singo-lo» (79). La combinazione di questi compiti non è un requisito del lavoro in sé, e per questo può variare a seconda di fattori storici, organizzativi e tecni-ci da azienda ad azienda e anche all’interno di diverse fasi evolutive della stessa. Il modello da lui costruito vuole localizzare un singolo impiego all’interno di una griglia in cui «le linee orizzontali rappresentano le distin-zioni tra competenze e livello occupazionale» e «le linee verticali rappresen-tano l’area funzionale di lavoro» (80), come nella figura 3.

(79) J.ATKINSON, N.MEAGER, Changing working patterns. How companies achieve flexibility to meet

new needs, NEDO, 1986, 2.

Figura 3 – Esempi di classificazione funzionale e occupazionale del lavoro

Fonte: N.MEAGER, J.ATKINSON, Changing working patterns. How companies achieve flexibility to

meet new needs, NEDO, 1986

Si possono individuare tre forme di flessibilità funzionale a seconda di come viene ampliata la casella relativa ad un singolo lavoro. L’ampliamento oriz-zontale (horizontal enlargement) comporterebbe la creazione di un nuovo lavo-ro aggiungendo una nuova mansione ad un lavoratore prima compiuta sin-golarmente da un altro (solitamente dello stesso livello di skills). Vi è poi l’ampiamento ascendente (upward enlargement), nel quale, ad esempio, un elet-tricista «aggiunge un numero di competenze di diagnostica elettronica avan-zata al proprio portfolio e include nel suo box il compito che veniva prece-dentemente eseguito da un tecnico» (81). In ultimo l’ampiamento discenden-te (downward enlargement), opposto al precedendiscenden-te, in cui un lavoratore acquisi-rebbe anche mansioni di livello inferiore oltre alle proprie.

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Da queste tre tipologie, che rappresentano solo alcune possibili concretizza-zioni del modello della flessibilità funzionale (82), si evince che, se fossero attuate, ciò implicherebbe un effettivo superamento di diversi aspetti del fordismo. In primo luogo della standardizzazione delle mansioni e dei com-piti, funzionale al controllo e all’efficienza di una produzione di massa di beni simili e non personalizzati. Inoltre si scardinerebbe l’idea di un lavora-tore le cui competenze non siano funzionali alla produzione, e ne siano anzi a volte un ostacolo. Al contrario la capacità di adattamento e di acquisizione di nuove competenze sarebbe fondamentale per poter sostenere un modello produttivo flessibile.

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