UNA VITA TRA VIAGGI E SUCCESS
2.3 Luciano in Egitto al servizio dell’Impero
Il suo viaggio in Gallia viene citato anche nell’Apologia. Luciano costruisce quest’opera come un’epistola95 indirizzata all’amico Sabino96. Infatti le prime righe del testo alludono ad un antefatto, secondo il quale, Sabino, dopo aver letto un’opera di Luciano (si tratta di Sui dotti che convivono per salario), avrebbe poi criticato apertamente l’atteggiamento dell’autore.
Sabino non era certo un ‘caro amico’ (Luc. Apol. 1 w\ kale; Sabi'ne), come lo appella sarcasticamente Luciano al primo rigo. Anzi, l’autore, viste le dicerie malevole che si erano diffuse su di lui, a causa dell’opera sui dotti e la successiva scelta di intraprendere la carriera istituzionale – nel 171 d.C. Luciano accetta la carica di archistrator praefecti Aegypti –, era convinto che ‘il caro amico Sabino’ lo avesse criticato pubblicamente senza mezzi toni. Luciano dunque si immagina l’arringa malevola nei suoi confronti:
Luc. Apol. 1 eij toivnun mh; kako;" ejgw; mantikhvn, dokw' moi ajkouvein sou levgonto": Ei\tav ti" aujto;" tau'ta gegrafw;" kai; kathgorivan ou{tw deinh;n kata; tou' toiouvtou bivou diexelqwvn, e[peita pavntwn ejklaqovmeno", ojstravkou, fhsiv, metapesovnto" eJkw;n eJauto;n fevrwn ej" douleivan ou{tw perifanh' kai; perivblepton ejnsevseikenÉ povsoi Mivdai kai; Kroi'soi kai; Paktwloi; o{loi metevpeisan aujto;n ajfei'nai me;n th;n ejk paivdwn fivlhn kai; suvntrofon ejleuqerivan, pro;" aujtw'/ de; h[dh tw'/ Aijakw'/ genovmenon kai; mononouci; to;n e{teron povda ejn tw'/ porqmeivw/ e[conta parevcein eJauto;n e{lkesqai kai; suvresqai kaqavper uJpo; kloiw'/ tini crusw'/ to;n aujcevna deqevntaÉ oi|av ejsti tw'n trufwvntwn plousivwn ta; sfiggiva kai; ta; kouravlliaÉ pollh; gou'n hJ diafwniva serious, but that the serious qualities of his texts are the product of a subtle style of impersonation that wavers between wry caricature and authoritative evocation of a given role or mental attitude, the humor of which serves as a means of making foreign, fanciful, and subversive points of view accessible: a task to which Menippus is ideally suited». Per lo spoudaiogeloion vd. infra cap. 5.2, pp. 169-192.
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Luciano si identifica molto qui nella figura di Diogene di Sinope, il filosofo cinico vissuto tra la fine del V e la prima metà del IV sec. a.C. Egli diventa per la sua impudenza e la sua sfacciataggine eroe satirico per eccellenza. Lo vediamo agire come tale, mettendo tutto in discussione e ridendo di tutto e di tutti, nei Dialoghi dei Morti. Uno studio ben articolato e molto utile per lo studio del Cinismo è quello di Desmond 2008.
95 Sulla forma della lettera, che viene utilizzata da Luciano anche nel La morte di Peregrino e nel
Nigrino, vd. G. Anderson, Lucian’s Nigrinus: the Problem of Form, GRBS 19, 1978, pp. 367-374.
Luciano utilizza la forma epistolare ovviamente connotandola come strumento critico. Goldhill 2002, p. 64: «There is a long tradition in Greek and Roman cultures of philosophical Letters which use the fiction of intimate exchange to discuss the care of the self and the dynamics of interpersonal relationships. Lucian draws on such a tradition here – in his sarcastic and biting style; but strikingly and typically, he also turns each letter into a dramatized dialogue where the question of who speaks for Lucian becomes much harder to determine».
96 Di questo ‘Sabino’ non abbiamo notizie che rinviino ad un personaggio noto. E non sembra
credibile, anche se accettabile per il periodo cronologico, l’identificazione di questo con Marco Ponzio Leliano Larcio Sabino, console del 163 d.C.
tou' nu'n bivou pro;" to; suvggramma kai; to; a[nw tou;" potamou;" cwrei'n kai; ajnestravfqai ta; pavnta kai; palinw/dei'n pro;" to; cei'ron: tou't≠ a]n ei[h oujc uJpe;r ïElevnh" ma; Div≠ oujd≠ uJpe;r tw'n ejp≠ ≠Ilivw/ genomevnwn, ajll≠ e[rgw/ ajnatrepomevnwn tw'n lovgwn kalw'" provteron eijrh'sqai dokouvntwn. Tau'ta me;n pro;" eJautovn wJ" to; eijkov" levlektaiv soi.
Se dunque non sono un cattivo indovino, mi sembra di sentirti dire: «Ecco uno che, dopo aver scritto queste cose e sostenuto un’accusa così incalzante contro tale vita, poi si dimentica di tutto e, come si dice, caduto il coccio a rovescio, di sua volontà è andato a cacciarsi di corsa in una schiavitù così chiara ed evidente! Quanti Mida, Cresi e Pattoli interi lo hanno convinto ad abbandonare la libertà a lui cara fin da ragazzo e cresciuta con lui e, ora che è giunto ormai proprio davanti ad Eaco e quasi ha un piede nella navicella, a lasciarsi tirare e trascinare, come se avesse il collo chiuso in un collare d’oro? Quale è mai la potenza dei braccialetti e delle collane, di cui fanno sfoggio i ricchi! È forte dunque il contrasto fra la vita di oggi e lo scritto; e il ‘tornare i fiumi alle sorgenti’, l’ ‘essere tutto capovolto’, il ‘ritrattare’, ma in peggio, potrebbero dirsi non di Elena, per Zeus, né degli avvenimenti di Troia, ma delle parole che sono ora davvero rovesciate, mentre prima sembravano ben dette». Questo è verosimile che tu abbia detto a te stesso.
Luciano si immagina quello che pensa l’amico, ma non basta. Si immagina addirittura che Sabino gli dia un consiglio, uno di quei consigli che si danno ai veri amici. Il consiglio di Sabino sarà sicuramente utile e saggio, ‘egli è un filosofo’97.
Luciano mette in scena un vero e proprio spettacolo: si mette la maschera dell’amico Sabino, ne assume la voce e le sembianze98.
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Luc. Apol. 2 ejpavxei" de; i[sw" kai; pro;" aujto;n ejme; xumboulhvn tina toiauvthn oujk a[kairon, ajlla; filikh;n kai; oi{w/ soi crhstw'/ kai; filosovfw/ ajndri; prevpousan. Luciano si sta rivolgendo quindi ad un pepaideumenos e sicuramente ricaverà da lui un buon consiglio, se veramente è un uomo di cultura.
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Due buoni studi in proposito, uno sul significato della maschera e dello specchio, utile anche per l’analisi dell’identità e dell’alterità nella commedia, ma anche in Luciano, è quello di Frontisi- Ducroux 1992. Maschera (proswpei'on) e specchio (kavtoptron) sono due elementi particolarmente significativi che ricorrono infatti nelle opere di Luciano. Un ulteriore studio sulla maschera in Aristofane e su come il personaggio venga ‘ritagliato’ a misura su di essa è quello di Calame 1992. In Luciano, come si è detto precedentemente, l’immagine della maschera ricorre spesso, come anche l’azione stessa dello smascheramento. Una bella immagine è quella che troviamo in uno degli ultimi paragrafi dell’Icaromenippo. Egli mette in bocca a Zeus delle parole di critica nei confronti delle figure dei filosofi, una razza di uomini che incarnano i peggiori vizi e che sono, per dirla con un’espressione omerica ‘inutile peso della terra’. Questi filosofi da strapazzo, allo stesso modo in cui gli attori tragici simulano e agiscono sulla scena con una identità che non è la loro, si nascondono sotto la maschera del falso pepaideumenos. Tolta loro la maschera e la splendida veste ricamata d’oro però, non resta che ‘un ridicolo omiciattolo ingaggiato con una paga da fame per lo spettacolo’. Luc. Icar. 29 perievrcontai ejpiplavstw/ schvmati katavptusta h[qh peristevllonte", ejmferei'" mavlista toi'" tragikoi'" ejkeivnoi" uJpokritai'", w|n h]n ajfevlh/ ti" ta; proswpei'a kai; th;n crusovpaston ejkeivnhn stolhvn, to; kataleipovmenovn ejsti geloi'on ajnqrwvpion. Cf. Luc. Nec. 16, in cui Luciano descrive la visione dei morti, tutti uguali tra loro, che sembrano partecipare ad una lunga processione, capeggiata da Tyche che attribuisce ruoli, scambia le vesti e quindi le identità. Finita la processione però, ciascuno restituisce le vesti, il corpo, l’identità di cui momentaneamente si era impossessato per ritornare come prima: uno
Particolarmente importante qui è la scena non tanto dello smascheramento – anche se questo costituisce uno degli obiettivi primi di Luciano99 – bensì, facendosi interprete del motto ‘i fiumi risalgono alle sorgenti’100, l’autore stesso uguale all’altro. Allo stesso modo nell’Icaromenippo (19), a Luciano, grazie al viaggio in cielo, viene offerta la possibilità di osservare il mondo dall’alto (come anche nelle Storia Vera). Dalla luna, lo spettacolo che gli si presenta è come quello di un’immensa commedia, piena di elementi risibili, i cui protagonisti sono simili a formiche che si muovono in modo confuso ciascuna verso il proprio formicaio. «Cette vue d’en haut lui permet encore d’observer la diversité des peuples, la variété des activités humaines. Les images qui lui viennent sont celles d’une immense comédie pleine de confusione et de cacophonie, ou celle d’une fourmilière», Roussel 2003, p.104. Per Luciano e la figura dell’attore e il suo agire nella narrazione come su una scena teatrale vd. Saïd 1993, p. 263-266. Per il mondo reale, oggetto di critica da parte dell’eroe satirico, come teatro vd. Camerotto 2014a, pp. 307-313.
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Le opere lucianee in cui l’autore meglio rende l’azione dello smascheramento attraverso la forma dell’epistola sono due in particolare, una è la Morte di Peregrino, l’altra invece è l’Alessandro o il falso profeta. Luciano nella prima racconta la vita del filosofo cinico Peregrino, il quale era a tal punto ossessionato dalla ricerca della fama e del successo (doxokopiva) che decide di darsi la morte facendosi ardere vivo su una pira ad Olimpia. Luciano assiste personalmente alla scena (non solo con gli occhi ma anche con le orecchie, e tutto questo viene a noi narrato grazie al ricordo e quindi alla memoria) e descrive a noi l’orribile immagine che gli si presenta innanzi. Con questa opera Luciano vuole evidenziare la tendenza dei filosofi di quell’epoca alla spettacolarizzazione negativa non solo del corpo, ma anche della morte. La seconda opera invece, tratta, sempre in forma epistolare, della vita di un altro farabutto, un certo Alessandro di Abonutico. Qui Luciano, come uno storico che si accinge a narrare la biografia di un grande personaggio storico-politico, analizza tutte le informazioni, le grandi azioni, ciò che il personaggio ha lasciato dietro di sé. Tutta questa indagine però viene effettuata non in positivo: non sono le grandi gesta di un valoroso, di una grande mente che i posteri dovranno ricordare di questo personaggio. Al contrario Luciano elenca tutte le qualità negative e le peggiori malefatte che questo individuo ha compiuto. Il suo merito è quello di essere difatti sì un profeta, ma falso, menzognero, ingannatore. L’autore in quest’opera come in gran parte delle altre non rinuncia a criticare la fede che il vasto pubblico prestava a questo genere di individui. L’altro grande obiettivo di Luciano oltre allo smascheramento di questi falsi profeti e filosofi, è la critica alla credulità della gente.
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Il motto è una rivisitazione di un verso tratto dal coro della Medea di Euripide vv. 410-411: a[nw potamw'n iJerw'n cwrou'si pagaiv, kai; divka kai; pavnta pavlin strevfetai. Si tratta di un
adynaton proverbiale che rende l’immagine di una violazione dell’ordine naturale. Nel caso
dell’opera euripidea, la violazione è da riferire alla sacralità dei giuramenti (Giasone non ha rispettato il patto stabilito e per questo sarà costantemente accusato di adikia). Per il caso di Diogene cf. Diog. Laert. 6.36 e Jul. C. Cyn. 180d, vd. infra 3.2.2 e 3.2.3, pp. 89-94. Nel nostro caso non si tratta di giuramenti, ma l’espressione indica comunque rovesciamento e inversione. Troviamo l’espressione con significato proprio di inversione nei Dialoghi dei Morti di Luciano, in cui il giovane Terpsione si lamenta con Plutone del fatto che ci siano giovani come lui che sono già morti, mentre ci sono vecchi decrepiti che sono ancora sulla terra a (soprav)vivere nonostante l’impossibilità per loro, data l’età, di fare qualsiasi cosa. Terpsione per dare un’immagine concreta di quello che sta dicendo, e che cioè niente va come dovrebbe andare, utilizza proprio l’espressione ‘i fiumi risalgono alla sorgente’. Inversione e rovesciamento sono elementi dominanti nelle opere di Luciano. È proprio tramite il rovesciamento che la satira si esprime ed è attraverso il riso che il rovesciamento prende forma. Luciano costruisce le sue stesse opere attraverso un processo di rovesciamento: «He begins by selecting a recognizable voice or set of voices and then projects them into a provocative situation, whether in Hades, on Olympus, or in ancient Athens», Branham 1989, p. 5. Il viaggio dunque ben si adatta a questa trasposizione di modelli classici in ambienti totalmente fuori dall’ordinario. Il viaggio diviene quell’esperienza che proietta i personaggi delle opere di Luciano nell’alterità, ma che allo stesso tempo conduce anche
indossa una maschera e gioca il proprio ruolo, deridendo così il personaggio dell’amico, che altro non è che uno dei tanti alazones che assumendo le vesti del saggio, riempiono la testa degli altri di vuote parole, prive di significato e di utilità. Allo stesso modo Luciano considera priva di qualsiasi fondamento la critica che subisce da Sabino101. E quindi improvvisa una difesa. L’autore dimostrerà così le sue grandi abilità di oratore, capace di mettere in scena se stesso sia nella parte dell’accusa, che nella parte della difesa102.
noi ascoltatori a porci in un’ottica diversa, in un mondo altro. Il viaggio è l’esperienza attraverso cui l’autore compie la sua azione satirica, e la satira ha come obiettivo il sovvertimento, la verifica delle convenzioni. Il motto qui potrebbe essere accostato al celebre motto cinico. Diogene, infatti, dopo un lungo vagare (esiliato da Sinope per un motivo piuttosto dibattuto: la contraffazione della moneta da parte sua o del padre) giunge a Delfi, dove interroga l’oracolo su come avrebbe dovuto impiegare la sua vita. Il dio gli rispose proprio utilizzando questa frase. Se consultiamo il lessico della Suda alla lettera gamma 334 leggiamo: Gnw'qi sauto;n kai; to; novmisma paracavraxon, paraggevlmata Puqikav. toutevsti th'" tw'n pollw'n dovxh" uJperovra kai; paracavratte mh; th;n ajlhvqeian, ajlla; to; novmisma. L’oracolo (Diog. Laert. 6.21-22) venne interpretato dal filosofo come un comando a falsificare la moneta, anche se però il vero invito era stato quello di sovvertire il nomos, ovvero la legge, l’ordine prestabilito, la convenzione e l’abitudine. Non sembra comunque che Diogene abbia mancato di fare anche e soprattutto questo, e pertanto il motto venne adottato come ‘slogan’ della scuola cinica. Cf. Jul. C. Her. 211b.
101 Luciano, cambiata la scena, indossa la maschera di Sabino (ou\n kat≠ ajxivan uJpodu;" to; so;n
provswpon uJpokrivnwmai […] w{ra toivnun metaskeuavsanta" hJma'" th;n skhnh;n) e porta in scena un personaggio la cui critica è rovente, come quando il medico cauterizza la ferita. Luc.
Apol. 2 ejme; me;n siwpa'n kai; ajnevcesqai temnovmenon kai; kaiovmenon, eij devoi, ejpi; swthriva/,
se; d≠ ejpipavttein tw'n farmavkwn kai; th;n smivlhn a{ma provceiron e[conta kai; to; kauthvrion diavpuron. Anche nell’ipotetico discorso di Sabino compare una scena tratta dal teatro. Questa volta si tratta però di smascheramento, secondo il quale l’attore tragico solo in scena è avvolto da quell’aurea solenne tipica dei personaggi tragici, dal quale nessuno degli spettatori osa distogliere lo sguardo (Apol 5: kai; a[llwn paradeigmavtwn ejpiv se, ajll≠ oiJ me;n toi'" tragikoi'" uJpokritai'" eijkavsousin, oi} ejpi; me;n th'" skhnh'" ≠Agamevmnwn e{kasto" aujtw'n h] Krevwn h] aujto;" ïHraklh'" eijsin). Ebbene, l’attore tragico, quando esce di scena, finita la performance, smette i panni che lo connotavano come eroe tragico, come protagonista intoccabile, e diviene un personaggio qualsiasi, un nessuno (e[xw de; Pw'lo" h] ≠Aristovdhmo" ajpoqevmenoi ta; proswpei'a givgnontai uJpovmisqoi tragw/dou'nte" […] wJ" a]n tw'/ qeavtrw/ dokhó'). Allo stesso modo Luciano nei panni di Sabino smaschera se stesso: egli ha scritto una cosa, ma ne ha fatta un’altra, anzi ha fatto esattamente l’opposto.
102 Vd. Saïd 1993, p. 263-266. Branham parla di opere di ‘auto-difesa’: in esse Luciano presenta se
stesso, ribadendo la kainotes della sua produzione, e dichiara di essere consapevole della difficoltà nella comprensione e della particolarità che la connotano. Proprio per questo si sente in dovere di difendere se stesso e la sua opera ‘innovativa’. Branham 1989, p. 29: «he actually needed to defend himself as expansively as he does in The Fisherman, The Double Indictment, and in certain prologues, he was aware of the value of appearing controversial and skilled at using the pretense of self-defense as an occasion for self-definition. The apologetic technique varies with the opportunities a given theme offers but always serves to highlight a central feature of his oeuvre while carefully grounding it in a legitimating tradition: its frankness and license (parrhēsia: The
Fisherman, The Would-be Critic), its subtlety and novelty (kainotēs: The Double Indictment, Zeuxis), and, most important, the seriousness bobbing beneath its facetious surface (Dionysus)».
Luciano concluderà la sua Apologia dicendo apertamente quello che forse non aveva detto abbastanza chiaramente nell’opera Sui dotti che convivono per
salario, e che aveva causato l’aspra critica da parte di Sabino.
Giustifica la sua scelta di divenire archistrator praefecti dell’Egitto con l’asserzione che non era sua idea imporre a tutti coloro che vogliono essere uomini dabbene di non fare nulla nella vita. Colui che accetta denaro offrendo un servizio utile alla comunità non deve essere biasimato. Coloro invece che si dedicano all’insegnamento della virtù – quando loro stessi in primis ne risultano privi – irretendo i giovani con l’arte della parola e che come parassiti si attaccano alle vesti del più potente, questi sono coloro che vanno criticati e condannati. Costoro sono quelli che si erano venduti la propria libertà per puro desiderio di fama e di arricchimento103.
Il nostro autore però nell’ultima parte dell’Apologia, dopo aver affermato chiaramente e con franchezza (parrhsiva) che «nessuno fa nulla senza mercede»104 - che qui ‘mercede’ non significa necessariamente denaro o stipendio, bensì un compenso di qualsiasi tipo, anche l’elogio –, conclude affermando che gli uomini dabbene devono poter esercitare la propria arte ricavandone un compenso, di qualsiasi tipo esso sia. Ed è proprio a questo punto che egli fa riferimento al suo viaggio in Gallia:
103 Luciano insiste molto sul concetto di libertà. Coloro che vendono sé stessi insegnando la virtù (i
filosofi e gli oratori) e coloro che si stabiliscono nelle case dei più potenti e dei più ricchi col pretesto di insegnare o di consigliare (i sofisti) sono da considerare uomini della peggior specie (Apol. 11 ajllav moi ejkei'no ejnnovhson, wJ" pavmpolu diafevrei, ej" oijkivan tino;" plousivou uJpovmisqon parelqovnta douleuvein kai; ajnevcesqai o{sa moiv fhsin to; biblivon). Distingue poi tra il suo ruolo di ufficiale pubblico a servizio dell’impero e questi ultimi (dhmosiva/ pravttontav ti tw'n koinw'n kai; ej" duvnamin politeuovmenon ejpi; touvtw/ para; basilevw" misqoforei'n), affermando che ciò che divide queste due categorie è, «come dicono i musici, un doppio intervallo d’ottava (euJrhvsei" ga;r to; tw'n mousikw'n dh; tou'to, di;" dia; pasw'n to; pra'gma, kai; tosou'ton ejoikovta" ajllhvloi" tou;" bivou") e che le vite sono tanto rassomiglianti l’una all’altra quanto il piombo all’argento, il rame all’oro, l’anemone alla rosa, la scimmia all’uomo». In comune hanno lo stipendio, ma la sostanza è assai differente. Sull’importanza della retorica e sul ruolo svolto dai sofisti nella società e nella cultura imperiale del II sec. d.C. vd. Bowersock 1969.
104 Luc. Apol. 13 ≠Eqevlw gou'n ejk perittou' crhsavmeno" th'/ parrhsiva/ […] kai; dh; fhmiv soi
mhdevna mhde;n ajmisqi; poiei'n, oujd≠ a]n tou;" ta; mevgista pravttonta" ei[ph/", o{pou mhde; basileu;" aujto;" a[misqov" ejstin. […] ajll≠ e[sti basilei' misqo;" mevgisto" e[painoi kai; hJ para; pa'sin eu[kleia kai; to; ejpi; tai'" eujergesivai" proskunei'sqai. In questo passo si vede quale ossessione fosse diventata per i retori del II sec. d.C. la ricerca della fama (ricavandone ovviamente un compenso monetario) e dell’acclamazione pubblica.
Luc. Apol. 15 sou' mevntoi kai; qaumavsaim≠ a]n ejpitimw'ntov" mou tw'/ nuni; bivw/, ei[ ge ejpitimwv/h", o}n pro; pollou' h[/dei" ejpi; rJhtorikh'/ dhmosiva/ megivsta" misqofora;" ejnegkavmenon, oJpovte kata; qevan tou' eJsperivou ≠Wkeanou' kai; th;n Keltikh;n a{ma ejpiw;n ejnevtuce" hJmi'n toi'" megalomivsqoi" tw'n sofistw'n ejnariqmoumevnoi".
Mi stupirei però che della mia vita attuale mi censurassi, se davvero mi censurassi, tu che di me sapevi da molto tempo che avevo guadagnato grosse somme professando in pubblico la retorica, da quando cioè ti recasti in Gallia per visitarla e per vedere l’Oceano occidentale e là mi incontrasti nel tempo in cui ero nel numero degli oratori alla moda meglio pagati.